Read Ebook: Annali d'Italia vol. 8 dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 by Coppi Antonio Muratori Lodovico Antonio
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ANNALI D'ITALIA
DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE SINO ALL'ANNO 1750
DA L. ANTONIO MURATORI
E CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI
VOLUME OTTAVO
CONTINUAZIONE
AGLI ANNALI D'ITALIA
DI LOD. ANT. MURATORI
Chiunque abbia letto sin qui gli Annali d'Italia compilati da Lodovico Antonio Muratori avr? veduto quale immensa tela sia venuto intessendo l'illustre autore per discorrere l'italiana istoria di questi dieciotto secoli, senza che dalla necessit? di balzare ogni anno da un punto all'altro della penisola sia derivato al suo lavoro interrompimento o disordine; ed avr? insieme ammirato in che giudizioso modo sia egli riuscito a mettere in tutto il loro lume i veri motivi che preparato hanno i pi? notabili cambiamenti e le conseguenze che gli accompagnarono; a fissare i luoghi e i tempi precisi che sono stati il teatro, o l'epoca degli innumerevoli avvenimenti narrati; a disgombrare ogni incertezza dall'ignoranza, dalla malizia, dalla inavvertenza o precipitazione degli antichi scrittori passata negli scrittori susseguenti; a sceverare dalle favole la verit?; a rendere la dovuta giustizia a quei personaggi che le passioni aveano indebitamente o encomiati o biasimati, e, se dato non era raggiugnere la certezza, ad accennarne almeno ci? che pi? alla probabilit? ed alla verisimiglianza si atteneva; ad interessare infine i lettori con un quadro svariatissimo in cui i trionfi o i danni della virt? contrastano colle alternate vicende del vizio, talvolta fortunato, ma quasi sempre punito o almeno smascherato e fatto segno al dispregio ed all'odio universale.
Spesa la maggior parte della vita a scorrere il vasto campo della erudizione, indagando, discutendo ed illustrando le antichit? dell'Italia, il Bibliotecario modonese, divenuto per tal guisa possessore d'immensi tesori, o sconosciuti o generalmente poco noti, si apr? la strada alla grande impresa, cui il fino suo discernimento giov? ad appianare e ad imprimere di quella profonda ragione storica che spicca in tutti gli altri suoi scritti.
Esattezza somma e precisione riguardo ai luoghi, ai tempi ed alle cose accadute principalmente dal cominciare del quinto secolo sino al principio del decimosesto; sagacit? e gran fondo di sana critica per determinare la vera cronologia, n? ammettere ciecamente il maraviglioso d'una fantasia riscaldata, n? i pravi giudizii della malignit? o i delirii d'una puerile superstizione; esposizione sincera delle pi? strepitose rivoluzioni, se pur non abbia a dirsi delle calamit? dell'Italia, purificata da quella tinta bugiarda che il genio, il partito, il timore o la speranza, la disperazione o il dolore aveano consigliato agli scrittori contemporanei; ecco il frutto delle estesissime cognizioni in fatto di storia acquistate coi diuturni suoi studii dal nostro Muratori, il quale, non taciuti i vizii ed i difetti, ma n? anche per avventura le virt? degli Attila, degli Alarico, degli Odoacre, degli Alboino, de' due Pippino, dei Carlo Magno, narra poi con ordine, con chiarezza e con tutta la imparzialit? le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, i travagli dei romani pontefici, le intestine discordie delle citt?, le mutazioni dei reggimenti, le rivalit? delle provincie ed il contendere dei varii popoli, i fasti e le sciagure di questa, bella e troppo sventurata parte dell'Europa.
Se non che, ad esercitare le precipue virt? dello storico, il proprio giudizio e la sincerit?, grandemente libero campo gli lasciava la lontananza dei tempi dei quali tenea parola; laonde potea rendere omaggio al merito, al valore ed alla virt? senza che nissuna gelosia si accendesse, e giustamente notare d'infamia il demerito, la vilt? ed il vizio senza tema di dispiacere ad alcuno. Imperocch?, estinti interamente o in molto gl'interessi del momento, raffreddato lo spirito di parte, cessate le nemicizie e le rivalit?, ed in tutto o parzialmente sanate le piaghe ad una nazione cagionate da disgrazie e da politici o guerrieri flagelli, pu? lo scrittore farsi sicuro di non incorrere s? di leggieri la taccia di maligno, di bugiardo, di adulatore, d'entusiasta, e sottrarre si pu? al pericolo di essere male interpretato, come se la sua fantasia preoccupata gli avesse fatto invadere il dominio della fredda ragione, o se il preteso suo zelo animato si fosse con danno di qualche altra passione.
Ma ben altramente procede la bisogna per chi imprenda a parlare di cose correnti e vicine: non v'ha cautela che basti. Sia pure e debba pur essere la verit? l'anima dello storico, debba pur tutto subordinarsi alla sua legge, ognuno per? conviene che grande riservatezza ? mestieri nel maneggiare questa verit? della storia che ignuda non pu? sempre comparire mentre ancor durano e sono in fermento gl'interessi ed i partiti, gli odii e gli affetti degli uomini, le cui azioni formano il tema della narrazione, e, peggio ancora, mentre questi uomini vivono non solo, ma eziandio tengono in mano la forza ed il potere.
