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Read Ebook: Spagna by De Amicis Edmondo

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Ebook has 602 lines and 102132 words, and 13 pages

Ma, insomma, un giudizio finale sulle corse dei tori! Sono o no una cosa barbara, indegna d'un popolo civile? Sono o no uno spettacolo che guasta il cuore? Fuori una parola schietta! Una parola schietta? Io non voglio, rispondendo in un modo, tirarmi addosso un diluvio d'invettive, e rispondendo in un altro, darmi della zappa sui piedi, dacch? debbo confessare che sono andato al Circo tutte le domeniche. Ho narrato e descritto, il lettore ne sa quanto me, giudichi lui, e mi conceda di non metterci bocca.

Vidi, a Madrid, la famosa cerimonia funebre che si celebra ogni anno, il 2 di maggio, in onore degli Spagnuoli che morirono combattendo, o furon passati per l'armi dai soldati francesi, sessantacinque anni or sono, in quella tremenda giornata che emp? d'orrore l'Europa e fece scoppiare la guerra d'indipendenza.

All'alba tuona il cannone, e in tutte le chiese parrocchiali di Madrid, e dinanzi a un altare eretto accanto al Monumento si comincia a celebrar messe, e si seguita fino a sera. La ceremonia consiste in una solenne processione che parte per lo pi? dalle vicinanze del palazzo reale, va a sentire un sermone nella chiesa di Sant'Isidoro, dove giacquero sepolte fino al 1840 le ossa del morti; e poi si reca al Monumento a sentire la messa.

In tutte le strade per le quali dovea passare la processione erano schierati i battaglioni dei volontari, i reggimenti di fanteria, gli squadroni di corazzieri, le guardie civili a piedi, le artiglierie, i cadetti; da ogni parte suonavan trombe, tamburi, bande; si vedeva da lontano, al di sopra della folla, un viavai continuo di cappelli di generali, di pennacchi d'aiutanti, di bandiere, di spade; accorrevano da tutte le strade le carrozze del Senato e delle Cortes, grandi come carri trionfali, dorate fin nelle ruote, listate di velluto e di seta, sopraccariche di frangie e di fiocchi, e tirate da superbi cavalli impennacchiati. Le finestre di tutte le case erano ornate di arazzi e di fiori; tutto il popolo di Madrid era in moto.

La processione sbocc? nel Prado e si diresse verso il Monumento. I viali, i campi, i giardini erano pieni di popolo. Le signore ritte nelle carrozze, sulle seggiole, sui sedili di pietra, coi bambini tra le braccia; gente sugli alberi e sui tetti; a ogni passo, bandiere, iscrizioni funebri, elenchi delle vittime del 2 di maggio, poesie appiccicate ai tronchi delle piante, giornali listati di nero, stampe rappresentanti episodi della strage, ghirlande, crocifissi, tavolini con vassoi per limosine, candele accese, ritratti, statuette, giocattoli pei ragazzi coll'immagine del Monumento; per tutto ricordi del 1808, emblemi, segni di lutto, di festa, di guerra. Gli uomini quasi tutti vestiti di nero; le donne in gran gala, con lunghi strascichi e il velo; frotte di contadini accorsi da tutti i villaggi, coi loro panni festivi; e in mezzo a tutta questa folla un grid?o assordante di acquaiuoli, di guardie, di ufficiali.

Arriv? il Re, fu celebrata la messa, sfilarono tutti i reggimenti, e termin? la cerimonia. Cos? si celebra l'anniversario del 2 di maggio dal 1814 in poi, con una dignit?, con un affetto, con una venerazione, che non onora solamente il popolo spagnuolo, ma il cuore umano. ? la vera festa nazionale della Spagna, ? il solo giorno dell'anno in cui tacciono le ire di parte, e tutti i cuori si uniscono in un sentimento comune. N? in questo sentimento, come si potrebbe credere, ? nulla d'amaro contro la Francia. La Spagna ha rovesciato tutta la colpa della guerra, e delle stragi che ne furono cagione, sovra Napoleone e Murat; i Francesi sono amichevolmente accolti come tutti gli altri stranieri; delle infauste giornate di maggio non si parla che per rendere onore ai morti e alla patria; tutto, in questa cerimonia, ? nobile e grande; dinanzi a quel sacro Monumento la Spagna non ha che parole di perdono e di pace.

Un'altra cosa da vedersi, a Madrid, sono i combattimenti dei Galli.

Tutti urlano, agitano le mani, si accennano l'un l'altro col bastone, le scommesse s'incrociano in tutti i sensi; in pochi momenti v'? un migliaio di lire in gioco.

