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Read Ebook: Virgilio nel Medio Evo vol. I by Comparetti Domenico

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Ebook has 353 lines and 98492 words, and 8 pages

VIRGILIO NEL MEDIO EVO

PER

DOMENICO COMPARETTI

FIRENZE BERNARDO SEEBER Libraio-Editore 1896

FIRENZE-ROMA Tipografia Fratelli Bencini 1896

ALLA MEMORIA

GIANPIETRO VIEUSSEUX

VIRGILIO NEL MEDIO EVO

PREFAZIONE

Parr? strano a taluno che il mio libro dia pi? di quello prometta il titolo, ed invece di tenermi nei limiti del medio evo, io cominci la mia storia dal tempo stesso in cui il grande poeta viveva. Questo per? io doveva necessariamente fare per rendere intelligibile e spiegabile nelle sue cause e coi suoi precedenti l'idea medievale. Perci? di quanto precede questa ho soltanto parlato nella maniera e nei limiti che un tale scopo richiedeva. Pei secoli anteriori al medio evo non ho fatto che notare e definire i primi pi? essenziali lineamenti della nominanza virgiliana. Pi? evidente e pi? profondo avrei potuto essere in questa parte se mi fosse stato concesso dare una pi? piena idea della influenza che in quei secoli vedesi esercitata da Virgilio sulla produzione letteraria; ma ci? mi avrebbe condotto a dare a questa parte del mio lavoro un'ampiezza ch'io non poteva darle in un libro di cui essa non ? la ragione principale. Potr? fare ci? colla dovuta pienezza di trattazione colui che scriver? la storia dello stile e del linguaggio letterario latino nei secoli dell'impero, come pure colui che scriva la storia delle dottrine grammaticali presso i Romani; lavori questi che ancora rimangono da fare, e pei quali neppure tutto il materiale pu? dirsi ancora preparato ed elaborato sufficientemente.

Nell'intento di dare intorno a Virgilio nel medio evo un libro quanto pi? completo io potessi, ho pensato sarebbe utile, e in ogni caso comodo pel lettore, corredarlo dei principali testi di leggende virgiliane, taluno de' quali inedito, i pi? sparpagliati in opere e pubblicazioni diverse neppur tutte facili a trovarsi. Dar tutto sarebbe stato dar troppo. Mi son limitato ai testi pi? importanti per la storia di quelle leggende, desunti principalmente dalle tre letterature nelle quali queste pi? sono rappresentate, italiana, francese e tedesca. Avendo poi avuto occasione di rammentare, a proposito di leggende virgiliane, il libretto popolare italiano relativo al mago Pietro Barliario, ho creduto opportuno aggiungere in fondo al volume anche il testo di quel libercolo fra noi pi? noto alla plebe che ai dotti, e intieramente ignoto fuori d'Italia.

La perspicacia del lettore trover? facilmente, in un'opera quale questa vuol'essere, il perch? di tali capitoli ne' quali meno apertamente e meno direttamente parlasi di Virgilio. Divertire e sorprendere narrando fole antiche e fatti bizzarri non ? la ragione dell'opera mia. Ci? che mi fece amare questo studio e spendervi attorno molta e lunga fatica ? tutta quella parte assai considerevole della storia dello spirito umano, che si riflette nei molteplici e numerosi fenomeni che ne compongono il soggetto. I lettori vedranno se io mi sia ingannato pensando che su tal tema si potesse meditare e comporre qualche cosa di pi? serio ed elevato che un'opera di erudita curiosit?. N? poi io italiano ho dimenticato essere il mio argomento italiano di natura e d'interesse. Ho scritto invero con animo calmo, studiandomi di eliminare o limitare quanto potessi ogni causa subbiettiva di allucinazione. Se un qualsiasi sentimento mi avesse condotto a travedere, me ne dorrebbe; pregherei per? il giudice troppo severo a cercar bene nella propria coscienza se veramente a lui si addica scagliarmi per questo la pietra.

A queste parole che io nel 1872 premetteva alla prima edizione del mio libro, poco ho da aggiungere e nulla da cambiare oggi, nel darlo a luce per la seconda volta. Accolto con favore in Italia e fuori dall'antecedente generazione di dotti e studiosi, pare ch'esso non dispiaccia neppure alla presente, dacch? con fortuna oggi rara per libri di questa natura, dopo 23 anni lo veggo pur test? tradotto in inglese e ricercato ancora tanto da indurmi a ripeterne l'edizione, essendo da un pezzo esaurita e divenuta introvabile la prima. In tanto estesa, rapida e mobile attivit? scientifica del nostro tempo, pu? ben esser contento quell'autore che, ridando alle stampe la sua opera dopo s? lungo intervallo, non si senta obbligato a rifarla. Ed invero nulla di quanto in questo corso di anni fu scritto sul mio libro o sul suo soggetto, nulla di quanto si ? venuto innovando negli studi a cui esso si riferisce, richiede che l'opera sia oggi rifatta anzich? ristampata.

Con pochi ritocchi adunque e poche aggiunte l'opera vien qui riprodotta inalterata, messa per? al corrente tenendo conto di quante pubblicazioni venute a luce in questi anni abbian rapporto con essa, sia in generale, sia ne' particolari. Alcune notizie furono aggiunte, particolarmente alla seconda parte, ma con sobriet? e solo l? dove parvemi potesser servire a far pi? evidente la natura, la diffusione, la sopravvivenza di talune idee e leggende, evitando di accrescere con inutile farragine erudita la mole e la pesantezza, gi? forse troppo grave, del libro.

Dai molti che scrissero criticamente intorno a quest'opera o trattaron del Virgilio medievale prendendola per base, solo poche censure furono mosse, e queste, prese da me nella dovuta considerazione, mi hanno indotto a ritoccare in alcun luogo ed accrescere di brevi aggiunte qualche capitolo della seconda parte, senza modificare il mio pensiero, ma spiegandolo meglio dove mi parve fosse frainteso, confortandolo di nuovi argomenti dove mi parve la mia tesi fosse a torto negata. Cos? ho inteso soddisfare a chi ha pensato che a torto io distinguessi fra tradizione letteraria e leggenda popolare, non essendovi a suo credere leggende virgiliane che non siano di origine letteraria; e cos? pure a chi ha negato l'origine napoletana del Virgilio mago, cosa, anzi fatto di cui sono oggi convinto anche pi? di prima. Non so se a soddisfare i dissenzienti sar? per tal modo riuscito; ben mi parr? per? aver molto ottenuto se, con usar tal riguardo verso le loro opinioni pur senza dividerle, io abbia, a giudizio dei pi?, migliorata o resa meno imperfetta quest'opera mia.

Firenze, Giugno 1895.

PARTE PRIMA

VIRGILIO

NELLA TRADIZIONE LETTERARIA FINO A DANTE

VIRGILIO

NELLA TRADIZIONE LETTERARIA FINO A DANTE

Tityrus et fruges Aeneiaque arma legentur Roma triumphati dum caput orbis erit.

O anima cortese mantovana Di cui la fama ancor nel mondo dura E durer? quanto 'l mondo lontana.