Ad ogni modo, narreremo ogni cosa, e narreremo senza amore e senz'ira, procacciandoci di mantenere quel coraggioso sangue freddo che non ci far? mai sagrificare la verit? alle preoccupazioni, l'imparzialit? ai lamenti ed ai motteggi degli appassionati e dei malevoli. Niuno per? voglia istituir un confronto tra il classico autore, al cui lavoro apponiamo queste continuazioni, e noi. Senza l'ingegno, altissimo in lui, in noi molto modesto, differentissime sono le condizioni ed i tempi. Mancava, o almeno scarseggiava il Muratori di memorie e documenti, e dovea trar fuori il suo racconto per la maggior parte dalla polvere delle biblioteche e degli archivii; abbonda adesso strabocchevolmente la suppellettile, ed eccede le forze dell'uomo il tutte librarne le parti sopra giusta lance, per discernere, nella frequentissima loro contraddizione, nel vario atteggiamento, nel diverso procedere, il vero dal falso, e far capitale di quello, questo rigettando. I tempi remoti si lasciavano esaminare, ponderare quetamente; i vicini tempi non consentono tutta calma; strascinano seco impetuosi chi si pone a descriverli, n? lasciano quella libert? di esporre, di giudicare, di sentenziare che avrebbe chi i fatti raccontasse dell'antica Grecia o di Roma, ai quali ciascheduno presta quella parte di compassione che alle vicende de' suoi simili generalmente concede, non quell'altra intimamente sentita, profonda, prepotente, che nelle cose proprie forzatamente, necessariamente, avvien che riponga.
Per le quali considerazioni tutte, bandito il paragone che dicevamo, ne conforta la coscienza di aver fatto il meglio che per noi si potesse, nei ristretti limiti che pur ci vengono prefissi.
ANNALI D'ITALIA
DALL'ANNO 1750 FINO AI GIORNI NOSTRI
Narrata dall'illustre Muratori, alla fine dell'immortale opera sua, la pace anche all'Italia donata col famoso trattato d'Aquisgrana del 1748, posto in esecuzione nell'anno susseguente in una colle condizioni convenute nel congresso di Nizza nello stesso anno concluso; ed esposto dal lodato autore la situazione in cui, al cadere del 1749, veniva per ci? a trovarsi l'Italia; si pu? da questo punto incominciare la nuova carriera per vedere le varie perturbazioni, bench? minime e quasi innocenti, che ne avvennero in appresso, finch? poi verso la fine del secolo scorso ed al principio del presente fu tutta sconvolta e trasformata.
Ripigliando pertanto il filo della narrazione, ci faremo da Roma e dalle circostanze del presente anno 1750, ch'era l'anno santo.
Ma tanta sua ed altrui compiacenza fu in gran parte amareggiata da un'inaspettata disgrazia, accaduta in Roma nel termine dell'anno stesso. Per le dirotte pioggie continuate ingrossato il Tevere, usc? dal letto con furore eguale a quello onde avea traripato ai tempi d'Augusto, cagionando un'orribile innondazione non solo nelle vicine campagne, dove in alcuni punti coverse fino le cime degli alberi, ma in molte principali contrade della citt?, nelle quali non si potea praticare se non con barchette. Nell'universale spavento e nella terribile calamit? non manc? il governo di apprestare le pi? opportune provvidenze, e di far eseguire tutto ci? che potea ridondare in vantaggio del pubblico; e Benedetto, con tenerissimo paterno affetto, gemendo per quelli che le acque impedivano di uscire a procacciarsi il vitto, ordin? che per mezzo di barche fosse ad essi gratuitamente somministrato il bisognevole.
Ed a viemmaggiormente funestare l'animo del pontefice, altre disgrazie amare si aggiunsero. Una pretesa di violazione dei privilegii e diritti della chiesa e del seminario di San Giacomo degli Spagnuoli avea messo in aperto disgusto la corte di Spagna con quella di Roma. Volea il re di Sardegna che nella promozione de' cardinali fosse inchiuso monsignor Merlini, nunzio alla sua corte, e che colla vendita delle pi? ricche badie del Piemonte fosse formato un appannaggio al duca di Savoia, a similitudine dell'infante don Luigi di Spagna. Faceva grande rumore nell'imperio, tra' principi della casa di Hohenlohe, il ristabilimento di certi consistori e ministri luterani nelle incumbenze dalle quali avea il conte cattolico di Hohenlohe trovato il modo di spogliarsi; e tutti i nunzii pontifizii nelle corti di Germania, considerando questo dissidio di gran rilievo per la religione e per la corte di Roma, ne aveano dato parte al papa. Una fiera persecuzione dei cristiani alla China, rinovando contro i medesimi i pi? rigorosi editti di sangue, e della quale rimasti erano vittime generose quattro Domenicani, oltre al vescovo di Mauricastro, facea giustamente temere non in quelle contrade si risvegliasse contro i fedeli un odio simile a quello che un secolo prima gli avea percossi al Giapone. Ma tra tutte le perturbazioni che toccavano l'animo del pontefice, quella che diede maggiormente allora a parlare fu la disputa insorta tra la repubblica di Venezia e la casa d'Austria pel patriarcato d'Aquileia.