I due galli, da principio, non si guardano. Uno volto da una parte, l'altro dall'altra, cantano, allungando il collo verso gli spettatori, come se domandassero:--Che cosa volete?--A poco a poco, senza far segno di essersi visti, s'avvicinano; pare che l'uno voglia pigliar l'altro di sorpresa. All'improvviso, colla rapidit? del lampo, spiccano un salto coll'ali aperte, s'urtan nell'aria, e ricadono, spandendo intorno un nuvolo di penne. Dopo il primo urto, si fermano, e si piantano l'uno dinanzi all'altro, col collo teso e i becchi che quasi si toccano, guardandosi fissi, immobili, come se volessero avvelenarsi cogli occhi. Poi di nuovo s'avventano l'un contro l'altro con una grande violenza, dopo di che gli assalti si succedono senza interruzione. Si feriscono a zampate, a spronate, a colpi di becco; si stringono coll'ali in modo che paiono un gallo solo con due teste; si caccian l'un sotto il ventre dell'altro, si sbattono contro i ferri della ringhiera, si inseguono, cadono, strisciano, svolazzano; e via via i colpi si fan pi? fitti, volan via le piume della testa, i colli diventan color di fuoco, e metton sangue. Poi prendono a punzecchiarsi nel capo, intorno agli occhi, negli occhi, si scarnificano colla furia di due forsennati che abbian paura d'esser divisi; par che sappiano che uno dei due deve morire; non mettono una voce, non un gemito; non si sente che lo strepito delle ali agitate, delle penne che si rompono, dei becchi che picchian nell'ossa; e non un istante di tregua; ? un furore che va dritto alla morte.

A un certo punto, uno dei due galli fa un movimento che tradisce l'inferiorit? delle sue forze, e comincia a dar segno di stanchezza. Pur resistendo sempre, le sue beccate si succedon pi? rade, le sue spronate pi? fiacche, i suoi salti pi? bassi; par che comprenda che dovr? morire; non combatte pi? per uccidere, combatte per non essere ucciso; retrocede, fugge, cade, si rialza, torna a cadere, barcolla come preso dal capogiro. Allora lo spettacolo comincia ad essere orribile. Dinanzi al nemico che cede, il vincitore inferocisce; le sue beccate cadono fitte, rabbiose, spietate negli occhi della vittima colla regolarit? dell'ago d'una macchina da cucire; il suo collo s'allunga e scatta col vigore d'una molla, il suo becco afferra le carni, si torce e dilania; poi si figge nella ferita, e vi si dibatte come per cercare le fibre pi? riposte; poi picchia e ripicchia sul capo, come se volesse aprire il cranio e cavarne il cervello. Non c'? parola che esprima l'orrore di quel picchiare continuo, instancabile, inesorabile. La vittima si dibatte, scappa, s'aggira per la gabbia, e quegli dietro, accanto, addosso, indivisibile come un'ombra, colla testa china su quella del fuggitivo come un confessore, sempre picchiando, punzecchiando, lacerando. Ha qualcosa dell'aguzzino, del boia; par che dica qualcosa nell'orecchio alla sua vittima, par che accompagni ogni colpo con un insulto:--To', prendi, soffri, muori, no! vivi, prendi anche questa, quest'altra, ancor una!--Un po' della sua rabbia sanguinaria s'insinua nelle vostre vene, quella crudelt? codarda vi mette una smania di vendetta, lo strozzereste colle vostre mani, gli schiacciereste il capo col piede. Il gallo vinto, tutto intriso di sangue, spennato, vacillante, tenta ancora di tratto in tratto qualche assalto, d? qualche beccata, e sfugge, e si slancia contro i ferri della ringhiera per cercare uno scampo.

Mi avvicinai alla ringhiera, guardai il gallo vinto e torsi il viso con raccapriccio. Non aveva pi? pelle, non aveva pi? occhi, il suo collo non era pi? che un osso sanguinoso, il capo era un teschio, le ali, ridotte a tre o quattro penne, strascicavano come due cenci; pareva impossibile che cos? disfatto potesse vivere e camminare; non aveva pi? forma. Eppure quel resto, quel mostro, quello scheletro stillante di sangue, si difendeva ancora, si dibatteva nelle tenebre, scotendo le ali dimezzate come due moncherini, allungando il collo scarnificato, agitando il teschio a caso, qua e l?, come i cani neonati; era schifoso ed orribile; io socchiudevo gli occhi per vederlo in confuso. E il carnefice continuava a beccare le piaghe, a sforacchiare le occhiaie, a picchiare sul nudo cranio; non era pi? una lotta, era un rodimento; pareva che volesse disfarlo, senza ucciderlo; a volte, quando la vittima rimaneva un momento immobile, si chinava a guardarla coll'attenzione d'un anatomico; a volte si scostava e la guardava dall'alto coll'indifferenza d'un becchino; poi di nuovo addosso coll'avidit? d'un vampiro, e l? becca, e succhia e strazia con pi? vigore di prima. Finalmente il moribondo, fermatosi all'improvviso, chin? il capo a terra come preso dal sonno, e il carnefice, guardandolo attentamente, ristette.