Il supremo ideale dell'epopea era per gli antichi, com'? anche per noi, l'epopea Omerica: ad essa guardava il poeta epico nel comporre, ad essa il pubblico nel giudicare di lui. Quell'ideale era tanto alto che, mentre escludeva la possibilit? di raggiungerlo, anche restando inferiori si poteva pur toccare un'altezza imponente e prodigiosa. Nel giudicare Virgilio i romani corsero subito all'inevitabile confronto; distinguendo fra la potenza divina di chi cre? e l'ardua e faticosa opera di chi imitava, riconobbero invero l'inferiorit? del poeta loro rimpetto all'antico greco , ma videro altres? che di quanti tentativi in quel genere erano stati fatti in lingua greca e romana il pi? felice era il virgiliano. Questo giudizio, limitato ad un confronto assoluto ed esterno delle due poesie, era giusto senza dubbio. Ma quante volte il confronto si estendesse alla natura ed alle cause di quelle composizioni epiche, gli antichi, non conoscendo l'essere vero dell'epopea omerica come oggi noi lo conosciamo da Vico in poi, consideravano erroneamente Omero e Virgilio come due individui solo distinti per lontananza di tempi e grado di genio; talch? essi a rigore avrebbero dovuto giudicare Virgilio meno favorevolmente di quello che noi siamo oggi in grado di fare. Difatti, noi distinguiamo fra l'epopea primitiva, spontanea, d'origine non individuale ma nazionale, e la epopea imitativa e di studio, tutta opera individuale, nata in tempi di riflessione e di storia nei quali la prima diviene impossibile; come nell'una troviamo che l'epopea greca ha il primato sulla epopea di simile natura di tutti gli altri popoli, cos? nell'altra riconosciamo che fra i vari tentativi sia di greci, sia di latini come anche di noi stessi italiani, e di tutti gli altri popoli moderni, niun altro ha mai raggiunto quel grado di perfezione relativa che tocc? l'epopea virgiliana. Nel fare questa distinzione noi collochiamo Virgilio nel suo vero posto, e se lo paragoniamo con Omero, teniamo conto dell'immenso divario che corre fra i due nella natura e nelle cause genetiche della loro poesia; noi abbiamo quindi della sua inferiorit? spiegazioni o scuse che mancavano affatto ai romani. Ma se da questo lato le condizioni del sapere di quell'epoca sarebbero state sfavorevoli al poeta, o certamente men favorevoli che le presenti, gli effetti di ci? erano affatto cancellati e compensati con larga usura dall'accordo fra quella poesia e i sentimenti e i bisogni del popolo per cui era creata. Molti hanno detto gi? che l'epopea virgiliana solleticava la boria nazionale ed era quindi destinata a molto successo; ma questa idea ovvia e volgare, se in certo senso ha del vero, non va intesa com'essa volgarmente suona. Il popolo romano, o meglio il mondo romano, costituisce una individualit? per natura, per vita, per composizione talmente eccezionale, che giudicarla colle stesse norme con cui si giudica qualunque altro popolo, ? un errore. Esso ? un ente storico per eccellenza; la sua vita ? una espansione continua dalle minime alle pi? gigantesche proporzioni, nella quale egli obbedisce ad un impulso fatale, irresistibile, che comincia fin dal primo momento della sua esistenza, dal fatto politico della fondazione di Roma. Questo estremo limite dei suoi ricordi nazionali ? il nucleo di un ingrandimento tanto costante, ? tanto strettamente connesso colla natura della vita nazionale susseguente, che anche la favola delle origini come quella di altri fatti successivi ne acquista un carattere politico e prattico. Il ricordo di un'et? eroica estranea affatto all'attivit? politica, nella quale gli elementi nazionali rimanessero sparpagliati e non centralizzati con una mira che riguardasse tutto l'avvenire della nazione, non esiste presso i romani. La piccola gente latina, dal cui seno venne quell'embrione di grandezza, non fu certamente dimenticata; ma fra essa e Roma rimanevano ben visibili tutte le differenze che distinguono in due individualit?, affini ma diverse, la madre e la sua prole.

Questo essere storico che fin dal primo momento della sua vita ebbe la coscienza di s? e della sua missione, che visse di attivit? storica mirando sempre ad una meta reale e determinata, che a s? stesso ed alla propria energia dovette il successo e la grandezza, doveva naturalmente trovare nella contemplazione della propria entit? e della miracolosa sua vita una potente ispirazione poetica. C'era un sentimento di natura tutto speciale, che potremo chiamare storico, come quello che risultava dall'idea di una grandiosa attivit? storica, il quale, non ristretto nei limiti segnati dalla cerchia di una sola nazione, ma comune a genti le pi? diverse che Roma avea saputo, non solo sottomettersi, ma anche assimilarsi, si distingueva dal sentimento nazionale che ? proprio di ogni popolo, pel suo carattere astratto ed universale, tanto che sopravvisse allo stesso dominio romano. Questo entusiasmava i dominati e i dominatori egualmente, e fra le tante espressioni di esso, che dal principio alla fine distinguono ed in gran parte anche compongono la letteratura latina, ? impossibile trovare una differenza qualsivoglia fra tanti scrittori di nazione diversa, romani, greci, etruschi, galli, iberi, africani o altri.

