Read Ebook: Scritti di Giuseppe Mazzini Politica ed Economia Vol. II by Mazzini Giuseppe
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Carlo Alberto non avrebbe mai fatto, se l'insurrezione del popolo milanese non veniva a porlo nel bivio di perdere la corona, di vedersi una repubblica allato, o combattere.
La battaglia del popolo cominci? il 18 marzo.
Il governo piemontese era inquietissimo per le nuove venute di Francia e per l'inusitato fermento che si manifestava crescente ogni giorno nel popolo dello Stato. Del terrore nato per le cose francesi parlano due dispacci, il primo spedito il 2 marzo a lord Palmerston da Abercromby in Torino , il secondo firmato de Saint-Marsan, parimenti il 2 marzo, e comunicato a lord Palmerston dal conte Revel l'11 . Il fermento interno imponeva al re, il 4 marzo, la pubblicazione delle basi dello Statuto e si sfogava in Genova, il 7, con una sommossa, nella quale il popolo minacciava voler seguire l'esempio di Francia.
Il 20, le nuove in Torino correvano incerte e lievemente sfavorevoli all'insurrezione. Le porte, dicevasi, erano tenute tuttavia dagli Austriaci, e il popolo andava perdendo terreno per difetto d'armi e di munizioni. Durava il fermento in Torino. Un assembramento di popolo chiedeva armi al ministero dell'interno ed era respinto. Il conte Arese, giunto da Milano a chieder soccorsi all'insurrezione, non riesciva a vedere il re; era freddamente accolto dai ministri, e ripartiva lo stesso giorno, scorato, deluso. Vedi un dispaccio di Torino spedito il 21 dall'Abercromby a Palmerston .
Il 22, la vittoria coronava l'eroica lotta. Espugnata porta Tosa da Luciano Manara, caduto pi? tardi martire della causa repubblicana in Roma, occupata dagli insorti porta Ticinese, liberata dagli accorrenti della campagna porta Comasina, separate e minacciate di distruzione immediata le soldatesche nemiche, Radetzky, la sera, non si ritraeva, fuggiva.
Le prime truppe piemontesi entrarono in Milano il 26 marzo.
In altro dispaccio del 25 marzo l'Abercromby esponeva pi? diffusamente a lord Palmerston la condizione delle cose in Piemonte al tempo della decisione--le intenzioni pacifiche del gabinetto Balbo-Pareto--l'insurrezione lombarda--l'immensa azione esercitata dal popolo che minacciava rivolta in Piemonte e assalto agli Austriaci a dispetto dell'autorit? governativa--e l'imminente pericolo alla monarchia di Savoja che avea forzato i ministri alle ostilit?.
ESIGENZE E CONSEGUENZE FUNESTE DELLA GUERRA REGIA. I REPUBBLICANI
Il gretto pensiero dinastico contraddiceva al pensiero generatore del moto. La guerra regia aveva diverso fine, quindi norme diverse non corrispondenti al fine, che l'insurrezione s'era proposto. Dovea spegnere la guerra nazionale, la guerra di popolo, e con essa il trionfo dell'insurrezione.
I poveri ingegni che, avversi alla parte nostra, pur sentendosi impotenti a confutarci sul nostro terreno, hanno sistematicamente adottato un travisamento perenne delle nostre idee e confondono repubblica ed anarchia, pensiero sociale e comunismo, bisogno d'una fede concorde attiva e negazione d'ogni credenza, hanno sovente mostrato di intendere la guerra di popolo come guerra disordinata, scomposta, d'elementi e di fazioni irregolari, senza concetto regolatore, senza uniformit? d'ordini e di materiali, finch? son giunti ad affermare che noi vogliamo guerra senza cannoni e fucili: cose ridicole ma non nostre; e i pochi fatti esciti, a guisa di prologo del dramma futuro, dal principio repubblicano, l'hanno mostrato. I pochi uomini raccolti in due citt? d'Italia intorno alla bandiera repubblicana hanno fatto guerra pi? ostinata e pi? savia che non i molti legati a una bandiera di monarchia.