Il gallo moribondo rialz? adagio adagio la testa; il boia, pronto, gli rovesci? addosso una tempesta di beccate; le grida tornarono a scoppiare; la vittima fece di nuovo un leggero movimento,--tocc? un'altra beccata,--si scosse,--tocc? una beccata ancora,--vers? sangue per la bocca, vacill? e cadde. Il vincitore, vigliacco, si mise a cantare. Venne un servitore e li port? via tutti e due.

Io diedi un'occhiata al campo di battaglia, ed uscii. Qualcuno esiter? a crederlo: quello spettacolo mi fece pi? orrore che la prima corsa dei tori. Non avevo idea d'una ferocia cos? crudele; non credevo, prima di vedere, che una bestia, dopo averne reso impotente un'altra, potesse torturarla, martoriarla, straziarla in quel modo, coll'accanimento dell'odio e colla volutt? della vendetta; non credevo che il furore d'una bestia potesse giungere al segno di presentare il carattere della pi? forsennata malvagit? umana. Oggi ancora, ed ? trascorso tanto tempo, ogni volta che ricordo quello spettacolo, volto involontariamente la testa da un lato, come per fuggir l'orrenda vista del gallo moribondo; e non mi accade mai di metter le mani sovra una ringhiera, senza ch'io abbassi gli occhi coll'idea di vedere il suolo sparso di penne e di sangue. Se andrete in Spagna, seguite il mio consiglio:

IL CONVENTO DELL'ESCURIALE.

Prima di partire per l'Andalusia andai a vedere il famoso convento dell'Escuriale, il Leviatan dell'Architettura, l'ottava meraviglia del mondo, il pi? gran mucchio di granito che esista sulla terra, e se volete altre denominazioni grandiose, immaginatene pure, ch? non ne troverete nessuna che non gli sia stata ancora applicata. Partii da Madrid di buon mattino. Il villaggio dell'Escurial, che diede il nome al convento, ? a otto leghe dalla citt?, a poca distanza dal Guadarrama; e la strada attraversa una campagna arida e spopolata, chiusa all'orizzonte da monti coperti di neve. Quando arrivai alla stazione dell'Escuriale, veniva gi? una pioggiolina fitta e fredda che dava i brividi. Dalla stazione al villaggio c'? un mezzo miglio di salita; m'infilai in una diligenza, e di l? a pochi minuti fui sbarcato in una strada solitaria, fiancheggiata a sinistra dal convento, a destra dalle case del villaggio, e in fondo chiusa dalla montagna. A primo aspetto non si raccapezza nulla; si credeva di vedere un edifizio, si vede una citt?; non si sa se si ? gi? dentro al convento o se si ? ancora fuori; da ogni parte si vedon quelle mura; si va oltre, ci si trova in una piazza; si guarda attorno, si vedon delle strade; non si ? ancora entrati, e gi? il convento ci circonda, e noi abbiamo perduto la bussola, e non sappiamo pi? da che parte voltarci. Il primo sentimento ? tristo: tutto l'edifizio ? di pietra color terrigno, e rigato di bianco tra pietra e pietra; i tetti son coperti di lamine di piombo. Sembra un edifizio di terra. Le mura sono altissime e nude, e hanno un gran numero di finestre che paion feritoie. Pi? che un convento, si direbbe che ? una prigione. Per tutto si vede quel color cupo, morto; e non anima viva, e un silenzio di fortezza abbandonata; e di l? dai tetti neri, la montagna nera, che par che penda sull'edifizio, e gli d? un'aria di misteriosa solitudine. Il luogo, le forme, i colori, ogni cosa par scelto da chi fond? l'edifizio coll'intento di offrire agli occhi degli uomini uno spettacolo tristo e solenne. Prima d'entrare, voi avete perduto la vostra gaiezza; non sorridete pi?, pensate. Vi arrestate alle porte dell'Escuriale con una sorta di trepidazione, come alle porte d'una citt? vuota; vi pare che, se in qualche angolo del mondo regnasse ancora il terrore della Inquisizione, dovrebbe regnar tra quelle mura; direste che l? dentro se n'ha a vedere l'ultima traccia e a sentire l'ultima eco.