Tornando dunque all'epopea, ? chiaro che i romani dovevano avere una naturale tendenza all'epopea storica, ed il fatto stesso lo prova colla quantit? di epopee storiche che essi ebbero da Nevio a Claudiano, fatto che non ha riscontro presso i greci, e per buone ragioni. Ma quel sentimento, che animava tutto il mondo romano e tanto avea bisogno di espansione, era di natura e di origine tale, che riusciva sommamente difficile trovarne l'espressione epica. Considerato nella sua causa ed astrattamente, esso ? tale che s'intende come dovesse naturalmente spingere all'epopea; ma quando si cercasse per questa un subbietto in cui concretarlo e dargli una formola adeguata, subito si presentava la base storica su di cui esso riposava, e ci? a scapito; poich? il fatto storico, finch? sia presente alla mente come tale, non pu? in alcuna guisa servire all'epopea. Per tale scopo conviene che prima esso diventi fatto epico, ? necessaria cio? una elaborazione della fantasia, non di un individuo ma della nazione, che lo tramuti in ideale poetico; opera giovanile di cui l'animo nazionale non ? pi? capace in epoche di maturit? storica. A sciogliere il difficile problema i greci non aveano fatto nulla, perch? un problema tale ad essi, popolo di natura affatto diversa, non si era mai presentato. Il pi? noto tentativo di epopea storica presso i greci fu, nell'epoca classica, il poema di Cherilo di Samo sulla guerra persiana, il quale, fondato su di un avvenimento che, quantunque glorioso, non figurava che come un incidente nella vita della nazione, n? rappresentava in alcuna guisa l'essenza stessa di quella, non ebbe che un successo politico momentaneo e passeggiero. L'idea nazionale greca si era gi? manifestata nella poesia ben pi? luminosamente e con forme ben pi? appropriate. Ma il sentimento dei romani era tanto gagliardo e potente, e la natura loro di popolo storico era tanto fortemente pronunziata che non solo le epopee storiche presso di loro furono pi? numerose che presso di altri, ma ebbero anche maggior successo di quello si sarebbe potuto aspettare dall'epopea storica anche la meglio concepita, quando la freddezza sua naturale non fosse stata compensata dal calore straordinariamente intenso e persistente del sentimento a cui era rivolta, e che anche l'avea suggerita. Ed infatti, cessato quello nell'epoca moderna, anche le migliori di esse sono affatto cadute a terra. Se per? un certo relativo successo era possibile per quelle epopee storiche, ed anche per quelle di esse che riunivano in uno strano connubio la favola e la storia, tanto per ragioni di forma quanto per la insufficienza poetica del soggetto, il bisogno nazionale non ne era rimasto completamente soddisfatto. Aver trovato una soluzione di questo problema difficile e complicato ? appunto il merito fondamentale del mantovano, ed una causa principale di quell'entusiasmo che dest? la sua epopea, e che dur? in grandi proporzioni finch? rimase vivo quel sentimento di cui era la pi? nobile completa e fedele espressione poetica. Le mire nazionali di Virgilio come di altri poeti augustei sono sempre evidentissime, n? appariscono soltanto prodotte da impulsi istintivi e non avvertiti, come in tanti altri scrittori romani, ma sono spesso calcolate nell'intento artistico. Virgilio non volle comporre un'epopea che avesse un carattere puramente letterario o dotto, alla maniera degli alessandrini, e non iscelse quindi, come altri fece prima e dopo lui, un tema dalla ricca saga greca, quale la Piccola Iliade, la Tebaide, l'Achilleide od altro simile sprovvisto di ogni valor nazionale pei romani. Guidato da un istinto artistico maraviglioso in un epico di quel tempo, egli arriv? anche a scansare tutti quei temi storici che tanto tentavano altri poeti, ed aveano tentato alla prima anche lui, e si determin? pel solo che, fra le tradizioni allora in corso presso i romani, offrisse quel carattere eroico ideale che ? indispensabilmente richiesto dall'epopea, ed insieme fosse nazionale, se non di origine, certo di significato. Com'egli a ci? arrivasse per semplice sforzo di genio poetico, modificando gradatamente il concetto primordiale dell'opera sua, ? cosa che si rileva da parecchi indizi con certa chiarezza, e che non pu? lasciare inosservata chi voglia equamente giudicare di lui. Imperocch?, per le ragioni generali che abbiamo dette, anche a lui, quando volle intraprendere la composizione di un poema nazionale, si present? per prima l'idea di un argomento storico latino o romano. Gi? prima che scrivesse le Bucoliche avea pensato ad un poema sui Re di Alba; ma presto abbandon? quell'idea, come dice il biografo, <>. Pi? tardi, entrato gi? in rapporto con Augusto, si decise seriamente alla composizione di un poema, e di nuovo il soggetto che gli si affacci? primo alla mente fu di natura storica. La grandezza degli avvenimenti contemporanei, e l'amicizia del principe che tanto prevalse in quelli, lo condussero naturalmente a scegliere per tema le Gesta di Ottaviano. Tale egli stesso dichiarava essere il lavoro da lui meditato, allorch? nel 29 leggeva in Atella le Georgiche ad Augusto tornato d'Asia. Da questo primo soggetto, a forza di modificare il piano primitivo secondo le esigenze del suo sentimento artistico, egli giunse a comporre l'Eneide nel corso di undici anni, cio? dal 29 fino alla sua morte. Nel 26 gi? Properzio conosceva alcune parti del lavoro e ne parlava entusiasticamente come di grande cosa che andavasi facendo, ma profondevasi pi? largamente nelle lodi delle Bucoliche e delle Georgiche sulle quali fin l? riposava la rinomanza del poeta. Dalle parole di Properzio, come anche da quanto scriveva Virgilio stesso in quel torno ad Augusto, si rileva che le parti del poema allora composte appartenevano gi? a ci? che poi rimase l'Eneide, ma il poeta manteneva ancora il pensiero di arrivare col suo poema da Enea ad Augusto. Come oggi si vede, inoltrandosi nel suo lavoro egli con tatto felicissimo elimin? ogni idea di narrare fatti puramente storici, facendo cos? un poema epico-storico, ed invece diede corpo al suo disegno solo rammentando fatti e personaggi storici di volo e per via di occasioni artisticamente colte o procurate, senza che ne rimanesse menomata la natura propriamente eroica e poetica degli avvenimenti che formano il soggetto fondamentale del poema. Della opportunit? artistica di questo procedere si accorsero anche i critici antichi, i quali seppero pur ben definire quanto per questo lato Lucano siasi mostrato inferiore a Virgilio. E cos? nacque l'Eneide, in un modo che agli occhi nostri mostra patentemente quanto chi la scrisse fosse nel concetto e nel sentimento della poesia superiore ai migliori poeti della sua epoca, della pi? splendida epoca che s'incontri nella storia dell'arte, dopo quella delle grandi creazioni greche.

La critica moderna ha potuto ragionevolmente distruggere certe vecchie idee sul valore storico della saga di Enea, e sulla provenienza di essa; le sue negazioni non potranno mai estendersi a questo fatto indiscutibile, che questa saga gi? fin dal tempo della prima guerra punica la troviamo in corso fra i romani, e che resa popolare dai poeti, dagli storici, dal teatro, dalle arti plastiche, dal culto e dagli atti stessi dello stato, ai tempi di Virgilio essa aveva acquistato il valore di una saga nazionale estremamente simpatica a tutti gli uomini di cultura romana e del tutto armonizzante colla poesia propria del sentimento romano. Certo se si fosse trattato di comporre un'epopea che fosse in tutto dell'indole dell'epopea omerica, a ci? si sarebbe prestata assai male anche quella saga per gli elementi e caratteri eterogenei che racchiudeva; ma ci? che doveva esprimere l'epopea virgiliana era ben diverso di natura da quanto avea espresso l'epopea omerica, e rimpetto a questo scopo i difetti del tema, pur rimanendo, erano assai meno sensibili. Omero si muove in un'atmosfera tutta ideale; egli non pu? mai volgere lo sguardo alla storia, che nascer? soltanto pi? secoli dopo di lui; i limiti e le proporzioni reali dell'essere umano e della sua attivit? sono tanto lontani dalla sua mente nell'opera poetica, che ben di rado, e solo come termine di paragone, richiama la povera mole dell'uomo vero e proprio ; figlio di una et? senza storia, egli ? l'interprete di una idealit? nazionale che ? gi? esclusivamente poetica di per s? stessa. Il poeta latino invece vivendo nella pi? alta fase dello sviluppo storico della nazione, doveva, tenendosi nell'ambiente ideale voluto dall'epopea, mirare pur costantemente alla storia nella quale avea le sue radici quell'universale sentimento che allora raggiungeva la sua massima intensit?, pi? che mai bisognoso di grandiose espansioni. Conscio di questo suo ufficio ed assistito nel compierlo da una genialit? tutta sua propria, egli coordin? il suo poema, nel soggetto e nella trattazione, cos? strettamente colla storia romana, ch'esso pu? dirsi una preparazione a quella ed insieme un riassunto poetico dell'impressione ch'essa lasciava nell'animo di quanti la contemplavano. Come accade sempre quando si trova la formula lungamente desiderata che esprima intieramente ci? che ? nell'animo di tutti, il poema fu accolto con uno scoppio di generale entusiasmo in tutto il mondo romano.