L'insurrezione lombarda era vittoriosa su tutti i punti quando le truppe regie inoltrarono sul territorio; e si stendeva sino al Tirolo. I volontar? vi s'avviarono, dando la caccia al nemico. I passi che di l? conducono alle valli dell'Adda e dell'Oglio erano occupati dai nostri. L'insurrezione del Veneto s'era compita con miracolosa rapidit? e poneva in mano dei montanari della Carnia e del Cadore i passi che guidano dall'Austria in Italia. Nostre erano Palma ed Osopo. Il mare e le Alpi, come scrive Cattaneo, erano chiusi al nemico. E lo erano per sempre, se all'Alpi ed al mare, al Tirolo e a Venezia, non alle fortezze e al Piemonte, avesse saputo o voluto, come a punti strategici d'operazione, guardare la guerra regia.
L'entusiasmo nelle popolazioni era grande, quanto lo sconforto nel nemico. Una sottoscrizione aperta in Milano il 1.? d'aprile per sovvenire alle spese correnti governative aveva prodotto, il 3, la somma di lire austriache 749 686; un imprestito di 24 milioni di lire proposto dal governo provvisorio trovava, allora, presti ad offrirsi, e senz'utili, i capitalisti. Gli uomini correvano a dare il nome ai CORPI FRANCHI o alle guardie nazionali; le donne gareggiavano, superavano quasi in entusiasmo i giovani dell'altro sesso: preparavano cartuccie, sollecitavan di casa in casa sovvenzioni al governo, soccorrevano negli ospedali ai feriti. Gli Austriaci si ritraevano per ogni dove impauriti, disordinati, tormentati dai volontar?, mancanti di viveri. I soldati italiani disertavano le loro file: in Cremona, il reggimento Alberto, il terzo battaglione Ceccopieri, e tre squadroni di lancieri, in Brescia parte del Haugwitz, altri altrove. Una fregata austriaca stanziata in Napoli, due brick da guerra che incrociavano nell'Adriatico inalzavano bandiera italiana e si davano alla repubblica veneta. All'Austria non rimanevano in Italia--ed ? cifra desunta da relazioni officiali--che 50 000 uomini, rotti, sconfortati, spossati.
Ma tutto quel fremito, tutto quell'entusiasmo che sommoveva a grandi cose l'Italia, parlava di POPOLO e non di PRINCIPE, di nazione e non di misere speculazioni dinastiche. Urtarlo di fronte era cosa impossibile. E comunque il Martini prima, il Passalacqua poi, avessero profferto gli ajuti reg? soltanto a patti di dedizione--comunque i pi? tra gli uomini componenti il governo provvisorio di Milano fossero proclivi e alcuni vincolati a quei patti--nessuno os? per allora stipulare patentemente il prezzo dell'incerta vittoria. Il leone ruggiva ancora: bisognava prima ammansarlo.
Era partito onesto; e i repubblicani lo accettarono, e vi s'attennero lealmente: traditi; poi, al solito, calunniati.
Comunque, la bandiera non era sorta: popolo e monarchia stavano uniti a fronte dello straniero sulle terre lombarde; il popolo avea accettato il programma di neutralit? del governo provvisorio fra tutte parti politiche, e i repubblicani decisero di rinunciare ad ogni iniziativa politica, di aspettare pazienti che la volont? del popolo, vinta la guerra, si palesasse, e di consacrare ogni loro sforzo alla conquista dell'indipendenza.
Ed anche questo ci fu turpemente conteso dagli uomini del provvisorio e dai MODERATI, faccendieri del pensiero dinastico.
I fatti son questi.
Noi non avevamo fiducia che il governo provvisorio, giudicato collettivamente, potesse mai riescire eguale all'impresa. Ma dacch? avevamo, per amor di concordia, accettato il programma di neutralit? fra i due princip? politici, non potevamo spingere uomini dichiaratamente repubblicani al potere e cacciare il guanto ai sospetti e alle irritazioni della parte avversa alla nostra. Per?, gl'influenti fra noi si strinsero intorno ai membri di quel governo, sperando da un lato che i consigli giovassero, dall'altro che il paese vedendoci uniti non rimetterebbe del suo entusiasmo--e finalmente, che il nostro frequente contatto suggerirebbe, per pudore non foss'altro, a quegli uomini di mantenersi sulla via solennemente adottata. Le prime mie parole in Milano furono di conforto al governo; le seconde, chiestemi da persona fautrice di monarchia, furono una preghiera a Brescia perch? in certe sue vertenze con Milano sagrificasse ogni diritto locale all'unione e al concentramento fatto allora indispensabile dalla guerra.
Il governo provvisorio voleva appunto il contrario.
