Read Ebook: Annali d'Italia vol. 8 dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 by Coppi Antonio Muratori Lodovico Antonio
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Ebook has 2123 lines and 371251 words, and 43 pages
Tre mesi circa prima dell'Alberoni, pass? di questa vita il doge di Venezia Pietro Grimani. Gi? ambasciatore della patria a Londra ed a Vienna, se col? guadagnossi la stima dell'inglese nazione e fu ascritto alla reale societ?, legato ancora d'amicizia col primo uomo che allora fosse al mondo, con Isacco Newton, quivi destramente maneggi? gl'interessi del veneto senato, concertando coll'imperadore Carlo VI la sacra lega a danni del comun nemico del nome cristiano. Tornato da s? splendide legazioni in patria, fu insignito della dignit? di procuratore di San Marco, e poi, nel 1741, collocato sul trono ducale. Culto letterato e filosofo sublime, gloriosamente regn? dieci anni ed otto mesi, ferma tenendo la repubblica nella saggezza del suo divisamento di starne lontana da straniere guerre. Ma se di grave cordoglio fu per questo conto la sua perdita a tutta la citt?, che conosceva il pregio d'un tal principe, gli uomini di lettere rimasero altamente contristati, in lui perdendo, pi? che il mecenate, un amico ed un compagno. Gli fu sostituito Francesco Loredano, cittadino di rara piet? e fornito di virt? morali e civili, tra le quali risplendeano egregie la liberalit? e la beneficenza; consumato sino dalla giovent? ne' politici maneggi, ed occupato lungo tempo nel posto di savio grande, che val come chi dicesse nella carica di ministro di Stato.
Nel mezzo tempo i corsari africani tenevano, secondo il solito, in apprensione le potenze europee colle continue loro scorrerie sul Mediterraneo, danneggiandone principalmente il commercio. Mentre pertanto alcune con esorbitanti tributi, sotto lo specioso titolo di regali, compravano la mal sicura amicizia delle africane reggenze, due squadre, di Napoli una, l'altra di Malta, segnalaronsi in due diversi incontri. In quella prima, i prodi capitani di due sciabecchi, Martinez e Gratto, andando in traccia di quattro sciabecchi algerini che infestavano le coste della Calabria presso il mare Adriatico, ne trovarono uno, chiamato il Gran Leone, tra l'isole di Zante e di Cefalonia. Era il maggiore di tutti, e montato dal comandante. Lo investirono con sommo coraggio; si difese l'algerino con non minore intrepidezza per due interi giorni, ma vedendosi oltramodo maltrattato dal cannone degli assalitori, fece forza di vele per salvarsi. Il capitano Martinez, temendo non forse potesse ripararsi in qualche spiaggia o porto del dominio ottomano, ove non gli fosse dato d'assalirlo, determinossi ad andarne all'arrambaggio, ed esegu? con tanta energia il suo disegno, pur secondato dal capitano Gratto, che gli riusc? d'impadronirsene e di fare cento ventiquattro prigioni, dalle catene liberando molti cristiani. Era intenzione de' comandanti napoletani di togliere quanto in quella nave era; ma scorgendola tutta forata dalle cannonate, e s? che faceva acqua da ogni lato, si appigliarono al partito di affondarla, senza che si prevalesse a salvarne se non le ancore e qualche sartiame. I regi sciabecchi non ebbero che dodici uomini uccisi e da venticinque feriti, tra' quali i due capitani Martinez e Grotto, che furono, come gli altri uffiziali, proporzionatamente ai meriti, rimunerati. Giusta le deposizioni degli Algerini presi, il numero loro era di ducento e trenta, ed il loro bastimento bene armato portava sedici cannoni e dodici petriere, allestito a spese del re d'Algeri, che ne avea dato il comando al rais Ismachid Nalif, nativo di Candia.
Ma pi? fiero e sanguinoso fu il combattimento tra le galee di Malta ed altri due sciabecchi algerini; conflitto seguito alle alture di Gallizia, dov'? una torre difesa da cannoni e da presidio tunisino, a poca distanza dal capo Bon, tra Tunisi e Maometta. Affinch? non potesse loro fuggire di mano, le galee maltesi si posero tra la torre e i due bastimenti nemici. Menando quindi le mani, se fu straordinario il valore de' cristiani nel combattere, non minore si rimase la resistenza degl'infedeli nel difendersi. Nel famoso combattimento segnalossi il coraggio di tre soldati maltesi, i quali, nell'atto che una galea tent? d'impadronirsi d'uno dei legni turchi, e andolle fallito il colpo, v'erano saltati dentro. Tagliato a pezzi il primo, l'altro, quantunque ferito, tronc? il capo all'Algerino che gli stava a fronte, ed indi, gettandosi in mare, ebbe la ventura di salvarsi ad una delle galee; ed il terzo, parimente slanciatosi in acqua, in mezzo al fuoco ed a' remi dei barbari, ebbe una sorte eguale. Due ore dur? la pugna, ma infine ambi i sciabecchi rimasero presi, ad onta della disperata foga del rais comandante del pi? grosso, che, coperto di sangue che uscivagli da diciotto ferite, tra le quali quattro gravissime, non apparia modo di costringerlo. Tra i cavalieri di Malta che spiegarono in queste pruove estremo valore, contaronsi il cavaliere di Valenza, colonnello del reggimento di Bearn al servigio della Francia, il cavaliere Aldobrandini, il cavaliere di Pennes, il cavaliere di Elvemont; ma ben direbbe chi nominasse per tal conto tutti gli uffiziali e soldati maltesi, la perdita de' quali fu di tredici morti e quarantasette feriti, compresi i sopraddetti cavalieri Pennes ed Elvemont.
Il ritorno de' vincitori coi vinti legni e coi prigionieri a Malta fu una specie di trionfo. N? il solo gran maestro ed i cavalieri, ma tutti in Italia fecer plauso al valor loro, ed il giubilo fu tanto maggiore, in quanto che quei due sciabecchi erano i primi bastimenti algerini che fossero caduti in potere dell'ordine gerosolimitano da che i Turchi aveano incominciato a far uso di legni di tal sorta. In uno si trovarono mille ottocento zecchini, prezzo d'una tartana da quei corsari pochi giorni prima venduta.