? mirabile vedere con quanto interesse tutti gli uomini colti s'informassero dei progressi di quella grande composizione, e quanto forti, visibili influenze essa esercitasse, fin dal suo nascere sulle lettere latine. Mentre il poeta l'andava componendo, Augusto, Mecenate e tutta la schiera di amici, cortigiani, dilettanti, poeti, retori che li attorniava, erano pi? o meno al corrente del lavoro, di cui varie parti venivano dall'autore grado grado recitate in quei circoli. Quando Virgilio mor?, non altra pubblicit? che questa aveva avuto il poema, di cui niuna parte era stata condotta a quel grado di perfezione che meditava il poeta; ma un vasto pubblico ne conosceva l'esistenza e, per l'incontro avuto dai saggi recitati agli amici, grandissima era l'aspettazione. La pubblicazione ebbe luogo per opera dei due amici di Virgilio, legatari dei suoi scritti, Tucca e Vario, ai quali Augusto impose quell'incarico delicato. Quanto tempo impiegassero nel preparare quella pubblicazione non sappiamo, ma certamente dovette essere assai breve. L'impressione fu profonda e universalmente vivissima. In quel poema, che divenne il primo titolo della nominanza dell'autore, tutti riconobbero la pi? grande opera della poesia latina, e per esso divenne Virgilio pei romani, come poi lo chiamava Velleio, il <>. Lo studio di Virgilio e della sua fraseologia si riconosce gi? nel suo grande contemporaneo Tito Livio, nel quale trovansi chiare reminiscenze anche di frasi dell'Eneide. Ricco di tali reminiscenze mostrasi poi singolarmente Ovidio che avea 24 anni quando mor? il grande poeta, da lui per? conosciuto soltanto di vista. E deve notarsi che per Livio e per Ovidio ci? non si pu? certamente ripetere dall'uso fatto di Virgilio nella scuola, come poi accade per tanti altri poeti e prosatori latini. Dai ricordi di Seneca il vecchio rileviamo pur chiaramente che nel primo decennio dopo la morte del poeta l'Eneide era conosciutissima e si citavano versi di essa come volgarmente noti. Singolarmente attraente per una certa parte del pubblico riusciva la patetica poesia delle avventure di Didone, che pi? tardi strappava le lagrime ad Agostino, e che troveremo sempre fra le parti del poema pi? ammirate nei secoli seguenti.

A quei risultati per? non si poteva arrivare per semplice genialit? naturale, ch? questa sola non bastava nelle condizioni d'allora, come non basta mai a produrre grandi opere d'arte in epoche di grande cultura. Tanto la natura sua stessa e delle sue cause, quanto anche l'influenza dei greci contemporanei, davano alla poesia augustea, come in generale alla pi? gran parte della poesia romana, un carattere essenzialmente dotto. Molti studi filologici ed eruditi erano indispensabili al poeta per raggiungere una forma d'arte che stesse in armonia colle condizioni della cultura generale. L'indirizzo della poesia greca di quel tempo, dominata dagli alessandrini, era talmente dotto, che n? la lingua della poesia era cosa vivente, n? la poesia stessa era destinata ad esser patrimonio d'altri che di dotti. Se v'ha fatto che metta in rilievo quel tanto di genialit? poetica che ebbero pure i romani, tale ? senza dubbio il confronto fra essi e i greci nell'uso degli esemplari antichi. Da Alessandro in poi la decadenza della poesia greca ? tale, che chi ne studia la storia, se vuol riempire la vasta lacuna che gli si fa dinanzi, conviene si rivolga ai latini, presso i quali soltanto trova una continuazione di quell'indirizzo e di quella produttivit?.

La dottrina e lo studio, non solo dei prodotti greci, ma anche degli antecedenti prodotti romani, non impedisce ai pi? eletti poeti latini di trasfondere nell'opera loro quella vera poesia e quel carattere nazionale di cui gli alessandrini sono affatto privi. Non iscrivono per una stretta cerchia di dotti, ma per un pubblico vastissimo di cui l'educazione ? tale che nel poeta richiede ed apprezza anche il retore, il grammatico e l'erudito. In queste doti, essenzialissime in un poeta romano, niuno raggiunse Virgilio, il quale oltre ai molti delicati studi di arte, molto studi? pure la lingua nella sua natura presente, e nei suoi antecedenti letterari, per piegarla alla maggior possibile perfezione e farla organo adequato dei suoi concetti artistici; molto pure studi?, in libri e con viaggi, e localit? e miti e antichi usi e quante simili cose di fatto si connettevano col suo poema. Egli ebbe il segreto di adoperare soltanto come mezzo, senza mai ostentarla, questa molta dottrina, e di non subordinare ad essa la poesia. Gli antichi di questo ben si avvidero, talch? egli riusc? a due intenti non sempre identici, quello di piacere ai dotti di professione ed a tutti gli altri ad un tempo. Le doti mirabili della poesia virgiliana nell'uso e nella creazione del linguaggio poetico, e nella struttura del metro, la minutezza delle ricerche erudite da lui fatte per dare al suo poema il colorito pi? fedele, sono cose tanto vere, che la pi? severa e maldisposta critica odierna ha pur dovuto in questo confermare gli elogi prodigati al poeta dagli antichi.

I bisogni e il carattere del pensiero romano erano tali, che l'impressione prodotta dalle caratteristiche pi? estrinseche e meccaniche del poema fu profondissima. Essa sopravvisse e domin? in tutte le variazioni che sub? il concetto del poeta, e rimase, comunque contorta e deturpata, pur vivissima per tutta la tradizione letteraria del medio evo latino. La perfezione della lingua era pei romani di tanta importanza in un'opera d'arte, che si pu? dire fosse la principal cosa a cui si guardava nel giudicarne, ed essa sola tenesse luogo di molti altri meriti. Ed invero le condizioni degli scrittori romani erano per questo lato assai diverse da quelle dei greci, presso i quali le forme dell'arte, svoltesi per un moto naturale e spontaneo del pensiero nazionale, furono assecondate da un corrispondente svolgimento del linguaggio spontaneo e naturale, talch? i poeti questo piegavano e traevano facilmente ai loro intenti, senza bisogno di uno studio grammaticale e filologico. Il processo per cui si ? svolta la letteratura romana ? ben lontano da tanta naturalezza. Ridurre una lingua rozza aspra ed incolta a servire di organo a forme letterarie d'origine non nazionale e quasi repentinamente accettate dal di fuori, era cosa di grandissima difficolt?, colla quale ebbero a lottare i pi? antichi autori latini; ed essa costituisce la pi? forte loro preoccupazione. Da questo aspetto pu? dirsi che da Livio Andronico a Cicerone e a Virgilio, la letteratura romana non sia che una serie di tentativi coi quali si cerca continuamente di piegare la lingua alle esigenze estetiche imposte al pensiero ed al gusto dalla influenza greca. Cos? presso i latini, contrariamente a quanto avvenne fra i greci, per questa condizione di cose ed anche pel contenuto materiale della influente cultura greca, la ricerca grammaticale esiste gi? e domina, presso a poco, in ogni scrittore, assai prima che lo sviluppo completo della letteratura abbia avuto luogo, ed il pensiero nazionale siasi acquetato nel trovamento di forme che lo esprimano adequatamente. A questo ultimo risultato giungono Cicerone nella prosa e Virgilio nella poesia. L'uno e l'altro hanno tanto bene e tanto giustamente soddisfatto a quell'ideale di perfetto linguaggio, a quel bisogno di propriet? di finezza e d'armonia, che con essi la meta ? raggiunta, ed ogni ulteriore tentativo non riesce che a male. Questo merito loro, certamente altissimo, fu il principale ad essere veduto dagli antichi, e fu senza dubbio in tanta intensit? e universalit? delle esigenze a cui soddisfaceva, una principalissima causa della loro rinomanza. L'efficacia cos? dell'oratore come del poeta era tanto dipendente da un merito di questa natura, che raggiungendosi per esso lo scopo, esso poteva servire anche a misurare l'oratore come oratore, il poeta come poeta.