Da quel tempo i patriarchi furono sempre veneziani; e continuando a risiedere in Udine, esercitarono, dopo la lega di Cambrai, la giurisdizione ecclesiastica non solo sopra Aquileia, ch'era passata nel Friuli austriaco, ma eziandio nella parte della diocesi compresa ne' dominii della casa d'Austria, giurisdizione che mai sempre dispiacque ai principi di quella casa. Si convenne pertanto tra gli arciduchi d'Austria ed i Veneziani che le due potenze godessero alternativamente del diritto di nominare a questo patriarcato. Ma la convenzione si ridusse alle parole; poich? gli Austriaci non giunsero mai a godere del diritto, per l'attenzione sempre posta da' patriarchi d'Aquileia, veneziani, a scegliersi veneziani coadiutori, loro concessi dal senato, e muniti di bolle pontificie per la futura successione. Richiamossi l'imperadrice Maria Teresa contro questa usurpazione de' Veneziani, pretendendo che la tolleranza de' suoi predecessori non avesse valso a prescrivere il diritto che anch'essi avevano alla elezione del patriarca; ed i Veneziani, fondando la loro pretensione sopra il non essersi mai fatto da' principi della casa d'Austria uso del combattuto diritto.
Il re di Sardegna si profer? mediatore nella contesa, ma dal senato veneto non ottenne se non un rendimento di grazie. Fu proposto di smembrare il patriarcato, e di formarne due vescovadi, da stabilirsi l'uno ad Udine, l'altro a Gorizia; ma anche siffatta proposizione fu dal senato rigettata; ed il nuovo vicario apostolico, recatosi ad Aquileia, il possesso pigli? di quella dignit?, malgrado le opposizioni de' Veneziani. Vollero questi ancora qualche tempo resistere; ma, troppo deboli forse per opporsi alle forze dell'Austria, acconsentirono finalmente alla proposta divisione: fu per? stabilito che abolito sarebbe il titolo di patriarca d'Aquileia, e ripartita la diocesi in due vescovadi, dei quali la nomina apparterrebbe per l'uno al senato, per l'altro ai sovrani dell'Austria.
A mantenere il benefizio della pace, di cui gi? da un anno erasi incominciato a godere in Italia, aveano il massimo interesse le due corti di Vienna e di Madrid; avvegnach?, se l'imperadore Francesco I possedeva i dominii della casa de Medici, due principi della casa regnante di Spagna teneano il regno delle Due Sicilie, e l'eredit? della casa Farnese. Il conte Esterazi adunque, ministro cesareo alla corte di Madrid, in varie conferenze avute col signor di Carvaial e Lancastro, e col marchese dell'Ensenada, principali ministri del gabinetto spagnuolo, propose che, per allontanare il pericolo di nuove turbolenze, e stabilire la pace sulla base degli antichi trattati, il re Cattolico s'impegnasse di non prendere parte, n? direttamente n? indirettamente, in qualunque guerra che insorger potesse in Italia, nel caso che, contra ogni aspettativa, se ne accendesse alcuna che fosse prodotta da una causa straniera agli interessi di Sua Maest? Cattolica e della sua famiglia; che l'imperadrice regina, dal canto suo, per cooperare al medesimo fine, guarentisse nella pi? solenne forma gli Stati de' quali era in possesso il re delle Due Sicilie, non meno che quelli posseduti dall'infante don Filippo in vigore del trattato di Aquisgrana; che la stessa malleveria si facesse dall'imperadore nella sua qualit? di granduca di Toscana; che finalmente, in forza di tale accordo, rimanesse estinta e diffinita ogni scambievole pretesa, oppure, se alcuna ne restasse, sopra la quale le due corti non si fossero acconciate, si avesse diffinire amichevolmente.