Per la stabilit? e felice esito del trattato di Madrid, o d'Aranjuez che vogliam dirlo, stipulato nell'anno precedente, occuparonsi seriamente nel principio di quest'anno i ministri delle potenze contraenti onde comporre e terminare le differenze che sussistevano tuttavia intorno alla successione de' beni della famiglia de Medici, de' quali era attualmente in possesso l'imperadore Francesco, come granduca di Toscana. Venne perci? proposto che la Spagna rinunziasse alle sue pretese su questo punto, purch? l'imperadrice regina facesse anch'essa dal canto suo eguale rinunzia per tutte le ragioni che pretendeva di avere sopra i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, dei quali erasi quella sovrana riservato il regresso nel trattato d'Aquisgrana. Due difficolt? per? rimanevano a superarsi, l'una col re di Sardegna, con quello di Napoli l'altra; non potendo quel primo, che nel trattato d'Aquisgrana erasi riservato il regresso sulla citt? e territorio di Piacenza, risolversi a farne la cessione, prima che si fosse trovato il modo di compensarnelo; ed il re di Napoli, facendo tuttavia valere i suoi diritti sui beni allodiali della famiglia de Medici, ai quali non intendeva di avere in alcun modo rinunziato a favore del duca di Lorena, allora imperadore e granduca di Toscana. Non sembrava difficile trovar qualche temperamento onde appianare le difficolt? promosse dal re di Sardegna; ma cos? non era riguardo a don Carlo re di Napoli, che sped? a Parigi il marchese Caraccioli per impegnare quel gabinetto a sostenere le sue ragioni.
Teneva allora quel gabinetto gli occhi aperti sopra un oggetto di maggiore importanza riguardo alle sorti dell'Italia, cio? sui maneggi alla corte di Vienna impresi dai ministri del duca di Modena. Il conte Beltrame Cristiani, gran cancelliere del ducato di Milano, vedeva, e forse da gran tempo aveva tra s? e s? meditato, un gran colpo, moltissimo vantaggioso all'imperadrice regina sua sovrana ed alla casa d'Austria, se fosse riuscito a legarla a quella d'Este con vincoli tali, che gli Stati di questa si fossero uniti al milanese ducato. Sortendo buon fine il divisamento del conte Cristiani, la casa d'Austria avrebbe in Italia dominato all'incirca sovra la maggior parte de' paesi che formavano un tempo lo Stato degli antichi re d'Italia, cio? la Toscana, il ducato di Milano, il Modenese, il Mantovano ed una porzione del Monferrato. E la fortuna second? i disegni del gran cancelliere. Era, ne' primi giorni dell'anno, nato al principe ereditario di Modena un figlio, il quale, assicurando la posterit? mascolina dell'estense famiglia, potea, se vissuto fosse, far prendere misure ben diverse da quelle cui miravano gl'impresi maneggi; ma quel figlio, pochi mesi dopo il suo nascimento, mor?, e colpo tale conchiuse alla corte di Vienna il negozio giusta l'intendimento de' ministri modenesi.
Fatto pubblico il trattato in cui stipulossi il matrimonio dell'arciduca Leopoldo, allora terzogenito, colla figlia del principe ereditario di Modena, e si dichiararono lo stesso arciduca governatore dello Stato di Milano, ed il duca di Modena amministratore e capitano generale del medesimo Stato, insieme stabilendo che i presidii delle piazze modenesi dovessero essere formati di truppe austriache, e vicendevolmente le milizie del duca di Modena prendessero posto nelle piazze milanesi; non solo i gabinetti di Francia e di Spagna, ma tutti universalmente rimasero oltremodo maravigliati. Non si lasci? quindi di pubblicare, che il duca di Modena, in questo fatto, oltre all'allontanarsi dai noti principii de' suoi maggiori, unendosi all'Austria in confronto della Francia, aveva operato contro le massime della buona politica, dando mano ad un tanto ragguardevole ingrandimento di Stati e di potenza in Italia alla detta casa d'Austria, il che avrebbe col tempo potuto recare gravissimi pregiudizii alla quiete della penisola.
Procur? il duca di Modena di giustificare il nuovo partito da lui preso, facendo da' suoi ministri dichiarare alle corti straniere, averlo gl'interessi del suo ducale casato costretto a trattare colla corte di Vienna; essere scopo principale cui proponevasi quello di provvedere alla tranquillit? de' suoi Stati, in caso che venisse ad estinguersi la sua linea mascolina; aver parimente in mira il mantenimento della pace d'Italia, e la necessit? di prevenire le turbolenze che potessero insorgere in proposito della successione agli Stati della casa d'Este; lusingarsi lui finalmente che siccome gl'impegni per esso incontrati non recavano danno ad alcuno, nissuna potenza volesse adombrarne, e quelle che considerassero la cosa imparzialmente, convenissero nulla esservi che conforme non fosse all'interesse d'Italia in generale e alle ragioni di convenienza che tenere doveano i principi di questa parte dell'Europa svegliati per allontanare dagli Stati loro ogni occasione di turbolenze.
Qualunque interpretazione dar si volesse a cotali dichiarazioni del duca di Modena, il colpo era fatto con somma soddisfazione delle due corti; e furono in conseguenza mandati ordini da Vienna a tutti i comandanti e governatori delle piazze di Toscana e Lombardia, di trattare i sudditi di Modena e Massa-Carrara con ogni sorta di riguardi e di prestar loro tutta l'assistenza possibile s? riguardo al commercio, s? in tutte le altre vertenze od atti giuridici che aver potessero da regolare co' sudditi imperiali d'Italia.
Ad onta del trattato d'Aranjuez conchiuso col laudevol motivo di conservare la tranquillit? nell'Italia, ad onta delle proteste del duca di Modena di non aver avuto in mira che questo prezioso oggetto nella parentela ed unione contratte con la casa d'Austria, da molti credevasi che totalmente contrarii alle parole potessero seguire gli effetti; le quali speculazioni derivavano originariamente dalla condizione attuale della Spagna e da un avvenimento semplicissimo seguito in Napoli ed in Roma.