Generalmente la critica di quei grammatici si attiene ai particolari; giudica di parole, di forme, di struttura metrica, discute certe parti dell'organismo della narrazione, notando qualche inconseguenza, qualche contradizione, si trattiene in questioni di erudizione. Scarse, e sempre relative a luoghi particolari, sono le osservazioni di stile; per lo pi? si riducono a confronti; l? ? una immagine che Virgilio ha trattato meglio o peggio di Omero, qua una descrizione in cui ? stato superato da Pindaro. Nell'assieme di tutte le osservazioni che ci rimangono si scorge una certa libert? e indipendenza di giudizio, per la quale, quantunque considerato come altissima autorit? nel campo grammaticale retorico ed erudito, Virgilio non ? in questa prima epoca dai grammatici dotti ed assennati ammirato ciecamente; molti nei sono riconosciuti in esso e messi in evidenza, e li ammetteva in certa misura lo stesso Asconio Pediano nel libro che scrisse contro i detrattori del poeta. Ma quei detrattori che erano animati, nel criticare, da sentimenti nemici al poeta, durarono poco, e non si trovano che fra i suoi contemporanei. Le osservazioni critiche di Igino, di Probo, ed anche quelle pi? aspre e pi? numerose, ma meno giuste, di Anneo Cornuto non ledevano in alcuna maniera il nome di Virgilio. Eran considerate come macchie inevitabili che si trovano in ogni opera umana, e che si notavano anche nello stesso Omero; generalmente si era convinti che il grande poeta le avrebbe tolte via, se la morte non gli avesse impedito di compiere l'opera sua. Taluno arrivava ad attribuirgli l'intenzione di mettere alla prova, introducendo certe difficolt? nelle sue poesie, il sapere e l'acume dei grammatici.

Cos? della poesia virgiliana gi? in questa prima epoca si sentiva pi? di quello si definisse. Come organo il pi? fedele del sentimento nazionale, come prodotto artistico in ogni parte finamente armonizzato col gusto le tendenze la coltura i bisogni dello spirito pubblico, essa esercita un prestigio immenso e ben giustificato, dinanzi a cui il nome stesso del grande oratore romano impallidisce e diviene troppo unilaterale. Ma allorch? da quella impressione vogliono risalire alle cause e ad una analisi dell'opera virgiliana, si arrestano ad una parte di essa puramente esterna e formale, tanto perch? l'indirizzo generale dello studio d'allora a questa parte sopratutto rivolgeva le menti, quanto perch? la teoria letteraria d'allora non poteva guidare a veder bene addentro nella vera natura dell'epopea. Quest'abitudine nella critica turb? non poco, come abbiamo notato, anche il concetto dell'eloquenza ciceroniana, quantunque l'oratoria fosse assai di competenza romana, e quantunque nel paragone fra Cicerone e Demostene si stesse su di un terreno assai pi? solido che in quello fra Virgilio ed Omero. Quanto a Virgilio, quella specie di critica ristringeva il valore del poeta in un campo troppo angusto per tanto nome, e per la qualit? e la universalit? dell'entusiasmo che avea destato. Il valore poetico e nazionale di questo nome, quella parte cio? che generalmente sentita pur non capiva in quel campo ristretto ed incapace di farla vedere nella sua vera e complessa natura, serviva come di lievito ad accrescere le proporzioni della parte che restava definita, dei meriti dotti, spingendo ad esagerarla. La idea della sapienza universale del poeta non si scorge ancora, ma c'? gi? quella di una sua universalit? letteraria per la quale esso regna nella poesia e nella prosa, nella grammatica e nella retorica, ossia negli elementi primi e caratteristici della cultura del tempo; ognuno ? prono a trascendere parlando di lui, esagerando pi? o meno il numero e la variet? dei suoi meriti; n? certamente Marziale esprimeva una idea esclusivamente sua, quando diceva che, se Virgilio avesse voluto provarsi nella lirica e nel dramma, avrebbe superato di leggieri i pi? grandi lirici e tragici. Fin dal principio adunque si trovano nella nominanza del poeta i segni e le cause di un traviamento di cui vedremo poi le fasi e le proporzioni ulteriori.

Virgilio ? del piccolo numero dei poeti fortunati sott'ogni aspetto. Ammirato per le rare doti del suo ingegno non solo, ma per quelle dell'animo eziandio che rendevanlo uno degli uomini pi? simpatici del suo tempo, quanti furono buoni poeti suoi contemporanei non dubitarono di riconoscere la sua superiorit?, e tutti a gara e con parole di entusiasmo gli fecero onore, come scorgiamo da quei che ci rimangono. Non mancarono a lui nemici, ch? al genio non mancano mai: ma glieli fece facilmente dimenticare la stima dei grandi d'ogni specie e del popolo romano che, udendo i suoi versi in teatro, unanime sorse in piedi, ed al poeta a caso presente fece segno di rispetto, come solea fare collo stesso Augusto. Egli certamente da quanto ottenne coll'opera sua in vita, dovette argomentare della durevolezza e della immortalit? del suo nome.

N? il nome di Virgilio e dei poeti della nuova scuola rimase limitato alla sola Roma, ma corse in un attimo per le provincie. Fra le numerose iscrizioni che si veggono tuttora graffite sui muri in Pompei, alcune ci presentano versi di Ovidio e di Properzio, ma pi? assai di Virgilio. Una di queste ci offre il verso 70 dell'8.? egloga:

RUSTICUS EST CORYDON;

un'altra, che fa una mesta impressione nella citt? rovinata e deserta:

CONTICUERE OM.