Tutti sanno che la basilica e il convento dell'Escurial furon fondati da Filippo II dopo la battaglia di San Quintino, in adempimento d'un voto fatto a san Lorenzo, durante l'assedio, quando gli assedianti eran stati costretti a cannoneggiare una chiesa consacrata a quel santo. Don Juan Batista di Toledo inizi? l'opera, l'Herrera la comp?; i lavori durarono vent'un anno. Filippo II volle che l'edifizio presentasse la forma d'una graticola a commemorazione del martirio di san Lorenzo; e tale ? infatti la sua forma. Il piano ? un parallelogrammo rettangolare. Ai quattro angoli s'alzano quattro grandi torri quadrate col tetto a punta, che rappresentano i quattro piedi della graticola; la chiesa e il palazzo reale che sorgon da un lato, simboleggiano il manico; gli edifizi interni che congiungono i due lati pi? lunghi, tengon luogo delle sbarre traversali. Altri edifizi minori sorgono fuori del parallelogrammo, a breve distanza dal convento, lungo uno dei lati lunghi, e uno dei corti, e formano due grandi piazze; dagli altri due lati sono i giardini. Facciate, porte, atrii, ogni cosa ? in armonia colla grandezza e col carattere dell'edifizio; ed ? inutile ammontar descrizioni su descrizioni. Il palazzo reale ? splendidissimo, e convien vederlo, per non mescolar poi disparate impressioni, prima di entrare nel convento e nella chiesa. Questo palazzo occupa l'angolo levante-tramontana dell'edifizio. Alcune sale son piene di quadri, altre tappezzate dal pavimento alla volta di tappeti che rappresentan corse di tori, balli popolari, giuochi, feste, costumi spagnuoli, disegnati dal Goya; altre regalmente mobiliate e parate; il pavimento, le porte, le finestre coperte di meravigliosi lavori d'intarsio e di dorature stupende. Ma fra tutte le sale ? notevole quella di Filippo II; una cella meglio che una sala, nuda e squallida, con un'alcova che risponde all'oratorio reale della chiesa, in modo che dal letto, tenendo schiuse le porte, si pu? vedere il sacerdote che dice la messa. Filippo II dormiva in quella cella, vi fece la sua ultima malattia e vi mor?. Si vedono ancora alcune seggiole usate da lui, due panchettini sui quali appoggiava la gamba tormentata dalla gotta, e uno scrittoio. Le pareti son bianche, il soffitto piano e senza ornamenti, il pavimento di mattoni.

Visto il palazzo reale, si esce dall'edifizio, si attraversa la piazza e si rientra per la porta principale. Un custode vi si attacca ai panni, attraversate un ampio vestibolo, vi trovate nel cortile dei Re. L? vi potete formare una prima idea della immane ossatura dell'edifizio. Il cortile ? tutto chiuso da muri; dal lato opposto alla porta ? la facciata della chiesa. Sur una spaziosa gradinata s'alzano sei enormi colonne doriche, ognuna delle quali sostiene un grande piedestallo, e ogni piedestallo una statua. Son sei statue colossali, di Battista Monegro, rappresentanti Giosafat, Ezechiello, Davide, Salomone, Giosu?, Manasse. Il cortile ? lastricato, sparso di cespi d'erba, umido; i muri paion roccie tagliate a picco; tutto ? rigido, massiccio, pesante, e offre non so che fantastico aspetto di edifizio titanico, cavato in una montagna di pietra, e atto a sfidare le scosse della terra e i fulmini del cielo. L? si comincia a capire che cosa sia l'Escuriale.

Si sale la gradinata e si entra nella chiesa.

Dalla sacrestia andammo al Panteon. Un custode con una fiaccola accesa mi precedette, scendemmo una lunga scala di granito, giungemmo a una porta sotterranea dove non penetrava raggio di luce. Al di sopra di questa porta si legge la seguente iscrizione in lettere di bronzo dorato:

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Dopo la chiesa e la sacrestia, si va a visitare il Museo di pittura, che contiene un gran numero di quadri d'artisti d'ogni paese, non gi? de' migliori, ch? questi furon portati al Museo di Madrid; ma pur tali da meritare una visita attenta di mezza giornata. Dal Museo di pittura si va alla Biblioteca, passando per la grande scala sulla quale s'incurva una smisurata v?lta tutta dipinta a fresco da Luca Giordano. La Biblioteca ? composta d'una vastissima sala ornata di grandi pitture allegoriche, che contiene pi? di cinquantamila volumi preziosissimi, quattromila dei quali regalati da Filippo II, e d'un'altra sala dove ? una ricchissima raccolta di manoscritti. Dalla Biblioteca si va al Convento.

Che respirone si tira a quella finestra!