Intanto che il conte Esterazi adoperava in tal modo alla corte di Madrid, un altro abile ministro della corte di Vienna, il conte Beltrame Cristiani, gran cancelliere di Milano, prevaleasi del suo soggiorno a Torino, dove erasi trasferito per regolare i punti di commercio tra gli Stati del re di Sardegna e la Lombardia austriaca, onde disporre l'animo di quel sovrano ad entrare nella convenzione meditata e stabilita tra l'imperadrice regina Maria Teresa e Ferdinando VI re di Spagna. Riusciti felicemente ne' loro maneggi ambedue i detti ministri, in brevissimo tempo venne fra le corti di Vienna, Madrid e Torino stipulato un trattato, di cui questa era la sostanza. Nel caso che le truppe nemiche invadessero gli Stati del re di Sardegna, dovesse l'imperadrice regina somministrargli un aiuto di sei mila uomini; fornisse ella lo stesso numero di gente per difesa del re delle Due Sicilie, dell'infante duca di Parma e del duca di Modena, allorch? gli Stati di questi principi si trovassero nello stesso caso; ad uguale sussidio fosse tenuto il re di Sardegna, nel caso che fossero attaccati i dominii posseduti in Italia dalla imperadrice regina, e ad egual impegno verso di essa fosse vincolato anche il re di Spagna; facesse Sua Maest? Cattolica il medesimo riguardo al re di Sardegna, e questi verso la Maest? Sua; in ognuno di questi casi il re delle Due Sicilie somministrasse cinque mila uomini di truppe ausiliarie, e tre mila per ciascheduno l'infante duca di Parma ed il duca di Modena; dovesse finalmente ciascuna delle parti stare mallevadrice pei dominii dalle altre rispettivamente posseduti in Italia, nello stato medesimo in cui allora si trovavano.
Ma la genovese repubblica, che da venti anni teneva a s? conversi gli sguardi dell'Europa per quella ribellione della Corsica, che, dopo la tanto decantata dei Paesi Bassi al tempo di Filippo II, non avea avuta ne' secoli moderni l'eguale o per l'energia de' suoi sforzi, o per la costanza nelle disgrazie o per l'accorgimento, trovossi nel presente anno in non troppo felici contingenze.
Si ? veduto a suo luogo come la citt? di Bastia, capitale dell'isola, gi? smantellata pel furibondo fulminare di bombe e cannoni d'una squadra inglese, fosse dal suo governatore genovese abbandonata in mano del colonnello Rivarola, che con tre mila Corsi sollevati se le faceva sotto.
Non vogliamo qui lasciar di notare, perch? da nessuno storico riferito, ma pure consegnato nelle memorie d'un insigne naturalista franzese, che un ministro della corte di Francia, vedendo lo spirito sempre inquieto e tumultuante di quelle popolazioni, propose di far tagliare tutti gli alberi de' castagni di quell'isola, che il nutrimento per alcuni mesi fornivano agli abitanti, affinch? costretti fossero a coltivare nelle lor montagne i grani e per ci? distratti dalle guerriere imprese; senza avvedersi che in quelle selve montane mai non si sarebbero seminate le biade, e che il popolo, privo d'un mezzo ad esso fornito dalla natura, ne sarebbe pi? feroce divenuto ed indomabile.
Poich? pertanto il congresso d'Aquisgrana non avea fatto nessun conto della supplica colla quale i Corsi in commoventi termini esponevano le cagioni della loro insurrezione, ed imploravano l'assistenza delle corti europee onde non rimanere pi? oltre sottoposti alla oppressione de' Genovesi, quegl'isolani continuarono a coraggiosamente combattere per la loro indipendenza. Gi? la Francia, che, per tornare i ribelli all'ubbidienza del senato genovese avea, dopo il conte di Boisseux, spedito in Corsica il marchese di Maillebois, il quale disse ai Corsi come Sua Maest? Cristianissima prendesse la loro isola sotto la sua tutela e protezione, venuta era in determinazione di sostituire a questo comandante generale il marchese di Cursay. Ora, comandando questi da vicer?, contribu? molto a rendere sempre pi? odioso il governo antico ed attuale della repubblica di Genova; e la grande autorit? che arrogavasi fece insiememente nascere puntigli e serie contese tra lui ed i comandanti generali, che volevano sostenere il decoro ed i diritti della genovese repubblica.
Cotali disordini presero gran piede nei primi mesi di quest'anno in molte occasioni, e principalmente per certa paglia niegata da alcuni luoghi al marchese di Cursay, che volea pagarla, ed a lui invece fornita da' Corsi sollevati senza verun pagamento. Da ci? insorte nuove questioni tra le truppe franzesi e le genovesi, unite a' Corsi fedeli, s? che vennero pi? volte alle mani, quel comandante dovette appigliarsi al partito di vietare a' suoi di approssimarsi ai presidii genovesi. D'uopo ? notare che mentre i Corsi sostenevano una lotta accanita coi Genovesi, le diverse corti, e quelle specialmente di Francia e di Spagna, gelose erano a vicenda, e timorose sempre che l'isola cadesse in dominio dell'una o dell'altra; dal che derivava che mentre si ostentava talvolta di prestare aiuto ai Genovesi, e di voler ricondurre la pace, non si lasciava di fomentare in qualche modo la sollevazione e di favoreggiare l'indipendenza di quella nazione.
Intanto la discordia, che regnava tra' Franzesi e Genovesi, riaccese quella delle comunit? del regno, senza che il generale franzese, il quale procurava di sopirla, o almen frenarla con la dolcezza e con l'autorit?, prevalesse a ristabilire la quiete, spesso interrotta da vie di fatto funeste e sanguinose.