Queste iscrizioni probabilmente sono dovute a scolari, come ad essi probabilmente si debbono gli alfabeti o le parti di alfabeto che trovansi segnate sul muro in parecchi luoghi di Pompei. Quando accadde la catastrofe di Pompei, nel 79 dell'era volgare, Virgilio era morto da 98 anni, ma quantunque senza dubbio la maggior parte delle iscrizioni graffite pompeiane debba collocarsi nell'intervallo fra l'ultima catastrofe e quella che la precedette sedici anni prima, molte sono certamente assai pi? antiche; una ve n'? che appartiene di sicuro al 79 prima di Cristo, ed anche uno degli alfabeti pare debba ascriversi al tempo della repubblica. Il nome di Virgilio nella Campania, suo soggiorno prediletto, fu grande gi? mentre visse, e la sua sepoltura a Napoli lo localizz? in quella regione in un modo tutto particolare. Niente impedisce adunque di credere che sui muri di Pompei possano essere stati graffiti questi versi virgiliani che vi si leggono tuttora, in epoca molto vicina alla vita del poeta e forse anche mentr'egli ancora viveva. E quel <> ed il <> non sono tuttora due dei luoghi virgiliani pi? volgarmente conosciuti e rammentati da quanti hanno frequentato le scuole? N? soltanto i graffiti pompeiani offrono prova della popolarit? di Virgilio; anche fra le epigrafi propriamente dette s'incontrano, colla pi? singolar variet? di oggetti, versi del poeta; se ne son trovati su di un cucchiaio di argento, su di un tegolo, in un bassorilievo che rappresenta una venditrice di selvaggina, ed in iscrizioni funebri.

Durante tutto il primo secolo dell'impero e parte del secondo lo studio grammaticale prende un forte sviluppo e domina tutto il campo letterario, dando luogo per parte di uomini speciali ad opere dotte ed importanti, che saranno poi espilate dai grammatici dei tempi posteriori. Il procedere di coloro era modellato fino ad un certo punto sugli studi grammaticali dei greci. Per?, bench? per illustrare Virgilio da essi molto si facesse di quanto si era fatto per illustrare Omero, l'uso ch'essi fecero di Virgilio come autorit? grammaticale doveva essere naturalmente ben diverso dall'uso che i greci fecero in ci? di Omero. Anche in questo, come nelle cause fondamentali, la nominanza di Virgilio differisce profondamente da quella di Omero, colla quale pure esternamente ha tanti punti di contatto. Omero era stato molto studiato ed illustrato dagli alessandrini, ma la sua lingua e le sue forme non aveano allora che un valore storico, e quantunque potessero ancora essere e fossero adoperate in certe poesie di ragione intieramente artificiale ed academica, non avrebbero certamente potuto servire di base ad una teoria grammaticale destinata a governare l'uso generale degli scrittori. Virgilio invece, il pi? alto e definitivo portato dello sviluppo letterario latino, era e doveva essere la base e l'autorit? pi? solenne di ogni dottrina e di ogni studio grammaticale. Esso ? infatti come la stella polare di ogni grammatico e nello studio di esso si approfonda chiunque si destina a quella professione. Indubitatamente non vi fu altro scrittore latino sul quale tanti grammatici scrivessero quanto su Virgilio, non uno che servisse alla composizione di opere grammaticali tanto quant'egli.

Il suo valore letterario e la sua autorit? grammaticale richiedevano molta sicurezza circa la genuina lezione del suo testo, e pi? critici se ne occuparono, non soltanto emendandolo secondo congetture, ma anche con l'uso di MSS. autorevoli provenienti dalla sua famiglia, ed anche dei suoi stessi autografi che si conoscevano ancora ai tempi di Plinio, di Quintiliano e di Gellio. Oltre poi alla critica del testo, la illustrazione di luoghi difficili, di vocaboli, di fatti mitologici, geografici e simili, le osservazioni di stile sul tale o tal altro luogo considerato in s? o in confronto con qualche luogo simile di poeta greco, erano i soggetti di dotti trattati d'Igino, amico d'Ovidio e della nuova scuola, di Probo che pu? dirsi l'Aristarco latino, di Anneo Cornuto e di altri assai che sarebbe lungo annoverare, e che non sono poi neppure tutti conosciuti. Altri, come Aspro, facevano commenti che accompagnavano, illustrandole, le opere del poeta.

La scuola e l'insegnamento orale era il centro dell'attivit? di tutti quei grammatici; per? quel che indirettamente conosciamo dei loro scritti non appartiene certamente alle regioni basse ed elementari dell'insegnamento. Valerio Probo, il pi? distinto fra tutti gli illustratori di Virgilio, non tenne scuola propriamente detta, ma parlava di cose dotte confabulando in un circolo di pochi e scelti uditori. Nondimeno alcuni scritti anche assai dotti e importanti, come p. es. quello di Aspro, furono fatti appunto per l'insegnamento, ed in generale molte osservazioni e schiarimenti contenuti in trattati critici e dotti furono adoperati dagli autori di commenti fatti per l'uso scolastico. Attraverso alla letteratura dotta di quell'epoca oggi superstite, si pu? presso a poco indovinare ci? che avveniva nell'insegnamento pi? elementare. Virgilio era il primo libro latino che prendevano in mano i fanciulli dopo avere imparato a leggere e scrivere, e d'allora in poi esso serviva non meno all'insegnamento elementare che al superiore. Di esso si serviva dapprima il maestro per avvezzare lo scolaro a leggere a senso, distribuendo opportunamente le pause e le inflessioni della voce. Questa scelta, come quella di Omero per lo stesso scopo, ? lodata da Quintiliano, non solo per la bellezza di quella poesia, ma anche per gli onesti e nobili sentimenti che ispirano i carmi dei due poeti; <>. Poi di quella lettura il grammatico deve approfittare per far esercitare i giovani a sciogliere in prosa il periodo poetico, a notare la quantit?, a rilevare anche ci? che ? irregolare, barbaro o improprio, <>. E cos? su quel testo giungeva il giovane a fare ogni altro esercizio di interpretazione e di illustrazione. Ma tutto questo era pi? o meno ben fatto secondo il sapere dei grammatici, che nella generalit? non era grandissimo. Assai ve n'erano rozzi e dappoco, per tacere dei molti cerretani. Ai pi? incolti Quintiliano raccomanda l'osservanza di quanto era scritto nei manualetti usati pi? generalmente nell'insegnamento elementare.