Ignari di guerra e d'altro; fermissimi in credere che l'esercito regio bastasse a ogni cosa; vincolati, i pi? almeno, al patto della fusione monarchica e pensando stoltamente ch'unica via per condurre il disegno a buon porto fosse, che il re vincesse solo e il popolo fosse ridotto a scegliere tra gli Austriaci e lui; poco leali e quindi poco credenti nell'altrui lealt?, proclivi al raggiro politico perch? poveri di concetto, d'amore e d'ingegno--gli influenti tra i membri posero ogni studio nel preparare l'opinione alla monarchia piemontese e nel suscitare nemici alla parte nostra: nessuno nelle cose della guerra, nessuno nell'armare, nell'ordinare, nel mantenere infiammato e militante il paese; i pochi buoni tra loro non partecipavano al disegno, partecipavano al fare e al non fare per debolezza di tempra o per vincoli d'amist? individuale.
La condotta dei repubblicani fu semplice e chiara.
Se non che il governo era pur troppo, nato appena, incadaverito; n? galvanismo di consigli repubblicani poteva infondergli vita.
Sorgevano momenti ne' quali sembrava che il governo si destasse al senso della condizione delle cose de' propr? doveri, e allora--come chi per istinto sente dov'? l'energia--ricorreva ai repubblicani; ma tradiva le sue promesse e ricadeva nel sonno il d? dopo. Un messo segreto dal campo, una parola di faccendiere cortigiano, bastavano a mutare le intenzioni. Il povero popolo, gi? avviluppato in mille modi dai raggiratori, traeva forse da quel contatto inefficace tra noi e il governo nuova illusione di securit?. E citer? un solo esempio.
Due giorni dopo, l'assenso all'arruolamento dei volontar? era rivocato. E quanto al comitato di guerra, fu trasformato in comitato di difesa pel Veneto e subito dopo in commissione di soccorsi al Veneto composta di membri del governo, e finalmente in nulla. Il segretario faccendiere di Carlo Alberto, Castagneto, aveva detto: <
D'esemp? siffatti, io potrei citarne, se lo spazio concedesse, parecch?.
Sul cominciare di quel secondo periodo, quando la violazione del programma governativo era gi? decisa, e mentre io era gi? assalito, pel mio tacermi, di calunnie e minaccie da tutte parti, mi giunse inviato dal campo, e messaggiero di strane proposte, un antico amico, patriota caldo e leale. Parlava a nome del Castagneto gi? nominato, segretario del re, e proponeva: CH'IO MI FACESSI PATROCINATORE DELLA FUSIONE MONARCHICA, M'ADOPRASSI A TRARRE ALLA PARTE REGIA I REPUBLICANI, E M'AVESSI IN RICAMBIO INFLUENZA DEMOCRATICA QUANTA PI? VOLESSI NEGLI ARTICOLI DELLA COSTITUZIONE CHE SI DAREBBE; COLLOQUIO COL RE e non so che altro.
L'amico part?. Pochi d? dopo mi fu fatto leggere un biglietto del Castagneto, che diceva: VEDO PUR TROPPO CHE DA QUESTO LATO NON V'? DA FAR NULLA. Quando mai pu? un'idea generosa, potente d'amore e d'avvenire per una nazione, allignare nel cuore d'un re?
Noi seguimmo a tacer di politica e a giovare come meglio potevamo, d'opera e di consiglio, la guerra. Ma la guerra non era pi? italiana, non era lombarda; era piemontese e d'una fazione. Ministero, organizzazione, amministrazione, tutto era in mano d'uomini devoti ad essa. Il governo non aveva missione da quella infuori di ricevere i bollettini dal campo e magnificarli e preparare il funesto decreto del 12 maggio.
Ed esc?. Il programma di neutralit? fu violato, quando pei sinistri eventi, che facevano presagire la catastrofe non lontana, importava pi? che mai attenervisi, per non gittar nuovi semi di discordia nel campo, per non togliere apertamente il suo carattere nazionale alla guerra, e per lasciar non foss'altro eredit? d'un principio alla insurrezione futura. Noi perorammo, scongiurammo il governo, ma inutilmente. Volevan servire.
E allora--allora soltanto--noi sentimmo necessit? di protestare in faccia all'Italia. Quei che erano a quei giorni in Milano sanno che il farlo non era senza pericolo. E dovrebb'essere nuovo indizio a tutti, avversi o propiz?, che noi non avevamo lungamente taciuto se non per amor di patria e per non rompere quella concordia, che, anche apparente, poteva giovare alla guerra.