Informata la repubblica di Genova di quanto era accaduto ed accadeva in Corsica tra il marchese di Cursay ed il suo comandante, tra le milizie di ambedue le parti e tra le comunit? del regno, elesse subito il marchese Giacomo Grimaldi, uomo di gran merito e di molta estimazione, per mandarlo nuovo commissario in Corsica a trattare col comandante franzese un aggiustamento di tutte quelle vertenze; inviando al suo ministro a Parigi ampie istruzioni onde giustificare presso quella corte il modo di operare suo e de' suoi.
Ma anche il marchese di Cursay avea gi? di tempo in tempo portate alla sua corte le proprie doglianze, e da ultimo l'aveva ragguagliata delle recenti contese; senza nel frattempo tralasciar l'esecuzione degli ordini ricevuti dal cavaliere di Chauvelin, plenipotenziario del re a Genova, di convocare pei 10 del mese di giugno un'assemblea generale del regno, onde farvi l'elezione di cinque deputati, che, unitamente con lui, col plenipotenziario suddetto e coi commissarii del senato di Genova, dovevano trasferirsi a Tolone, per regolarvi diffinitivamente in una specie di congresso tutte le bisogna della Corsica.
L'adunanza non ebbe luogo, perch? la Francia, disgustata grandemente, per le relazioni del Cursay, e de' Genovesi e de' Corsi, venne in determinazione di richiamare dalla Corsica le sue genti, lasciando in balia di s? stessi non meno quegli abitanti che la repubblica di Genova; e gi? tutto era apparecchiato per la partenza.
Sensibilissima riusc? alla repubblica e del pari ai capi de' Corsi l'imminente partenza delle truppe franzesi dall'isola, perci? che lasciavanla esse in un abisso di disordini, de' quali non poteasi sperare allora n? rimedio n? fine. Fecero dunque lor pruove ambe le parti per sospendere l'effetto della presa risoluzione, il senato di Genova dando ordine a' suoi deputati in Parigi di sottomettersi a qualunque soddisfazione che il gabinetto di Versaglies esigesse, e promettendo i Corsi di ricevere con intera sommissione quei regolamenti che al re piacesse di fare intorno agli affari loro.
A questi passi, un altro i Corsi ne mandarono dietro. Quattro fra i deputati recaronsi a Bastia, e a nome di tutta la nazione rinnovarono al gi? detto commissario Grimaldi le sicurezze della loro sommissione e del sincero loro ritorno sotto il dominio dell'antico legittimo Sovrano, presentandogli in pari tempo, ed alla presenza del cavaliere de Chauvelin, una lettera, nella quale, riconoscendo la repubblica per loro sola e legittima sovrana, protestavano che la principal cura dei padri di famiglia e de' capi delle comunit? sarebbe stata quella di avvezzare i popoli al dovere ed alla subordinazione, e nel tempo stesso imploravano dal commissario che volesse presso la Repubblica interporsi, affinch? ottenesse dal re di Francia che tuttavia in Corsica restassero le sue truppe, mezzo valevole, forse e unico per assodare quella tranquillit? che per esse si era veduta a rinascere. A simile domanda furono i Corsi indotti per un fine politico: sudditi, essi non potevano chiedere al re l'ulteriore soggiorno delle sue milizie; sembrava inconveniente che lo facesse la repubblica riguardo ad un paese pacificato e messo sotto la sua obbedienza; il re di Francia di suo moto proprio nol dovea. Dall'altro canto a tutti conveniva, o per interesse o per decoro, che quegli armati si rimanessero. Fu dunque trovato l'espediente della lettera, che togliea di mezzo tutti gli scrupoli e delicatezze.
Se non che non tard? molto a manifestarsi la necessit? di quelle truppe. I deputati che aveano firmata la pacificazione della Corsica furono disapprovati da' loro committenti di l? dai monti, che si sollevarono, e se di qua il fuoco non iscoppi? n? cos? presto n? con tanto impeto, covava sotto la cenere, ed anzi si credette che di qui partissero le scintille che appiccarono l'incendio dall'altra parte.
Gli abitanti di Niolo, considerati sempre come i meno trattabili dell'isola tutta, furono i primi a tumultuare contro il regolamento, perch? non procacciasse i vantaggi ch'eransi fatti sperare, non parlando esso punto de' privilegii della nazione, che pur erano l'argomento principale della gran lite co' Genovesi, e per tal modo rimanevano, come per l'addietro, soggetti all'autorit? dispotica della Repubblica e de' suoi uffiziali. N? a persuadere i Niolesi e gli altri abitanti di parecchie pievi della parte oltramontana, che ne avevano seguito l'esempio, valsero le parole dell'abbate Olivetto, ecclesiastico molto stimato da quelle genti, ed il medesimo che per esse avea scritto alla corte di Francia promettendo a loro nome tutta la sommessione, perch? si lasciassero nell'isola le truppe che il re ne avea richiamate: prese di bel nuovo l'armi, posero ogni cosa in disordine tale, che forse potea dirsi peggiore di quel di prima. Se non che, recatosi sui luoghi il marchese di Cursay con buona mano di soldati, giunse a calmare gli animi ed i ribelli, deposte l'armi, gli diedero anche statici per sicurezza della loro fede: vedremo in appresso che calma e che sommissione fossero quelle.