? noto che dopo la pace di Aquisgrana, la corte di Spagna, a principal cura del marchese dell'Ensenada, andava incarnando alcuni suoi disegni: gli arsenali tutti in continuo movimento poneano la marineria spagnuola in grado di mandar navi in America, altre tenerne in corso contro i barbareschi, ed unire a un bisogno una flotta capace di misurarsi colle potenze d'Europa; cominciavano a prosperare le fabbriche e manifatture nazionali, malgrado i rigori in Olanda ed in Inghilterra usati per vietare ai sudditi loro che, allettati da privilegii e vantaggi singolari, in Ispagna non passassero coll'industria loro e cogl'istrumenti relativi; la nazione, naturalmente proclive all'inerzia ed all'infingardaggine, gi? destavasi; terre, che da secoli non aveano sentito zappa n? aratro, aprivano il seno alle benefiche ferite, e largamente premiavano gl'insoliti sudori dell'agricoltore novello: si fortificavano le piazze frontiere, ingrandivansi i porti principali, dentro e fuori d'Europa moltiplicavansi i cantieri; introdotti nelle truppe gli esercizii all'uso franzese o al prussiano; impiegata buona parte de' tesori, dopo la pace del nuovo mondo, a comprar merci da rimandarvi; istituiti grossi banchi nelle principali citt? commercianti del regno, e sino in Italia, a nome e profitto del regio erario.
Cotali vigorose e non mai interrotte operazioni e sollecitudini della corte di Madrid facevano universalmente conghietturare che nudrisse l'idea di turbare la calma d'Europa e dell'Italia in particolare; conghiettura che prese maggior piede quando si seppe che, partita da Cadice una nave, era approdata a Napoli scaricandovi un milione e mezzo di scudi, non mancando chi affermasse, essere la somma destinata a porre il re delle Due Sicilie in istato di aumentare le proprie truppe secondo il disegno tra le due corti fermato. Per? gli autori di queste novelle guerriere trovaronsi non poco sconcertati; ch? il picciol tesoro americano sbarcato a Napoli, quivi non si ferm?, ma sopra cinquanta muli, coperti coll'arme e cogli stemmi della corona di Spagna entr? in Roma, e, depositato nel palazzo Farnese, pochi giorni dopo da quella casa, appartenente al re di Napoli, fu trasportato nel castel Sant'Angelo.
Tuttavia non perci? vollero i politici del giorno mutar opinione o linguaggio; pretendevano che fosse destinato a circolare nel commercio sul nuovo banco eretto dal monarca Cattolico in Roma stessa, ed ostinaronsi a sostenere che si avesse poscia ad impiegarlo in acquisti ed usi militari, collocato intanto in s? cospicua fortezza per maggior cautela. Ma la destinazione vera del denaro fu poco stante saputa: passato dal Messico a Cadice, da Cadice a Napoli, e di col? a Roma, apparteneva alla santa Sede, e le fu spedito in forza di un trattato conchiuso tra le due corti, ampliativo del giuspadronato regio sopra i benefizii ecclesiastici della Spagna, e segretissimamente maneggiato.
Altro accidente di quest'anno merita di essere notato.
Impreso dal cardinale Portocarrero il maneggio, fu l'affare discusso in una congregazione particolare, tenuta in presenza del pontefice, e si conchiuse che le domande del cardinale infante poteano essere esaudite quanto sia alla rinunzia, ma non riguardo alla pensione di cento cinquanta mila scudi che volea riservarsi sopra le rendite delle due chiese di Toledo e di Siviglia, all'amministrazione delle quali rinunziava. Nullaostante, avendo fatto tacere le ragioni in contrario le fortissime ragioni di Stato e di convenienza nella condizione corrente delle cose che vennero allegate, appoggiato eziandio da esempli precedenti di concessioni consimili, fu risoluto di compiacere in tutto e per tutto la corte di Madrid, ed, unita alla favorevole risposta, le fu spedita la formola, secondo la quale seguir doveva la rinunzia del cardinalato, praticando ci? che stato era osservato nel 1709 col cardinale de Medici. Un concistoro segreto, intimato dal pontefice, approv? poi, lui esponente, quanto era stato fatto, ed il cappello cardinalizio cos? rinunziato venne, ad istanza del re di Spagna, concesso a don Luigi Ferdinando di Cordova, decano della metropolitana di Toledo, indi arcivescovo.
Tutta l'Europa parve allora disposta a considerare questo passaggio dell'infante dallo stato ecclesiastico al secolare, come prodotto da motivo politico. Alle quali supposizioni aggiugneva gran peso il vedere che il re aveva assegnato al principe suo fratello, oltre i cento mila scudi come infante di Spagna ed i cento cinquanta mila di riserva sopra le chiese di Toledo e di Siviglia, altri cinquecento mila come grande ammiraglio di Castiglia. Parlavasi adunque da per tutto, e da per tutto davasi per conchiuso un trattato di matrimonio tra il principe secolarizzato e la principessa Marianna infanta di Portogallo. Ma tale matrimonio, ancorch? allora stato maneggiato, non ebbe effetto, e l'infante pi? di venti anni dopo sposossi con una dama privata, da cui ebbe prole di ambi i sessi.
Altro serio affare, per? di natura diversa, ebbe subito dopo a trattare il papa col re delle Due Sicilie, fratello dell'infante sopraddetto. Insorta rissa nel porto di Civitavecchia tra i marinari di un bastimento genovese e le ciurme di alcune tartane di Gaeta, si accesero per tal modo gli animi, che, dalle parole venendo ai fatti, rimasero da ambe le parti uccisi alcuni e moltissimi feriti, nonostante che accorso fosse immantinente il presidio della citt? a fermare il disordine, che potea divenir generale per la parte che mostrava di prendere la plebe a favore dei Genovesi. Ma avendo la piccola artiglieria ceduto il luogo alla pi? grossa, fecero le tartane di Gaeta cos? bene giuocare i cannoni che, presto affondarono il genovese bastimento, e poi, salpate l'ancore, uscirono in alto mare, sebbene, costrette dal tempo burrascoso a tornarne in porto, non ne partissero poi che alquanti giorni dopo.
Furono immediatamente chiamati a Roma il governatore della citt? ed il comandante dell'armi a render conto del fatto e delle direzioni da essi tenute. Niuno domandi per? se la repubblica di Genova tardasse molto a chieder giustizia e soddisfazione del torto e dell'insulto fatto alla sua bandiera in un porto amico, ed in pregiudizio della pubblica fede e sicurezza. Quantunque sospesi dalle loro funzioni i due uffiziali superiori di Civitavecchia ed aspramente ripresi in Roma, dov'erano stati richiamati; avendo la repubblica insistito sopra le sue prime rimostranze, fu da Roma stessa espressamente comandato al luogotenente di quella marittima piazza di far levare il timone a qualunque bastimento napolitano entrasse nel suo porto. Ed infatti, essendone comparsi tre da l? a non molto, il luogotenente esegu? appuntino gli ordini che avea dal suo principe ricevuti.