Di l? si vedono i giardini, che occupano uno spazio ristretto, e son semplicissimi; ma quanto si pu? dire eleganti e belli, e in perfetta armonia coll'edifizio. Vi si vedon dodici leggiadre fontane, ciascuna circondata da quattro quadrati di mortella che rappresentano scudi reali, disegnati con un gusto s? squisito e arrotondati con una tal finitezza, che a guardarli sulle finestre, paion tessuti di felpa e di velluto, e formano nella bianca arena dei sentierini un graziosissimo spicco. Non alberi, non fiori, non capanni: in tutto il giardino non si vedono che fontane, quadrati di mortella, e due soli colori, il verde e il bianco; ed ? tale la bellezza di quella nobile semplicit?, che non se ne pu? staccare lo sguardo, e quando lo si ? staccato, il pensiero vi ritorna, e ci si arresta con un diletto dolcissimo temperato di una sorta di mestizia gentile. In una stanza vicina a quella che guarda in sul giardino, mi si fece vedere una serie di reliquie, che considerai in silenzio senza lasciar trapelare al custode il mio intimo sentimento di dubbio: una scheggia della santa croce regalata dal Papa a Isabella II, un pezzo di legno bagnato del sangue, ancora visibile, di san Lorenzo, un calamaio di santa Teresa, ed altri oggetti, fra i quali un altarino portatile di Carlo V, e una corona di spine e un par di tanaglie da tortura, trovate non so pi? dove. Di l? mi condussero sulla cupola della chiesa di dove si gode un colpo d'occhio immenso. Da un lato lo sguardo si stende per tutta la campagna montuosa che corre fra l'Escuriale e Madrid; dall'altro si vedono le montagne nevose del Guadarrama; sotto, si abbraccia con un'occhiata tutto lo smisurato edifizio, i lunghi tetti di piombo, le torri; si vede nell'interno dei cortili, dei claustri, dei portici, delle gallerie; si possono ricorrere col pensiero i mille andirivieni dei corridoi e delle scale, e dire:--Un'ora fa ero laggi?--qui--lass?--l? sotto--laggi? lontano,--e maravigliarsi d'aver fatto tanto cammino, e rallegrarsi d'essere uscito da quel labirinto, da quelle tombe, da quelle tenebre, e di poter tornare in citt? e rivedere gli amici.

E poich? siamo all'eloquenza politica diamo uno sguardo alla letteratura. Raffiguriamoci una sala di Accademia piena di confusione e di strepito. Una folla di poeti, di romanzieri e di scrittori d'ogni natura, aventi quasi tutti qualcosa di francese nel volto e nei modi, bench? studiosissimi tutti di non lasciarlo parere; leggono e declamano le opere loro, facendo gli uni a soverchiar la voce degli altri, a fine di farsi sentire dal popolo accalcato nelle tribune; il quale, dal canto suo, bada a legger le gazzette e a disputar di politica. A quando a quando una voce vibrata e armoniosa vince il tumulto; e allora cento voci, prorompono insieme in un canto della sala, gridando:--? un carlista!--e una salva di fischi tien dietro alle grida; oppure:--? un repubblicano!--e un'altra salva di fischi, da un'altra parte, soffoca la voce vibrata e armoniosa. Gli accademici si tirano dei giornali rappallottolati, si urlan l'un l'altro nell'orecchio:--Ateo!-- Gesuita!-- Demagogo!-- Neo-cattolico!-- Banderuola!-- Traditore!--A tender ben l'orecchio verso quei che leggono, si colgono strofe armoniose, periodi ben torniti, frasi potenti; il primo effetto ? gradevole; son davvero poesie e prose piene di calore, di vita, di sprazzi di luce, di felici comparazioni tolte da tutto quello che splende e che suona nel cielo e sul mare e sulla terra; e ogni cosa vagamente lumeggiato di colori orientali e riccamente vestito di armonie italiane. Ma ahim?! non ? che letteratura per gli occhi e per gli orecchi; non ? che musica e pittura; raramente la musa, in mezzo a un nembo di fiori, lascia cadere la gemma d'un pensiero; e di codesta pioggia luminosa non rimane che un leggiero profumo nell'aria, e l'eco d'un lieve mormorio nell'orecchio. Intanto, s'odon nella strada grida di popolo, colpi di fucili e suon di tamburi; a ogni tratto, qualche artista diserta l'arringo, e va a sventolare una bandiera tra la folla; spariscono a due, a tre, a frotte, e vanno a ingrossare il drappello dei gazzettieri; lo strepito e la vicenda continua degli avvenimenti, distolgono i pi? tenaci dalle opere di lunga lena; invano qualche solitario nella folla grida:--In nome del Cervantes, fermate!--Alcune voci potenti si sollevano al di sopra di quel grid?o; ma son voci d'uomini raggruppati in disparte, molti dei quali in procinto di partire per un viaggio senza ritorno. ? la voce dell'Hatzembuch, il principe del dramma; ? la voce del Breton de los Herreros, il principe della commedia; ? la voce dello Zorrilla, il principe della poesia; ? un orientalista che si chiama Gayango, un archeologo che si chiama Guerra, un commediografo che si chiama Tamayo, un novelliere che si chiama Fernand Caballero, un critico che si chiama Amador de Los Rios, un romanziere che si chiama Fernandez y Gonzalez, e una schiera d'altri ingegni arditi e fecondi; in mezzo ai quali ? ancora viva la memoria del gran poeta della rivoluzione, Quintana; del Byron della Spagna, Espronceda; d'un Nicasio Gallego, d'un Martinez della Rosa, d'un duca di Rivas. Ma il tumulto, il disordine e la discordia invadono ed avvolgono, come un torrente, ogni cosa. E per uscir di allegoria, la letteratura spagnuola si trova in quasi eguali condizioni della nostra: una schiera di illustri che declinano; ma che ebbero due grandi ispirazioni: o la religione o la patria, o entrambe; e che per? lasciarono un'orma propria e durevole nel campo dell'arte; e una schiera di giovani che vengono innanzi a tentoni, domandando che cosa hanno da fare, piuttosto che facendo davvero; ondeggianti tra la fede e il dubbio, o aventi la fede senza il coraggio, o non avendola, indotti dall'uso a simularla; malsicuri anch' essi della propria lingua, e titubanti fra le Accademie che gridano:--Purezza!--e il popolo che grida:--Verit?!; incerti tra la legge della tradizione e il bisogno del momento; lasci?ti, in un canto dai mille che danno la fama o vituperati dai pochi che la suggellano; costretti a pensare in un modo e a scrivere in un altro, a non esprimersi interi, a lasciarsi sfuggire il presente per non si staccare dal passato, a barcamenarsi alla meglio fra opposte difficolt?. Gran ventura poter far surnuotare, per qualche anno, il proprio nome al torrente di libri francesi onde il paese ? allagato! Dal che nasce lo sconforto prima nelle proprie forze e poi nel genio nazionale; e di qui o l'imitazione che mantiene nella mediocrit?, o l'abbandono della letteratura dai larghi studi e dalle larghe speranze, per il facile e proficuo scribacchiar nei giornali. Unico, fra le tante rovine, riman ritto il teatro. La nuova letteratura drammatica non ha pi? dell'antica n? l'invenzione meravigliosa, n? la forma splendida, n? quell'impronta originale di nobilt? e di grandezza, che era propria d'un popolo dominatore dell'Europa e del Nuovo Mondo; e meno ancora la fecondit? incredibile e la variet? senza fine; ma per compenso una pi? sana dottrina, un'osservazione pi? profonda, una delicatezza pi? squisita, e una maggiore conformit? allo scopo vero del teatro, che ? di correggere i costumi e di nobilitare i cuori e le menti. In tutte le opere letterarie poi, come nel teatro, nei romanzi, nei canti popolari, nei poemi, nelle storie, sempre vivo e dominante il sentimento che informa pi? profondamente, forse, che ogni altra letteratura europea, la letteratura spagnuola, dai primi tentativi lirici del Berceo ai vigorosi inni guerrieri del Quintana:--l'orgoglio nazionale.