Un posto simile a quello che teneva nell'insegnamento grammaticale occupava Virgilio anche nello studio retorico che faceva seguito immediatamente allo studio della grammatica e con esso strettamente si connetteva, tanto che alcuni precetti o esercizi di carattere retorico, gi? eran fatti dal grammatico, ed anche molti insegnanti, singolarmente in una pi? antica epoca, si erano occupati di ambedue gl'insegnamenti. Ma mentre la grammatica nel primo secolo ha uno sviluppo nobile, la retorica si distingue in esso per una notevole decadenza. ? una pianta parassita che ha perduto ogni alimento proprio col cadere della libert?, e si regge artificialmente invadendo tutto il campo letterario, dandogli il proprio colorito, paralizzandone o imbastardendone i prodotti. In quella frenesia di declamazione che tanto era generale da proporzionare ad essa gli intenti e le dottrine e i metodi dell'insegnamento e della generale educazione, vario era l'uso del poeta. Naturalmente nella teoria retorica, in tutto quanto si riferiva ai precetti, molto per la esemplificazione si traeva da esso, che era gi? noto ed usato assai nell'insegnamento antecedente, ed in cui gi? il grammatico aveva avvezzato i giovani e cercare le figure e i tropi. Nella parte prattica, che era propriamente la principale nelle scuole comuni, oltre ai temi per le declamazioni, ne traevano sentenze, immagini, idee, ed espedienti oratorii, ne imitavano le descrizioni, copiavano talune espressioni felici; e di quest'uso nella scuola e fuori, si ha gi? esempio fin dai primissimi tempi della sua rinomanza, fra i pi? distinti retori dell'evo augusteo contemporanei del poeta, fra i quali principalmente, per farsi amico Mecenate, distinguevasi nel prendere molto da Virgilio, Arellio Fusco, uno dei numerosi amici di Seneca il vecchio. A questo aveva servito gi?, e serviva tuttavia anche Omero, nel quale gli antichi trovavano il pi? vetusto monumento dello studio retorico, ponendo che i discorsi degli eroi omerici da questo studio fossero guidati. Lo stesso sobrio Quintiliano si entusiasma parlando delle virt? della eloquenza omerica, grande in ogni genere. Qualit? retoriche era tanto pi? facile trovarle in Virgilio, che realmente egli non meno che tutti i poeti dell'evo augusteo, era uscito dalla solita scuola del grammatico e del retore. Ovidio porge colle Eroidi il pi? chiaro esempio dello studio retorico di quei poeti. Pu? essere poi un fatto fortuito, ma forse non lo ? tanto quanto pare, che le pi? antiche citazioni oggi note di versi Virgiliani ricorrano appunto in bocca di retori contemporanei del poeta, i quali o se ne servono per le loro composizioni, o ne parlano da un aspetto retorico.

Fra i molti artifici con cui i retori di varie scuole cercavano di soddisfare al desiderio di novit? in tanta voga di declamazioni, c'era il cercar di dare un carattere severo e solenne al dettato, rendendolo contorto ed oscuro. Scrivere in modo semplice, chiaro e disinvolto, sarebbe stato per molti, come per certuni anche oggid?, un delitto di lesa arte retorica. Un retore diceva ad un discepolo: Abbuja! abbuja!, e lo scolare abbujava; e il maestro contento diceva: bravo! ora sta bene; neppure a me riesce capirne nulla. Questa specie di affettazione che voleva imporre con una apparenza di profondit? e di dottrina, conduceva anche all'uso delle parole insolite e viete, e cos? ad una reazione contro gli scrittori della ultima pi? grande scuola, richiamando in vita lo studio dei pi? antichi. La serie di tentativi per cui la lingua letteraria si venne formando presso i latini portava naturalmente con s? che, anche dopo trovata una forma definitiva di prosa e di poesia, una certa autorit? rimanesse a quelli scrittori che, se non toccarono la meta, pur contribuirono ad arrivarvi. Singolarmente, oltre ad un merito intrinseco che faceva venerare in certi limiti questi antichi poeti e prosatori, c'era una tradizione teoretica che ne teneva in vita l'autorit?, in tutta quella disciplina di grammatica e di erudizione filologica che serviva indispensabilmente allo scrittore anche nella migliore epoca, e che in fondo da principio era basata su di essi. Cos? c'era propriamente fra i grammatici una continua occasione di rivolger lo sguardo alla letteratura antica. Il nuovo indirizzo letterario poi, risultante dall'influenza e dall'autorit? di Cicerone e Virgilio, offriva bens? nei modelli che proponeva un largo tesoro di linguaggio eletto, ma non tanto facilmente maneggevole, per chi alle guide e alle norme puramente meccaniche della grammatica e della retorica non riunisse una finezza di gusto naturale. In un tempo in cui l'erudizione e la dottrina filologica era ammirata generalmente, ed anzi richiesta dal pubblico negli scrittori, in cui una parte cospicua del tesoro letterario della nazione era costituita da un gran numero di antichi scrittori, imperfetti bens?, ma pure non del tutto da gittarsi via, il gusto di chi scriveva era facilmente esposto ad essere fuorviato nella scelta e nell'uso degli esemplari da imitare. La parola antiquata ha invero una certa sua efficacia speciale, ed ? facile pensare a servirsene come di mezzo retorico; ma il farlo senza cadere in gravi difetti ? cosa che richiede squisitezza di criterio artistico quale a pochi ? accordata. Invero dei grammatici e degli scrittori che si mostrassero propensi per lo stile e i vocaboli antiquati non mancarono neppure nei pi? bei tempi della prosa e della poesia romana. Gi? Cesare biasimava questa affettazione e cos? Orazio e Virgilio stesso, come pi? tardi Seneca, Quintiliano ed altri. Ma l'apice che tocc? la prosa e la poesia ai tempi augustei, ed il gusto generalmente pi? fino e corretto che allora regnava, impedirono a quel movimento di prendere proporzioni considerevoli, e rimase assai oscuro. Esso per?, col prevaler della forma nell'opera letteraria, e coll'accrescersi del vuoto che sotto quella si copriva, rendesi pi? visibile e notorio al tempo degli Antonini. Le tendenze greche di taluni imperatori, l'amore per certi prodotti degli alessandrini, l'ammirazione pel pomposo, pel misterioso, pel peregrino che domina in quell'epoca favorevolissima a cerretani d'ogni specie, il bisogno di supplire con mezzi artificiali alla mancanza di creazione artistica, consigliavano di ricorrere all'arcaismo, alla parola insolita, per dare prestigio ed apparente autorit? e gravit? a frasi vuote e pompose.

Il pi? noto rappresentante di questo indirizzo ? il Cicerone di quell'epoca, il maestro di M. Aurelio e L. Vero, M. Cornelio Frontone, gran padre di ogni pedanteria, che insegnava ad andar pescando <> e a dare al dettato un certo coloretto di vetust? . Giudicando da quel che ci rimane di lui, egli dei poeti della scuola augustea fece pochissimo uso nei suoi studi di stile e di lingua. Qua e l? nei suoi scritti qualche rara reminiscenza di Virgilio e d'Orazio si ritrova, ma da attribuirsi alla influenza delle comuni scuole da cui egli stesso era uscito. Virgilio ? appena da lui citato una volta e di Orazio egli parla come di poeta semplicemente <>. Frontone fu invero un caposcuola che ebbe non pochi seguaci, e lasci? dopo di s? una certa tradizione retorica che singolarmente domin? nella Gallia. Ma propriamente la sua influenza si ristrinse al campo pi? limitato della prosa puramente retorica, e non se ne scorge molto evidente traccia negli scrittori che ci rimangono. Del resto mi pare che da certi indizi si possa conchiudere che non tutti i Frontoniani seguissero rigorosamente il maestro nei giudizi e nell'uso degli scrittori dell'evo augusteo. Nello stesso circolo degli amici ed ammiratori di Frontone troviamo uomini che, non solo fanno grande uso di Virgilio nelle loro lucubrazioni grammaticali ed erudite, ma anche ne fanno soggetto di lavori speciali, come p. es. Sulpicio Apollinare, maestro di Pertinace, il quale ad una sua edizione dell'Eneide premetteva i tre enfatici distici, che rimasero celebri, relativi all'ordine dato da Virgilio morente di bruciare quell'opera, e componeva le perioche in versi dei singoli libri, che pure possediamo. Certo ? che questo movimento Frontoniano occupa una regione limitata del campo letterario, e non si estende propriamente a quelle comuni scuole che nell'impero erano il fondamento della educazione generale. In queste l'uso e l'autorit? di Virgilio e degli altri poeti rimasero intatti e non patirono danno dall'influenza di Frontone, n? corsero n? potevano correre rischio di essere scavalcati da Ennio, o da Lucilio, o da Lucrezio, che taluni ad essi preferivano.