I corsari africani, che in quest'anno ricomparvero baldanzosi sulle acque della Corsica, ed ogni d? faceano udire il suono di qualche novella preda, e minacciavano di sbarco le coste dell'Italia, senza che a reprimerne l'insolenza valessero una squadra napolitana e le galee di Malta e del pontefice, furono cagione di grave querela tra la corte di Napoli e quella di Vienna.
Avendo le galee pontificie e napoletane data la caccia a due galeotte tunisine, ne catturarono una; ma l'altra riusc? a ripararsi sotto il cannone della torre del Giglio, situata all'altura degli Stati de' presidii, sulle terre all'imperadore spettanti nella sua qualit? di granduca di Toscana. Allora le galee pontifizie, cessando l'impresa, diedero di volta; ma le napoletane, niente curando i segnali del comandante della torre, che avvisava trovarsi la galeotta in paese sicuro, l'incalzarono s?, che costrinsero i Turchi a salvarsi in terra, dove pure sbarcati, gli attaccarono pi? volte, finch? li videro in luogo di sicurezza, e quindi condussero seco il legno nemico ed una barca napolitana poc'anzi da quello predata, in tutta questa fazione lavorando col cannone gagliardamente con qualche danno eziandio della torre, che continuava a protestare ed a far fuoco per far rispettare i suoi diritti.
Informata la corte imperiale, allora residente a Presburgo, dell'accaduto, lo imperadore, come granduca di Toscana, considerandosi altamente offeso per la violenza praticata a quel corsaro sotto la sua protezione, chiese alla corte di Napoli pronta e solenne soddisfazione colla restituzione immediata del bastimento predato. Alle quali rimostranze re Carlo rispose, aver lui fatto pi? volte rappresentare alla reggenza di Firenze non potersi avere riguardo alcuno alla pretesa neutralit? della corte di Toscana, per? che di questa i Barbareschi prevalevansi per impunemente e come da sicuro asilo assaltare le navi napoletane con incredibile danno de' suoi sudditi e del loro commercio; n? dovere quindi parere strano se il duca di San Martino, comandante delle galee napoletane, non avea avuto difficolt? di assalire il legno tunisino, trovatosi appunto nel caso per cui state erano mosse quelle doglianze e proteste. O sia che cotale risposta fosse riconosciuta concludente, o che altri motivi a ci? consigliassero, l'affare rimase allora sopito.
Tuttavia, a mettere qualche rimedio al sommo pregiudizio che generalmente recava al commercio d'Italia, quel ricovero che ne' porti di Toscana trovavano i Barbareschi, per la pace da Francesco I imperadore, quale granduca, colle reggenze africane conchiusa; mosse calde lagnanze alla corte di Vienna dal papa, dal re di Sardegna e dalle repubbliche di Genova e di Lucca; l'imperadore stesso, sul cui animo avere doveano maggior forza le ragioni giustissime di quattro italiane potenze che non qualunque trattato o impegno in cui fosse entrato coi governi di Barbaria, s'indusse finalmente a permettere alla reggenza di Firenze di servirsi delle due navi da guerra recentemente a Porto Ferraio tornate dal Levante, per tener lontani dalle coste di Toscana i corsari, non permettendo loro di accostarsi, se non ne' casi di disgrazia, che furono specificati. Alla quale permissione imperiale fu allora creduto che maggiormente avessero contribuito i lamenti de' negozianti di Livorno per le ingiustizie ed avanie che le loro navi pativano da coloro, a' quali la fede de' trattati era lieve freno per trattenerli dal commettere mille estorsioni ed iniquit?.
Come dunque una congregazione di uomini, s? innocente nel suo vantato istituto, s? benefica ne' pretesi suoi effetti, che proponeasi di mettere in pratica quelle sante massime che, proposte dal Vangelo colla promessa di non terminature ricompense, trovano nondimeno tra i cristiani s? scarso numero di cultori, come mai farsi pot? sospetta ai governi, tirarsene addosso lo sdegno, e meritar in fine d'esser punita? Facile a conciliarsi ? l'apparente contraddizione. La societ? dei Liberi Muratori ? tutta fondata sul pi? rigoroso secreto. Coloro che vi sono ammessi non entrano a parte del mistero, e nulladimeno si esige da essi sotto i pi? terribili giuramenti di starne fedeli al silenzio. Se la societ? ha per oggetto del suo istituto la virt?, a che tanta precauzione per tenere celata la sostanza delle sue massime e delle sue dottrine? Perch? non far vedere agl'iniziati il codice della loro associazione? A che tanta diffidenza, a che tanta gelosia?