E appunto la tradizione della guerra d'indipendenza costituisce nel popolo spagnuolo una forza intima immensa. Chi non sia vissuto o poco o molto in Spagna non pu? credere che una guerra, per quanto fortunata e gloriosa, possa lasciare in un popolo una cos? profonda fede nel valor nazionale. Baylen, Victoria, San Marcial sono tradizioni per la Spagna assai pi? efficaci che non siano per la Francia Marengo, Jena, Austerlitz. La stessa gloria guerriera degli eserciti di Napoleone, veduta a traverso la guerra d'indipendenza che vi stese su il primo velo, appare agli occhi della Spagna assai meno splendida che a ogni altro popolo d'Europa. L'idea di una invasione straniera desta negli Spagnuoli un sorriso di sdegnoso disprezzo; non credono alla possibilit? d'esser vinti nel loro paese; bisognava sentire con che t?no parlavan della Germania quando correva voce che l'imperatore Guglielmo fosse risoluto a sostenere colle armi il trono del duca d'Aosta. E non c'? dubbio che, se avessero a combattere una nuova guerra d'indipendenza, forse combatterebbero, con meno fortunato successo, ma con prodezza e costanza pari a quella maravigliosa che spiegarono allora. Il 1808 ? il 93 della Spagna; ? una data che ogni spagnuolo ha dinanzi agli occhi scritta in carattere di fuoco; se ne gloriano le donne, i ragazzi, i bambini che cominciano a scioglier la lingua; ? il grido di guerra della nazione.

Con codesta natura calda e espansiva della gente, ? impossibile stare un mese a Madrid senza farsi cento amici, anche senza cercarli. Figuratevi quanti se ne pu? far chi li cerca. Questo era il caso mio. E non posso dir proprio amici, ma conoscenti ne ebbi tanti che non mi pareva pi? di essere in una citt? straniera. Anche gli uomini illustri sono di facilissimo abbordo e per? non c'? bisogno, come altrove, di un monte di lettere e d'imbasciate d'amici per arrivar fino a loro. Ebbi l'onore di conoscere il Tamayo, l'Hatzembuch, il Guerra, il Saavedra, il Valera, il Rodriguez, il Castelar, e molti altri chiarissimi quali nelle lettere e quali nelle scienze, e li trovai tutti a un modo: aperti, cordiali, focosi; uomini coi capelli bianchi, ma con occhi e voci di giovani ventenni; appassionati per la poesia, per la musica, per la pittura; allegri, gesticolanti, ridenti d'un riso fresco e sonoro. Quanti ne vidi leggendo dei versi del Quintana o dell'Espronceda, impallidire, piangere, balzare in piedi come scossi da una scintilla elettrica, e mostrar tutta l'anima negli sguardi raggianti! Che giovanili anime! Che ardenti cuori! Come mi compiacevo, vedendoli ed ascoltandoli, di appartenere a questa povera razza latina, di cui diciamo ora le sette p?ste, e come mi rallegravo pensando che pi? o meno siamo tutti fatti su quello stampo, e che, perdio, potremo abituarci a poco a poco a invidiare lo stampo degli altri, ma non riusciremo a perdere il nostro mai!