Ma la corte di Napoli, la quale al primo avviso dell'accaduto a Civitavecchia avea fatto arrestare i padroni delle tartane rissose, ed ordinatone il processo, sentendo adesso che, per dare soddisfazione a' Genovesi, quella di Roma avea sospeso dall'impiego il governatore della citt? e fatti pure arrestare i tre navigli napolitani che si ? detto, diede suoi ordini perch? si fermassero tutti i bastimenti di bandiera pontifizia nei porti delle Due Sicilie, facendo dal suo ministro in Roma chieder soddisfazione del torto fatto ai legni de' suoi sudditi. Se non che, postosi in trattative l'affare, rimase amichevolmente composto, e dopo reciproche spiegazioni delle tre corti, rimesso, con comune soddisfazione delle medesime, il governatore di Civitavecchia nel suo uffizio.
Altra occasione ebbe il Lambertini in questo anno di esercitare l'animo suo conciliativo calmando le differenze insorte fra il gran maestro di Malta ed il re delle Due Sicilie. La discordia avea gi? sparso il suo veleno: i due principi erano in piena rottura, ed il pi? debole de' due contendenti gi? ne sentiva i funesti effetti. Ma per ben intendere le cagioni della contesa ? giuoco forza farsi dall'origine.
Quando l'imperadore Carlo V don? l'isola di Malta a' cavalieri gerosolimitani, da Solimano re de' Turchi stati nel 1323 scacciati dall'isola di Rodi, che aveano per pi? di due secoli posseduta, vi pose egli la condizione che la tenessero in qualit? di feudo dipendente da lui come sovrano delle Due Sicilie; che dovessero pagargli annualmente il giorno di tutti i Santi un falcone; che il vescovato di Malta restasse, qual era, giuspadronato suo e de' suoi successori, s? che, in caso di vacanza della sedia vescovile, il gran maestro avesse a presentargli tre soggetti idonei, tra' quali scegliere il nuovo vescovo.
Trascorsi pi? di due secoli, ne' quali il regno delle Due Sicilie era stato provincia della Spagna, e per un tratto parimente provincia della casa d'Austria, senza che si fosse pensato a far valere quest'ultimo diritto principalmente, stim? il re don Carlo di avere ragioni sufficienti per esercitarlo; quindi ordinando al vescovo di Siracusa, come metropolitano, di passare a Malta e farvi una visita pastorale. Ubbid? il vescovo e mand? innanzi i suoi visitatori; i quali presentatisi sopra un bastimento napolitano a vista dell'isola, non osarono poi di mettervi il piede, per l'opposizione che ragionevolmente previdero di dover incontrare per parte degli abitanti, che, avvisati del motivo della loro comparsa, eransi affollati alla spiaggia, dichiarando s? non soffrire in verun modo che si facesse mai tra di loro una simile visita. Appigliaronsi dunque i visitatori al prudente partito di abbandonar l'isola e tornarne in Sicilia.
Il gran maestro della religione stim? bene di dar parte dell'attentato al pontefice non meno che a tutte le altre potenze d'Europa, e nel tempo stesso sped? a Napoli il bal? Duegos per esporre a quella corte non contrastarsele il diritto nella sua origine, ma doversi assolutamente riputare, se non estinto e nullo, almeno inefficace e invalido per lungo tratto di tempo in cui rimase disusato. Il pontefice, al primo avviso di cotale differenza, tenne una congregazione di cardinali e prelati, e scrisse al re di Napoli per persuaderlo a desistere da un'impresa ch'egli giudicava inopportuna e senza fondamento. Ma il re, non avendo creduto di condiscendere all'opinione del papa, fece sapere che se continuavasi a ricusare i visitatori che sarebbero mandati a Malta, farebbe sequestrare le rendite delle commende che i cavalieri Gerosolimitani ne' suoi Stati possedevano. Ed il gran maestro dal canto suo dichiar? che, qualora le cose giungessero a tale estremo, egli terrebbesi giustificato di far sequestrare le rendite che godevano in altri Stati i commendatori nati sudditi del re delle Due Sicilie, e richiam? da Napoli il bal? Duegos.
Sciolto per tal modo ogni trattato, la corte di Napoli, in conseguenza della risoluzione presa di mantenere il vescovo di Siracusa nel gius di far la visita nel vescovato di Malta, col? mand? lo stesso prelato in persona: ma n? il suo viaggio fu pi? felice di quello dei suoi deputati, avendo dovuto tornarsene addietro senza aver posto piede in terra. Presentatovisi poi una seconda volta, il gran maestro mandogli incontro una barca per avvisarlo, che, persistendo nell'intenzione di scendere a Malta, si sarebbe fatto fuoco sopra il suo vascello per costringerlo ad allontanarsi; laonde il vescovo, voltato bordo, torn? alla sua chiesa.
Avvisata la corte di Napoli del nuovo rifiuto, mand? ad effetto le sue minaccie: interdisse ogni commercio fra i porti delle Due Sicilie e l'isola di Malta; proib? a' suoi sudditi di col? trasportare derrate o provvisioni di qualunque altro genere; e sequestr? tutte le commende dell'ordine che trovavansi ne' suoi dominii. Il gran maestro, in rappresaglia, dopo ordinato a' sudditi suoi di rivolgersi alla Sardegna ed alle reggenze di Barbaria per le provvisioni che prima traevano dalle Due Sicilie, sequestr? anch'egli le commende che i cavalieri napolitani godevano in altri paesi. Inasprivano gli animi; il commercio s'interrompeva: ed i popoli, vittime innocenti di una discordia che non potea interessarli, ne gemevano al peso. Il Mediterraneo coperto di legni barbareschi; le coste meridionali dell'Italia e le pontifizie in ispezialit?, esposte alle piraterie africane, pi? non vedevano in loro difesa le galee maltesi, ridotte a convertire l'oggetto primario della loro istituzione in quello di procacciar alimenti agli abitatori dell'isola loro.