La convenzione nell'anno scorso da noi mentovata, tra le corti di Vienna, Madrid e Torino, fu nell'anno presente ridotta a solenne trattato, reso poi celebre sotto il nome di trattato di Madrid, o di Aranjuez, dal luogo in cui fu stipulato, ed il quale in sostanza non era che una pura rinnovazione della convenzione sopraccennata, le sole mutazioni fatte consistendo negli aiuti scambievoli promessi da' tre sovrani in caso di aggressione ai loro Stati in Italia, e nell'alternativa di dare in vece di soldati uno stabilito sussidio in denaro contante. Alla diffinitiva conclusione di siffatto accordo molto cooper? il re d'Inghilterra, siccome quegli a cui stava molto a cuore la perfetta esecuzione del trattato di Aquisgrana e della convenzione di Nizza, che ne furono come la base ed il principal fondamento. Ed al totale ristabilimento della pubblica tranquillit? concorsero quasi tutte le italiane potenze, con s? buona intelligenza e concordia, che in brevissimo tempo, per mezzi del tutto amichevoli e pacifici, congressi, maneggi, concordati, furono accomodate tutte le questioni e vertenze insorte necessariamente per le perturbazioni delle guerre, intorno ai confini ed alle giurisdizioni tra il regno di Napoli e lo Stato pontificio, tra questo e la Toscana, tra esso granducato ed il duca di Modena, tra il Milanese e gli Stati del re di Sardegna, tra questi e la repubblica di Genova, tra il Mantovano ed il Tirolo colla repubblica di Venezia.
Le sollecitudini de' principi contraenti nel detto trattato ebbero per quaranta e pi? anni un effetto salutare. E forse anche pi? durato avrebbe il suo beneficio, senza quel turbine che dalla Francia proruppe a disordinare ogni meglio connesso edifizio, verso la fine del secolo, come a suo luogo verremo a mano a mano descrivendo. Ma intanto ci ? d'uopo ripigliare il filo delle cose di Corsica, che tenevano allora desta l'attenzione generale dell'Italia non solo, ma di tutta l'Europa.
Guardavansi di mal occhio i due primarii personaggi che allora reggevano la isola, il commissario genovese marchese Grimaldi ed il marchese di Corsay comandante franzese, e tanto innanzi procedute erano le cose, che quel primo dalla Bastia erasi ritirato in Aiaccio, per isfuggire le contese quotidianamente insorgenti per l'autorit? che questi arrogavasi, in gran parte contraria alla sovranit? della repubblica. Ora ad accrescere le discordie accadde che una squadra franzese, tornando da' lidi dell'Africa, dov'erasi portata a minacciare i Tripolini, bombardandone il porto, comparve sulle coste della Corsica e diede fondo nel porto d'Aiaccio, senza che i Genovesi sapessero che pensarsi di quella comparsa, e con grave scontentezza de' Corsi, tra' quali corse come sicura la voce che fosse venuta per opporsi ad altra squadra inglese, che dovea liberar l'isola dalla schiavit? e dall'oppressione. Come il senato di Genova avea gi? significato al suo commissario che gli chiedea il modo del contenersi, la squadra, dopo rinfrescato, veleggi? per Tolone; ma in quell'occasione il senato stesso avea pur fatto intendere al Grimaldi come stata fosse ottima cosa che se la passasse con miglior accordo col comandante franzese, in pari tempo lagnandosi alla corte di Francia delle costui procedure. E a tali insinuazioni del senato il Grimaldi replic? con sentimenti di buono e zelante repubblicano, lui chiedere piuttosto di essere richiamato, di quello che rimanere in un impiego in cui fosse obbligato a riconoscere autorit? altra qualunque fuor di quella della repubblica. Ma l'impossibilit? di trovare suggetto capace da sostituire al Grimaldi nel posto di commissario generale in Corsica, il non poterglisi rimproverare altro che un troppo vivo zelo nel sostenere il decoro e gl'interessi della sua patria, determinarono il senato a non aderire alle domande del suo cittadino.
N? solamente le gelosie e le reciproche diffidenze de' due generali in Corsica tenevano molto occupati i Genovesi ed inquietavano la corte di Francia; ma il regolamento stesso comunicato l'anno scorso ai capi dei sollevati dal marchese di Cursay per parte del re di Francia, di cui quei popoli non eransi mostrati troppo contenti, non appagava neppure interamente i Genovesi; s? che si rese necessario concertare col cavaliere di Chauvelin, ministro franzese, che di Francia venisse una riforma, la quale e questi e quelli appagasse. Ma n? anche giov? la riforma creduta opportuna dal gabinetto di Versaglies, poich?, per lo contrario, non appena fu comunicata ai capi delle pievi, che dest? uno straordinario ed universale impeto di furore, tutti protestando di non accettare quel regolamento, bench? modificato, n? sottomettervisi in verun modo, altro scopo esso non avendo che rimettere loro sul collo l'abborrito giogo della repubblica. Indarno furono chiamati a nuovo congresso. Ripigliate l'armi, obbligaronsi con fortissimo giuramento di trattare da nemico chiunque ardisse di parlare d'accomodarvisi. Scriveva il marchese di Cursay al cavaliere Chauvelin, non esservi in quello stato di cose che due soli partiti da prendere: o abbandonare la Corsica al suo destino, o far uso della forza contro la medesima. Ma, invece di risposta, si vide il marchese posto in arresto, guardato a vista, indi trasportato in Antibo, e col? custodito come prigioniero di Stato.