Dopo tre mesi e pi? di soggiorno a Madrid, dovetti partire per non lasciarmi poi cogliere dall'estate nel mezzogiorno della Spagna. Ricorder? sempre quella bella mattina di maggio, ch'io abbandonai, forse per sempre, la mia cara Madrid. Partivo per andar a vedere l'Andalusia, la terra promessa dei viaggiatori, la fantastica Andalusia della quale avevo tanto inteso decantare le meraviglie in Italia e in Spagna, dai romanzieri e dai poeti; quell'Andalusia per la quale posso dire che avevo impreso il viaggio; eppure ero tristo. Avevo passato tanti bei giorni a Madrid! Ci lasciavo tanti cari amici! Per andare alla stazione della strada ferrata del mezzogiorno, attraversai la strada d'Alcal?, salutai da lontano i giardini di Recoletos, passai davanti al palazzo del Museo di pittura, mi fermai a guardare ancora una volta la statua del Murillo, e arrivai alla stazione col cuore stretto.--Tre mesi?--domandavo a me stesso pochi momenti prima che il treno partisse;--son gi? passati tre mesi? Non ? stato un sogno? Eppure s?, gli ? come se avessi sognato! Non rivedr? forse mai pi? la mia buona padrona di casa, mai pi? la bambina del signor Saavedra, mai pi? il viso dolce e sereno del Guerra, mai pi? gli amici del caff? Fornos, mai pi? nessuno! Ma che! Non potr? tornare?... Tornare! Oh no! Lo so bene che non potr? tornare! E allora... addio, amici! Addio, Madrid! Addio, o mia piccola stanza di strada dell'Alduana!--Mi pare che in questo momento mi si strappi una fibra nel cuore, e sento il bisogno di nascondere il viso.

ARANJUEZ.

Guardai intorno: la vasta campagna deserta s'era trasformata come per incanto, in un immenso giardino pieno di boschetti leggiadrissimi, percorso in tutti i sensi da larghi viali, sparso di casine campestri e di capanni fasciati di verzura; e qua e l? zampilli di fontane, e recessi ombrosi, e prati fioriti, e vigneti, e sentierini, e un verde, un fresco, un odor di primavera, un'aura di letizia e di piacere, da imparadisare l'anima. Eravamo arrivati a Aranjuez. Discesi dal treno, infilai un bel viale ombreggiato da due file di alberi giganteschi, e mi trovai dopo pochi passi in faccia al palazzo reale.

<<.... Tutto ? pace e silenzio E pi? di lor non si ragiona....>>

TOLEDO.

Quando ci si avvicina a una citt? sconosciuta, bisognerebbe aver accanto qualcheduno che l'avesse gi? vista, e ci potesse avvertire del momento opportuno per metter la testa fuori e coglierne l'aspetto con un colpo d'occhio. Ebbi la fortuna di essere avvertito per tempo. Un tale mi disse:--Ecco Toledo!--ed io saltai al finestrino, e feci un'esclamazione di meraviglia.

Quale citt?! Sul primo momento mi sentii mancare il respiro. La carrozza aveva infilato una stradina tanto stretta che i m?zzi delle ruote toccavan quasi i muri delle case.

"Ma perch? passate di qui?" domandai al vetturino.

Il vetturino si mise a ridere, e rispose: "Perch? non c'? altra strada pi? larga."

"O che tutta Toledo ? fatta cos??" ridomandai.

"Tutta fatta cos?!" rispose.

"? impossibile!" esclamai.

"Vedr?!" soggiunse.

"A veder Toledo" risposi.

"Solo?"

"Solo; perch? no?"

"Ma ? gi? stato qui altre volte?"

"Mai."

"Allora non pu? andar solo."

"E perch??"

"Perch? si smarrir?."

"Dove?"

"Appena uscito."

"O la ragione?"