Vero ? che il gran maestro erasi rivolto alle corti di Vienna, di Francia, di Spagna e di Portogallo, pregandole d'interporre i loro buoni ufficii in questo affare; ma preoccupate da alcuni riguardi, e specialmente da quello di non pregiudicare alla gloria del re Carlo, intaccando i diritti e le prerogative della sua corona, ristrinsero le sollecitazioni principalmente a far rivocare da Sua Maest? siciliana ii suo decreto, lasciando le cose nello stato in cui erano precedentemente. Non condiscese la corte di Napoli al proposto temperamento; ma, insistendo il pontefice nelle paterne sue istanze presso la medesima, ambe le parti accordaronsi in questo, di rimettere ogni cosa nelle mani del Lambertini. Il quale, come vicario di Ges? Cristo, scrisse di proprio pugno una lettera al re don Carlo, in cui con l'eloquenza che gli era propria, lo pregava di ridonare la sua buona grazia alla sacra religione di Malta, ed a non negargli il contento di una favorevole risposta.
All'inaspettata alleanza, anzi alla futura parentela nell'anno precedente convenuta tra la casa d'Este e quella d'Austria, che invece di consolidare parea ad alcuni che metter dovesse in pericolo la quiete dell'Italia; al pacifico concordato della corte di Spagna con quella di Roma; alle moleste s?, ma non sanguinose differenze insorte tra Roma, Genova e Napoli, e tra questa corte e la religione di Malta, che peraltro avrebbero potuto turbare l'italiana tranquillit? appena nata; successe quest'anno sulla riviera occidentale di Genova un caso che parea dover produrre un grave incendio. Sollevaronsi i popoli di S. Remo e di Campofreddo. O sia che la piccola comunit? di Cola, dipendente da S. Remo, si fosse richiamata alla repubblica di Genova per la gravezza delle taglie che le si faceano portare, o sia che insorgesse la discordia per qualche novit? intorno a' confini voluti stabilire, oppure per entrambi cotali motivi; fatto ? che il popolo di S. Remo, facendo risuonare voci di libert?, di cui credeva di dover godere a fronte del sovrano dominio della repubblica, dato di piglio alle armi, si mostr? disposto a scuoterne intieramente il giogo.
Informato il governo di Genova che quegli abitanti eransi assicurati della persona del commissario Doria e delle truppe state col? spedite per metter fine alle dissensioni tra S. Remo e la comunit? di Cola, mand? tre galee, una bombarda e vari bastimenti da trasporto carichi di truppe sotto il comando del generale Agostino Pinelli. Ora, avendo il generale fatto incontanente avanzare una scialuppa con tamburo che intimasse agli abitanti di consegnare fra due ore la persona del commissario Doria e la sua famiglia alle truppe della repubblica, in pena del ferro e del fuoco e di essere passati a fil di spada; la scialuppa stette due ore alla spiaggia, e poscia condusse due deputati, i quali dissero al generale che, dipendendo quanto egli domandava dalla volont? del popolo, non era possibile dargli soddisfazione dentro il poco tempo prescritto.
A tale dichiarazione il generale ordin? le ostilit? contro i ribelli; quindi le galee e la bombarda fecero un fuoco che dur? tutta la notte; i ribelli dal canto loro rispondendo con alcuni cannoni da campagna che trovavansi a loro disposizione. Sul far del giorno le truppe sbarcarono in una spiaggia distante due miglia dalla citt?, senza incontrare opposizione di sorta; ma di mano in mano che i granatieri verso la citt? avanzavano, i contadini, dalle case, dalle muraglie, dagli ulivi, facevan loro fuoco addosso, sostenuti da altri che eransi in varii siti appostati. A fronte di tale resistenza, i granatieri, fatti forti da alcuni corpi di milizia alamanni, procedettero arditamente contro i ribelli e si impadronirono de' posti pi? importanti delle vicinanze di S. Remo.
Mentre il generale Pinelli dava le disposizioni necessarie per compire l'impresa, vennero a lui da parte del popolo due nuovi deputati per sottomettersi a patto d'aver salva la vita, l'onore ed i beni. Rispose il generale che bisognava subito consegnargli il commissario Doria, come avea precedentemente domandato, e ritenendo i messi, permise loro di far sapere in iscritto le sue intenzioni ai ribelli. Si prevalsero questi adunque della accordata permissione, ed in fatti poco stante capit? il commissario Doria, e con esso altri quattro deputati per supplicare il generale di annuire alla grazia gi? prima implorata. Rimandolli egli con isdegno, soggiungendo che dovessero consegnare tutte le armi, ed appartener poi alla repubblica, alla cui clemenza si avevano a rimettere, il conceder quello di che pregavano; n? valsero preghi o lagrime dei deputati a commuovere quel capitano dell'armi genovesi. Ebbesi per? un armistizio, ed il giorno appresso la citt? si arrese a discrezione.
Siffatte asprezze e molte altre ancora spaventarono ed irritarono talmente i Sanremani, che la maggior parte ritiraronsi nelle vicine montagne dette delle Langhe, feudi imperiali sotto il dominio del re di Sardegna, quivi, in numero di due mille cinquecento, campeggiando alla meglio sotto tende e baracche, non rimasti quasi in citt? se non i vecchi, le femmine ed i fanciulli. Corse allora opinione che un pugno di gente ridotta a tanto estremo, non avrebbe tardato molto a sottomettersi a qualunque legge volesse imporgli la repubblica di Genova; ma assai male conosceva gli uomini e le storie chi in tal modo pensava. I Sanremani spedirono lor deputati a Vienna a chieder contro la repubblica giustizia dall'imperadore Francesco, qual da signore diretto di quel feudo, e segretamente implorarono la protezione del re di Sardegna. O che la repubblica ignorasse quei maneggi, oppure, cosa pi? verisimile, fingesse d'ignorarli, per finire le cose senza ulteriori strepiti e disturbi, fece pubblicare un editto nel quale, dopo avere esposto con tutta l'enfasi il peso e l'enormit? del delitto, di cui erasi resa colpevole quella popolazione, tuttavia, per effetto di somma clemenza, prometteva un perdono generale a tutti, prefiggendo un termine discreto al ritorno di coloro ch'eransene fuggiti, soli eccettuati quattordici dei principali sediziosi.