Il d? seguente al decreto, pubblicammo il documento seguente:
AL GOVERNO PROVVISORIO CENTRALE DELLA LOMBARDIA.
< < < < < < < < < < < < < < <>. Fin dall'aprile, per odio ai volontar? e obbedienza alla diplomazia, l'impresa del Tirolo s'era abbandonata. Il Friuli era perduto e aperto al nemico. E perduta era la provincia veneta, dove Padova, Vicenza, Treviso, Rovigo, l'una dopo l'altra cadevano senza che un soldato del re movesse a soccorrerle: ai regi importava, non di salvare il Veneto, ma di strappare, col terrore della rovina e con false speranze di redenzione, a Venezia il voto del 5 luglio. Promesse date a governi stranieri contendevano ogni operazione--e poteva riescir decisiva--contro Trieste. La flotta sarda, in virt? d'obblighi reiteratamente e inesplicabilmente contratti, si rimaneva inattiva: l'11 giugno, ad ajutare in Venezia i raggiratori della fusione, s'era annunciato che in un coi Veneti i legni sardi avrebbero tentato una impresa; ma, raggiunto l'intento, l'ordine di mossa si rivocava. Gli Austriaci, rinforzati a lor senno, maturavano gli estremi disegni. Poco dopo il decreto del 12 maggio, il re di Napoli aveva richiamato le sue truppe. Le dichiarazioni del papa a Durando avevano reso pressoch? inutili gli ajuti romani. L'atto di fusione aveva, rivelando nuovi pericoli ai governi italiani dall'ambizione della casa di Savoja, tolta ogni speranza di cooperazione da parte loro; aveva, col fantasma d'una costituente sardo-lombarda, irritati pi? sempre i timori, gli od? e maneggi segreti dell'aristocrazia torinese. Le tristi necessit?, che accennammo pi? sopra, della guerra regia avevano creato il vuoto e l'isolamento intorno al campo di Carlo Alberto. E a isolarsi in Europa, a privarsi d'ogni speranza di soccorso dall'estero, sommavano le necessit? della regia diplomazia: tortuosa del resto come fu sempre la politica di casa Savoja, e incerta e tentennante come il pensiero del re. La storia diplomatica di quel periodo ? tuttavia arcana e rimarr? tale per qualche tempo. Vivono, e pressoch? tutti in potere, gli uomini che la maneggiarono; e importa ad essi sottrarne i documenti alle povere aggirate popolazioni. Per?, anche la collezione inglese, citata pi? volte, ? visibilmente manchevole nella parte che pi? rileva. Ma le linee principali trapelano di sotto al velo e giova, a compimento di questo lavoro, accennarle. Un primo progetto, steso da chi non si nomina nella collezione--e credo sia Colloredo--fu discusso l'11 maggio nel consiglio dei ministri in Vienna e mandato il 12 da Ponsonby a Palmerston. ? l'unico savio che potesse escire da Vienna; e cominciando dal confessare la onnipotenza dell'idea nazionale in Italia, propone che, accettata la mediazione dell'Inghilterra e del papa, e sancito un armistizio in virt? del quale gli Austriaci terrebbero la linea dell'Adige, si convochino i consigli comunali del Lombardo-Veneto e si chieda se vogliano entrare nella confederazione italiana, della quale l'Austria si farebbe promovitrice, sotto la sovranit? di quest'ultima con un arciduca a vicer?, rappresentanza nazionale, costituzione e codice proprio--o se preferiscano indipendenza assoluta con compensi finanziar? e commerciali da stabilirsi. Dichiarando prima il grande principio della nazionalit? italiana e ponendosi a un tratto quasi fondatrice d'una confederazione italica a patto che questa dichiarasse stretta e permanente neutralit? europea, e l'Europa se ne facesse, come per la Svizzera, mallevadrice, l'Austria serbava, secondo l'estensore del progetto, una possibilit? di successo nella votazione, costituiva a ogni modo la propria influenza sulla confederazione, staccava l'Italia dalla temuta influenza francese e la condannava alla debolezza inerente ad ogni paese, per volont? di potenze, neutrale. Ed era infatti sola via di salute e di nuova attitudine in Europa per l'Austria, alla quale lo scrittore dimostrava sin d'allora l'impotenza della vittoria con parole che meritano d'essere qui registrate, come confessione preziosa strappata dall'ingegno e dall'esame dei fatti ad uomo non nostro. <
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