"La ragione ? questa;" rispose, accennandomi un muro al quale era affissa una pianta di Toledo. M'avvicinai e vidi un garbuglio di linee bianche sur un fondo nero che pareva uno di quei ghirighori che fanno i ragazzi sulla lavagna per consumare il gesso a dispetto del maestro. "Non importa," dissi, "voglio andar solo; e se mi smarrir?, mi troveranno."--"Non far? cento passi," osserv? il fattorino. Uscii e infilai la prima strada che vidi, tanto stretta che, allargando le braccia, toccavo tutti e due i muri. Fatti cinquanta passi, mi trovai in un'altra strada pi? stretta della prima, e da questa riuscii in una terza, e via cos?. Mi pareva di girare, non per le strade d'una citt?, ma per gli anditi d'un edifizio; e andavo oltre coll'idea di dover riuscire da un momento all'altro in un luogo aperto.--? impossibile,--pensavo,--che la citt? sia tutta costruita in questa maniera; non ci si potrebbe vivere.--Ma via via che procedevo, mi sembrava che le strade si facessero pi? strette e pi? corte; ogni momento dovevo svoltare; dopo una strada curva, veniva una strada a zig-zag, dopo questa un'altra fatta ad uncino, che mi riconduceva nella prima, e cos? giravo per un pezzo sempre in mezzo alle stesse case. Di tratto in tratto riuscivo in un crocicchio di parecchi vicoli che scappavano in direzioni opposte, e quale si perdeva nel buio d'un portico, quale urtava, dopo pochi passi, contro il muro d'una casa, quale scendeva gi? come per sprofondarsi nelle viscere della terra, quale s'arrampicava per un'erta salita; alcuni, larghi appena tanto da dar passo ad un uomo; altri stretti in mezzo a due muri senza porte e senza finestre; tutti fiancheggiati da edifizii di grande altezza, che lasciavano apparire appena una sottile striscia di cielo fra tetto e tetto; con poche finestre munite di grosse inferriate, con grandi porte tempestate di chiodi enormi, con cortili angusti ed oscuri. Camminai un pezzo senza incontrar nessuno, fin che riuscii in una delle strade principali, tutta fiancheggiata da botteghe e piena di contadini, di donne, di ragazzi; ma poco pi? larga d'un corridoio ordinario. Ogni cosa ? proporzionato alla strada: le porte paion finestre, le botteghe paion nicchie, e vi si vedon dentro tutti i segreti della casa: la tavola apparecchiata, i bambini in culla, la madre che si pettina, il padre che si cambia la camicia; tutto ? l? sulla strada; non par di essere in una citt?, ma in una casa abitata da una sola grande famiglia. Svolto in una strada meno frequentata, non vi si sente il ronz?o d'una mosca, il mio passo risuona fino al quarto piano degli edifizii, qualche vecchierella fa capolino alla finestra. Passa un cavallo, par che passi uno squadrone: tutti s'affacciano a guardar che cosa segue. Il pi? leggero rumore echeggia in ogni parte; un libro che cade in una stanza al secondo piano, un vecchio che tosse in un cortile, una donna che si soffia il naso non so dove; si sente tutto. In qualche punto cessa ad un tratto ogni rumore, siete soli, non vedete pi? segno di vita: son case da streghe, crocicchi da congiure, chiassuoli da tradimenti, angiporti da delitti, finestrine da colloquii d'amanti infami, porte sinistre che fanno sospettare scale macchiate di sangue. Ma pure in tutto questo laberinto di strade non ce n'? due che si somigliano; ognuna ha qualcosa di proprio; qui un arco, l? una colonnetta, pi? oltre una scultura; Toledo ? un emporio di tesori d'arte; per poco che si scrostino i muri, si scoprono in ogni parte dei ricordi di tutti i secoli: bassorilievi, arabeschi, finestrine moresche, statuette. I palazzi hanno porte munite di lastre di metallo incise, di martelli istoriati, di chiodi colle teste cesellate, di scudi, di emblemi; e formano un bel contrasto colle case moderne dipinte a ghirlande, medaglioni, amori, urne, animali fantastici. Ma questi abbellimenti non tolgono nulla all'aspetto severo e tristo di Toledo. Dovunque volgiate lo sguardo, v'? qualche cosa che vi rammenta la citt? forte degli Arabi; per poco che la vostra immaginazione lavori, riesce a ricomporre, coi tratti rimasti qua e l?, tutto il disegno del quadro cancellato, e allora l'illusione ? completa; rivedete la gran Toledo del medio evo; e dimenticate la solitudine e il silenzio delle sue strade. Ma ? un'illusione di pochi istanti, dopo la quale ricadete in una trista meditazione, e non vedete pi? che lo scheletro della citt? antica, la necropoli di tre imperi, il grande sepolcro della gloria di tre popoli. Toledo vi rammenta i sogni fatti da giovanetti dopo la lettura di leggende romanzesche del medio evo. Voi avrete visto molte volte, nei sogni, delle citt? oscure, cinte di fossi profondi, di mura altissime, di roccie inaccessibili; e sarete passati su quei ponti levatoi, e sarete entrati in quelle strade torte ed erbose, ed avrete respirato quell'aria umida di prigione e di tomba. Ebbene, avete sognato Toledo.

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