Ma i fuorusciti delusero le aspettative comuni, che, invece di tornarne alle case loro sottomessi ed umiliati, cercarono ricovero in Oneglia, terra del re di Sardegna, e l'ottennero da quel principe, che senza punto ingerirsi nelle querele loro colla repubblica, credette di non poter negare ad essi un asilo che il diritto di natura e quel delle genti non consentono che a verun rifugiato si nieghi. Genova si scosse alla novella, ma viemmaggiormente fu commossa allorch? intese che i deputati di San Remo avevano a Vienna ottenuto che fossero ricevuti dal consiglio aulico i loro ricorsi e fattane poi la relazione all'imperadore. N? basta; venne altres? la repubblica assicurata che l'imperadore aveva fatto spedire un rescritto, in cui ordinava alla medesima di dovere intorno a fatti esposti dai Sanremani informare nel termine di due mesi; rescritto di cui si sparsero molte copie negli Stati della repubblica, in S. Remo e nella stessa Genova.
Quanto moto si desse la repubblica contro queste imperiali disposizioni, ciascuno se l'immagina, e baster? dire che per altro tornarono tutti i suoi passi infruttuosi. Ma non si poteva che lo stabilimento dei Sanremani sulle terre del re di Sardegna, e molto pi? il favore da essi trovato presso la corte di Vienna, non accrescessero le male disposizioni d'animo dei Genovesi contro di loro. Laonde il commissario che a San Remo per la repubblica dimorava, si credette giustificato di trattarli con modi poco cortesi, spingendo anche le parole e le vie di fatto contro il vescovo di Albenga, il quale in questi commovimenti si trov? troppo propenso ai sollevati, e fu poi costretto a ritirarsi cogli altri ad Oneglia.
Nel mezzo tempo molto pi? gravi erano le cure e pi? decisive le operazioni della repubblica di Genova per la ribellione della Corsica, ch'era gi? presso il terzo lustro. Abbiamo gi? veduto a svanire i bei disegni e le lusinghiere speranze del marchese di Cursay, che di tanti pensieri e tanti maneggi si ebbe a guiderdone la prigionia in Antibo, bench? poi si purgasse dalle accuse che la repubblica gli avea poste addosso, e cos? fosse liberato. Il colonnello di Curc?, che gli succedette nel comando dell'armi franzesi nell'isola, scorgendo l'insuperabile avversione dei Corsi al gi? divisato regolamento, formava nuovi progetti; ma, ignaro della mente del suo sovrano riguardo i Corsi, si affaticava indarno. I Corsi bens? che non solo prevedevano, ma erano quasi certi della vicina partenza delle milizie franzesi, dimentichi affatto di tutta quella buona armonia ch'era con esse passata, e non riguardandole se non come gli strumenti de' quali erasi la repubblica servita per soggiogarli, non ebbero ribrezzo ad attaccarle in modi crudelissimi, giungendo a spogliar nudi affatto quelli che cadevano loro in mano e in quello stato rimandandoli ai loro compagni, fra gli orrori del verno, per mezzo alle nevi; crudelt? che crebbero a dismisura allorch? nel mese di febbraio giunse in Corsica un uffiziale franzese cogli ordini della corte di far tosto ritirare dall'isola le truppe. Gravi furono i pensieri del comandante per preservarsi dagl'insulti e dal danno nella ritirata, e sagge le misure da lui prese all'importantissimo fine; ma tutte le sue precauzioni non riuscivano felicemente.
I Corsi vegliavano sopra tutti i movimenti ed accorrevano da per tutto. Divisi in piccioli manipoli, bloccavano i Franzesi nelle torri e negli altri posti, impedivano loro le munizioni da guerra e da bocca, finalmente protestavano che avrebbero strozzati tutti i Franzesi, se nell'abbandonare le piazze ed i luoghi da essi occupati, a loro non li consegnassero; ed erano tali da tener la parola. N? le attenzioni vere o simulate del principale capo Gian Pietro Gaffori avevan forza di trattenere i Corsi, s? che da ogni parte continuassero ad attaccare i Franzesi che erano in cammino per unirsi al loro capo: e guai a quelli che per istanchezza o cagione altra qualunque rimanevano indietro o si scostavano alcun poco dai compagni! Soli i distaccamenti di l? dei monti furono meno inquietati, e si ridussero tutti sani e salvi in Aiaccio.
Intanto ogni cosa era ormai disposta per la partenza, n? altro mancava che di ottenere da Gaffori e dagli altri Corsi la restituzione de' soldati da essi tenuti prigionieri. Ma fu impossibile indurgli a tanto, finch? con una specie di capitolazione il comandante franzese non si obblig? di consegnar loro la piazza di San Fiorenzo; promessa che per? ei non fu in poter di mantenere per la costante opposizione che vi fece la repubblica. Nel qual fatto delusi i Corsi, tennero immediatamente un congresso nel convento di Oletta, in cui unanimi determinarono di non voler pi? sentire a parlare di soggezione verso qualsiasi potenza, ma s? bene governarsi da s? medesimi coi magistrati proprii e colle proprie leggi.
Sul principio di primavera, giunte le navi che trasportare doveano le truppe franzesi, abbandonarono esse finalmente, dopo cinque anni di soggiorno la Corsica, seco non portando altro frutto delle loro fatiche, fuorch? un'idea giusta del valore e dell'entusiasmo de' Corsi, i quali, pratici dei siti, fieri per carattere, ostinati per impegno, avrebbero disputato a chiunque il possesso della loro isola, e se si fossero formata di s? la giusta idea che la Francia in quella occasione e la maggior parte de' sovrani ne avevano concepita, forse si sarebbero formata una sorte migliore; ma allora badavano pi? alle private passioni che al ben comune.
Appena partiti i Franzesi, si vide una manifesta prova di questo loro modo di pensare. Imperciocch?, essendosi di bel nuovo adunati per consultare intorno al modo del governarsi ed ai mezzi di mettersi del tutto in libert?, insorsero fiere dissensioni fra loro, e dalla discordia dei capi provennero amarissime conseguenze. Gaffori, capo principale de' malcontenti, di severit? eccessiva, non avea difficolt? alcuna, per lievi motivi, o per sospetti, di far arrestare le persone pi? cospicue e qualificate, come appunto, fece in questo tempo di un Giuliano, il primo certo fra i Corsi dopo di lui; ed a quattro pievi ch'erano entrate in negoziazioni col commissario Grimaldi per sottomettersi di bel nuovo alla repubblica, fece patire una esecuzione militare, che, invece di atterrire, irrit? gli animi di tutti.