Tra le accuse che allora si sparsero contro il detto comandante, la principal era quella di un'eccessiva ambizione, per appagare la quale avea voluto rendersi come necessario ad ambe le parti. In fatti un'autorit? quasi illimitata erasi egli acquistata, specialmente facendo con una saggia amministrazione godere a quei popoli una vera felicit?; temperato per lui il furore dei partiti, le leggi erano rispettate, divenuti rarissimi i delitti, e tutta la nazione tornata per un pezzo in dolce concordia. Fondata egli aveva perfino un'accademia in Bastia, la quale, sebbene lungo tempo non durasse, aveva tuttavia risvegliato tra' Corsi il gusto delle lettere.
Arrestato il Cursay, le truppe franzesi rimasero sotto il comando d'un signor di Curci, il quale, facendo suo pro dell'esempio del predecessore, fu dal Grimaldi, e tutto si proferse a' suoi desiderii. Ma intanto le fazioni, le risse, le discordie, le diffidenze continuavano, accompagnate da incendii, violenze e spargimento di sangue; ed i Corsi di l? dai monti, a segnalare di bel nuovo l'odio loro contro la repubblica, si elessero de' capi, e questi pubblicarono un editto rigorosissimo contro chiunque avesse avuto l'ardimento di fare qualsiasi proposizione a nome di Genova, e facevano inoltre arrestare ed impiccare senza formalit? di processi coloro che erano, o si parea, sospetti di segrete intelligenze co' Genovesi.
In mezzo alla universal pace, ogni lieve commovimento diventava osservabile, e tal fu l'attentato sedizioso di quei di Subiaco, grossa terra della Campagna di Roma, che tanto nel temporale come nello spirituale dipendeva dall'abbate commendatario di Santa Scolastica. Questi pastori, che tali sono per la maggior parte, irritati per aver perduto nella Rota di Roma una lite co' Benedettini di quella badia circa i pascoli di certa montagna, invece di rispettare il giudizio, o prevalersi contro d'esso de' rimedii legali, dato di mano all'armi, investirono il convento, costrinsero priore e frati a fuggirsene per le finestre, fugarono quanti accorsero in aiuto de' monaci, ed ucciso uno sbirro, trassero dalle carceri dell'abbadia diversi loro compagni. Giunto l'avviso del caso a Roma, furono mandate truppe, il cui solo aspetto sed? immantinenti il tumulto; parte dei principali autori fuggiti, parte arrestati, e tornati i Benedettini al loro convento. Ma, per non lasciare impunito un fatto di tanta conseguenza, fu comandato a quella popolazione di portare l'armi a Roma, il che fu subito eseguito. Formato intanto il processo ai capi della sedizione, dieci, che erano stati trasferiti nelle carceri di Roma, furono esiliati per sempre dalle terre dello Stato ecclesiastico; ed altri undici, gi? fuggiti, si sentirono fulminati in contumacia dalla condanna di morte. Quindi in poi il pontefice colse ogni occasione, per isfuggire simili disordini, di separare dalla spirituale la giurisdizione temporale in tutte quelle badie e governi, nei quali erano prima congiunte, assoggettandoli tutti all'immediata direzione della sacra consulta.
Tre mesi circa prima dell'Alberoni, pass? di questa vita il doge di Venezia Pietro Grimani. Gi? ambasciatore della patria a Londra ed a Vienna, se col? guadagnossi la stima dell'inglese nazione e fu ascritto alla reale societ?, legato ancora d'amicizia col primo uomo che allora fosse al mondo, con Isacco Newton, quivi destramente maneggi? gl'interessi del veneto senato, concertando coll'imperadore Carlo VI la sacra lega a danni del comun nemico del nome cristiano. Tornato da s? splendide legazioni in patria, fu insignito della dignit? di procuratore di San Marco, e poi, nel 1741, collocato sul trono ducale. Culto letterato e filosofo sublime, gloriosamente regn? dieci anni ed otto mesi, ferma tenendo la repubblica nella saggezza del suo divisamento di starne lontana da straniere guerre. Ma se di grave cordoglio fu per questo conto la sua perdita a tutta la citt?, che conosceva il pregio d'un tal principe, gli uomini di lettere rimasero altamente contristati, in lui perdendo, pi? che il mecenate, un amico ed un compagno. Gli fu sostituito Francesco Loredano, cittadino di rara piet? e fornito di virt? morali e civili, tra le quali risplendeano egregie la liberalit? e la beneficenza; consumato sino dalla giovent? ne' politici maneggi, ed occupato lungo tempo nel posto di savio grande, che val come chi dicesse nella carica di ministro di Stato.
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