Il Grimaldi era a giorno di tutto, e d'ogni cosa cercava destramente d'approfittare. Dopo di avere accolto favorevolmente i deputati delle dette quattro pievi, e fatto ad essi sperare sommi favori, per invogliare cos? altre comunit? ad imitarne l'esempio, e dopo fomentate le discordie dei malcontenti, di tutto inform? la repubblica. Allora non differ? essa di far pubblicare un editto di perdono generale e di obblio del passato per quelli che, deponendo l'armi, fossero ritornati all'antica ubbidienza; ed a questo passo ne tenne dietro un altro dello stesso commissario, in cui dimostrava ai Corsi non rimaner loro altro partito che di attendere gli effetti della clemenza di Genova; poich? e un grosso rinforzo militare che dovea fra poco essergli spedito, e gli ordini dati dai re di Spagna, Francia, Inghilterra, Napoli e Sardegna per vietare rigorosamente alle navi de' loro sudditi di poter trasportare nell'isola nessuna sorte di munizioni, da guerra specialmente, e il cattivo stato della Corsica, ed il vicino cambiamento di sentimenti nella repubblica verso di essi, gli avrebbe poi ridotti a pentirsi invano di non aver saputo approfittare di circostanze s? favorevoli per essi.
Convien dire che qualche impressione facessero sull'animo de' Corsi le parole del Grimaldi, poich? essendosi i capi radunati insieme pi? volte, fu stesa una scrittura in ventidue articoli, ne' quali stavano le condizioni, colle quali si sarebbero rimessi nella soggezione della repubblica; e sebbene non fosse espressa in termini convenienti, come lo stesso Grimaldi, cui fu presentata, fece ai deputati vedere, la sped? egli a Genova, e si tratt? fra' Corsi di eleggere persona saggia e prudente, cui affidare la cura di quel dilicato maneggio.
I voti comuni raccoglievansi nella persona del cavaliere Gian Francesco Brerio, illustre Corso, degno per le sue qualit? della confidenza della sua nazione, e abilissimo all'uopo, per l'esperienza acquistata nel trattar gli affari di molte potenze, presso le quali era estimato e lodato; quando, giunti da Balagna due deputati del canonico Orticoni, famoso raggiratore, di fresco ripatriato dopo luogo esilio, chiedendo in nome di lui che gli fosse affidata l'importante commissione, mandarono a vuoto il partito presso a conchiudersi.
Se non che un avvenimento molto pi? grave termin? di rovinare ogni cosa: l'assassinio di Gaffori. Lasciate dall'un de' lati le molte cose immaginate e dette intorno ai motivi ed a' segreti autori del misfatto, baster? dire che quel capo erasi fra' suoi fatti molti nemici, e che il commissario genovese vedeva in lui il pi? potente ostacolo ai desiderii della repubblica. Uscito per tanto un giorno il Gaffori a passeggiare o in un giardino alla campagna o sulla pubblica strada, fu d'improvviso colto da pi? colpi di moschetto sparati contro di lui, e che lo stesero morto a terra con un suo parente che stavagli a lato e che spir? pochi momenti dopo di lui.
Tal fine ebbe questo capo de' Corsi, che ne avea titolo di governatore e capitano generale. Uomo pieno di coraggio e di zelo per la patria, ma violento e vendicativo, e forse dominato troppo dalla passione di comandare. Ma quello che destar deve maggior orrore si ? che un suo fratello medesimo venia fra' congiurati alla sua morte. Arrestato costui con molti altri complici, fu con trentasette voti contro tredici condannato ad esser rotto vivo in prigione, e prima di morire confess? tutta la congiura. Altri complici furono giustiziati, altri alla pena si sottrassero colla fuga. Fatti all'estinto Gaffori solenni funerali, ne' quali offizi? il canonico Orticoni, gli fu pur recitata funebre orazione. Terminate le quali lugubri funzioni, si radun? di bel nuovo la nazione, e quivi pronunzi? la pena della morte, dell'infamia e della devastazione dei beni contro qualunque Corso avesse osato parlare di riconciliazione con Genova. Quasi universale intanto prevaleva in Corsica la persuasione che l'assassinio di Gaffori fosse seguito per seduzione e ad istigazione della medesima e del suo commissario Grimaldi, tanto pi? che fu divulgato come cosa certa essersi all'arrestato fratello trovate due lettere, nelle quali se gli prometteva il premio di due mila lire per l'esecrabile fratricidio.
Mentre la guerra continuava a travagliarsi con varii ma deboli accidenti, in Corsica, venne surrogato dalla signoria genovese al commissario Grimaldi il marchese Giuseppe Doria, il quale, come giunse in Bastia, mise innanzi ragionamenti di concordia, e procur? di indurre i popoli all'obbedienza colla dolcezza; ma la dolcezza del Doria non valse pi? dell'acerbit? del Grimaldi.
La sperienza ammoniva i Corsi che dopo la morte del Gaffori niuno restava a cui con animi concordi la nazione concorresse, e che potesse stagliare quei gruppi di tante fazioni. Pure sapevano che la discordia mena a servit?. Di Matra poco si fidavano, che anzi un fiero sospetto era venuto loro in cuore, ed era, che avesse partecipato nella congiura per dar morte a Gaffori. Degli altri capi, nessuno avea tanto credito che riunire potesse in un sol volere ed in un solo sforzo e chi dissentiva e chi tiepido se ne stava. Volsero gli occhi in Corsica, li volsero fuori, per iscoprire se uomo al mondo vivesse, il quale fosse e sicuro per desiderio di libert?, e capace per ingegno, ed ammaestrato per esperienza di cose militari, onde di lui tanto promettere si potessero che divenisse liberatore e salvatore della patria. Sovvenne loro che vivea in Napoli, ai servigi militari di quella corona col grado di colonnello, Giacinto Paoli, antico loro capitano, che, disperate le cose dell'isola nel 1739 pei successi guerrieri di Maillebois, si era in quel regno ritirato. Aveva con s? allora il suo figliuolo Pasquale, che nella milizia napolitana occupava il grado di tenente, e nel quale, sebbene ancora nella giovane et? di ventidue anni, risplendevano segni di animo libero ed invitto.
Qual fosse questo Pasquale, lo dice un autore anonimo, che scrisse con verit? e senza adulazione ed odio per nissuna delle parti le cose di Corsica. Avuta il padre di lui favorevole accoglienza alla corte di Napoli, si pose in grado di dare al figlio la migliore educazione di cui potesse far copia quella citt?. Quivi fatti adunque Pasquale i suoi studii, tra' quali quelli di etica sotto Antonio Genovesi, senza dubbio uno de' principali ornamenti d'Italia, a ci? non si stette; ma risoluto di portare pi? oltre i passi nel sapere, quantunque entrasse al servizio militare assai per tempo, la sua grande ambizione fu d'informarsi a fondo degli antichi Stati di Grecia e Roma. Cos? ei si pose perfettamente in possesso Tucidide, Polibio, Livio e Tacito; n? per ostentazione, ma per uso, imperciocch? si studiasse di far sue proprie le loro cognizioni, ed ei medesimo confessasse essere sua speranza di formare s? stesso sui modelli d'uomini tali quali furono Cimone ed Epaminonda. E, a vero dire, egli si era loro avvicinato quant'? mai possibile nell'eleganza della condotta e nell'amore delle lettere, egualmente che in un appassionato desiderio di servire la sua patria. Trovossi in procinto di avere un reggimento, e lo tenne sempre come la pi? grande sventura che gli potesse accadere, come quella che gli dovea impedire di andar a liberare la sua patria dai Genovesi, come ebbe sempre in pensiero.
Ad una nazione incolta stava apprestando la provvidenza un uomo colto, ad uomini furibondi un uomo di pacato ingegno, a guerrieri, che meglio sapevano combattere le battaglie che non prepararle, un guerriero, in cui l'arte eguagliava il valore. E per frenare un'incomposta e disordinata furia, Paoli era molto accomodato; poich?, sebbene da Corso odiasse i Genovesi, d'indole sedata era, ed in lui l'operare procedeva piuttosto da fortezza abituale che da impeto passeggiero e facile a svanire. In somma, vero e sincero parto del secolo decimottavo fu Paoli, ma per? prima che il secolo dagli abbaiatori e dagli ambiziosi si guastasse. A Pasquale Paoli pertanto pensarono i Corsi, e lui delle necessit? della patria ammonirono, e a lei il pregarono che soccorresse.
Il dabbene e forte giovane vide qual difficile impresa gli si apprestava. La ferocia e l'ostinazione delle parti erano malagevoli, e forse impossibili, a domarsi; Genova ricca e forte in paragone della Corsica, per peggiore sua sorte notata di ribelle; le ambizioni degli antichi capi, massimamente quella del giovane Mario Matra, pi? ambizioso di tutti; n? ignorava che i capi de' Corsi, se infelici nell'amministrare la guerra, perdeano con essi la causa; se felici, erano a tradimento ammazzati: i casi di Sampiero e di Gaffori erano tali da spaventare qualunque pi? intrepido amatore della sua patria. Ma vinse in Paoli il desiderio della gloria, vinse il desiderio della libert?: rispose adunque essere parato, accingersi volentieri all'alto proposito, tutto dare s? stesso alla salute della patria.
Navigato felicemente, prese Pasquale Paoli terra a foce di Golo a d? 29 aprile; e soffermatosi alquanto d'ora al vescovato, volse poi i passi a Rostino, dove era nato. Come prima si sparse il grido essere arrivato il figliuolo di Giacinto, figliuolo degno di degno padre, concorsero i popoli bramosamente a vederlo, sperando che, se la somma delle cose loro reggesse, conservare potrebbero il nome e la libert? corsa.
Nel mese di luglio fecesi, per mezzo de' capi eletti, un parlamento di tutta la nazione a Sant'Antonio di Casabianca, paese della pieve d'Ampugnani. Paoli, trovato ne' cittadini riscontro ai suoi desiderii, v'intervenne. Fu con consentimento unanime chiamato generale delle armi e capo della parte economica e politica del regno, con autorit? piena e libera, fuorch? nei casi ne' quali si trattasse di materie di Stato, sopra cui deliberare non potesse senza l'intervento di due consiglieri di Stato e dei rispettivi rappresentanti di ciascuna provincia. Legossi per fede, e giur?, in cospetto della nazione a parlamento adunata, che fedelmente ed in benefizio della libert? le potest? userebbe che la patria gli dava.
In sul limitare stesso del preso magistrato poco manc? che Paoli non perisse. L'invidia degli emuli gli fu subito addosso. Mario Matra, sopra tutti, giovane, siccome si ? osservato pi? sopra, ambizioso e feroce, e per nascita nobile e per sostanze dovizioso, con grave sdegno aveva sentita l'esaltazione del capitano generale, ed ogni mezzo andava macchinando ed ogni via cercando per torgli quella superiorit?, cui cotanto egli odiava. Immenso odio in s? medesimo annidando, dovunque vedeva un uomo odiatore di Paoli; od in qualunque modo amatore di risse e di scandali, tosto a lui ricorreva, il tentava, e contro l'emulo lo spingeva. E pretesseva anche parole di libert?, accusando il capitano generale del volersi servir? dell'autorit? datagli per istabilire la tirannide. Sommovitrici parole sono sempre queste pe' popoli, pi? sospettosi di perdere la libert?, che savii per conservarla. Ma i popoli corrono dietro, come pecore, agli ambiziosi che gridano tirannide, quando c'? libert?. Matra gridava e chiamava Paoli tiranno; non pochi si lasciavano sollevare dagli umori torbidi di questo commovitore, intorno a cui si faceva concorso. Ai sospetti, alle maldicenze si aggiunsero alcuni privati sdegni. Il vecchio vizio, vogliam dire l'amore della vendetta, tuttavia predominava, e per quanto avessero fatto i governi precedenti per estirpare questa velenosa pianta, nuovi rampolli ella sempre mandava fuori, se non peggiori, almeno altrettanto maligni dei primi. Solo aveva tregua il feroce talento quando i popoli andavano alle battaglie contro i Genovesi; ma finite le battaglie, i Corsi si ammazzavano partigianamente fra loro.
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