Questa recrudescenza di venerazione per gli antichi e questo moto reazionario in favore di essi non era invero rappresentato dal solo Frontone e dai Frontoniani. Ma Frontone eccedeva, pi? invero nel metodo dello studio e nella scelta degli esemplari, che nella sua maniera di scrivere; ch? altri, rimasti pi? oscuri, spinsero l'affettazione dell'antico a proporzioni ben pi? strane. Eccedeva per? anche rimpetto agli uomini che aveano gusto simile al suo; poich? fra i tanti che veneravano la letteratura antica pochissimi spingevano la cosa al punto da trasandare lo studio di Virgilio.

Un libro importante per la conoscenza delle idee letterarie e dell'indirizzo degli studi di questo tempo ? il libro di Gellio. Gellio non ? un Frontoniano; neppure come grammatico pu? dirsi ch'egli appartenga ad una scuola piuttosto che ad un'altra. Ei non ? altro che un erudito dilettante il quale raccoglie appunti sopra soggetti svariati, tanto dai libri quanto dai vari circoli letterari che frequenta; predilige per? principalmente le ricerche sulla storia della lingua; e tutto quanto concerne la propriet? e l'uso dei vocaboli ha per lui un incentivo particolare. ? antiquario in filologia, o amatore di curiosit? filologiche, perci? venera i vecchioni della repubblica dinanzi ai quali si rimpiccolisce tutto, mentre tratta assai leggermente alcuni grammatici dell'impero, senza eccettuare l'autorevole Verrio Fiacco. Non dice una parola n? di Tacito n? di Quintiliano e maltratta Seneca, come lo maltratta Frontone, perch? non solo trasandato nello stile e nella lingua, ma derisore dei cercatori di arcaismi e degli studiosi dei vecchi poeti. Cos? Gellio si muove in quella stessa atmosfera in cui si muove Frontone, del quale parla quindi con elogio, ed ha con questo comunanza di gusti. Quantunque per? nel suo stile e nella sua lingua si riconoscano le sue predilezioni antiquarie, il suo campo ? troppo distinto da quello di Frontone perch? ei si possa chiamare Frontoniano. ? degno di nota a tal riguardo un capitolo in cui Gellio riferisce e non disapprova certe parole di Favorino contro l'uso degli arcaismi. Ma in questo libro, che tanto ? prezioso documento della vita letteraria di quell'epoca a Roma e fuori, importantissimo per noi ? il molto uso che si fa di Virgilio.

Presso Gellio, Virgilio figura come scrittore di grandissima autorit? in fatto di lingua, di propriet? e di eleganza. In questo campo, che ? il proprio di Gellio, Virgilio non solo ? citato come autorit?, ma ? anche difeso contro gli appunti dei grammatici dell'epoca antecedente, quali principalmente Igino ed Anneo Cornuto, censurati con parole anche aspre. Di rado si concede che qualche parola sia stata usata impropriamente o inopportunamente da Virgilio. Taluni appunti relativi a cose di fatto, a certe inconseguenze o contradizioni, sono riferiti, discusse le varie spiegazioni, ma non tolti di mezzo. Tutta questa critica di minuzie non va molto in l?, n? si estolle in regioni pi? larghe e pi? alte quando tocca pi? da vicino l'arte virgiliana. In ci? essa ? unicamente limitata a paralleli fra alcuni poeti greci e Virgilio, ma solo per tale o tal altro luogo. Virgilio in taluni casi ? felice in altri infelice imitatore, qua e l? egli ? riconosciuto inferiore ad Omero. Favorino confronta la descrizione dell'Etna che ? nell'Eneide, con la celebre di Pindaro , e la trova inferiore assai); il che ? vero senza dubbio. Ma le ragioni che adduce sono di poco o nessun momento; egli non sa far altro che confrontare espressione con espressione, n? sa addentrarsi nelle proprie ragioni dell'arte, distinguere fra ci? che la essenza stessa delle cose impone o accorda a due generi di poesia cos? opposti come sono la epopea e la lirica, singolarmente quando quest'ultima ha tutto quel miracoloso slancio che sa imprimerle la mente del poeta tebano. La scuola d'allora non andava fin l?; se essa si mostra assai indipendente ancora e non esita a riconoscere i difetti di uno scrittore di grande autorit?, i suoi giudizi si tengono all'esterno, a quella parte formale che era l'esclusivo soggetto della prammatica letteraria del tempo.

I grammatici erano gente alla moda che dava spettacolo del proprio sapere; c'era da per tutto un pubblico ghiotto di quel trattenimento. Era stato chiamato a Brindisi uno di costoro; quando Gellio giunse in quella citt? trov? che dava saggio di s? leggendo il settimo dell'Eneide e invitando il pubblico a muovergli questioni e difficolt?. Leggeva barbaramente, e ad una questione che Gellio gli mosse rispose in modo ridicolo. Di simili cerretani parla Gellio assai spesso. Intanto vediamo quanto e quale uso si facesse di Virgilio in quella sfera, dai pi? alti agli infimi. V'erano invero degli uomini che preferivano Lucilio ad Orazio, Ennio o Lucrezio a Virgilio, ma erano eccezioni. Uno dei pi? celebri fu l'imperatore Adriano; ma pure la sua ammirazione per Ennio non gli impediva di consultare le sorti virgiliane anch'egli, e di avere spesso per la bocca i versi di Virgilio. Le parole che Gellio adopera parlando di un tale che si voleva chiamare Ennianista e leggeva Ennio nell'anfiteatro di Pozzuoli, evidentemente mostrano che questa lettura pubblica di Ennio era allora cosa insolita. Marziale che per l'indole sua come poeta e come uomo non appartiene ad alcun gruppo letterario, e rappresenta il sentimento pi? generale in fatto di letteratura, era sicuro di trovare l'approvazione dei pi? quando notava come un torto dei romani l'aver seguitato a legger Ennio mentre viveva un Virgilio, e quando con un pungente epigramma derideva un di questi tenebrosi che a Virgilio preferiva l'inintelligibile Elvio Cinna. Generalmente i dotti deplorano il poco studio che suoleva farsi degli antichi.

La nominanza del poeta non soffr? adunque pur menomamente da quel moto reazionario manifestatosi in un certo campo degli studi, quantunque non sembri aver goduto le simpatie di Frontone. Ma la vitalit? di quel nome era troppo potente perch? un traviamento qualunque potesse nuocerle. Al secolo che ammir? Apuleio, uomo di molto ingegno, ma scrittore ridicolo ed insopportabile per la gonfiezza pi? esagerata e per la dicitura pi? stranamente peregrina, al secolo che a lui innalz? una statua e ud? con ammirazione parlata e scritta da africani una lingua latina di nuovo conio, a quel secolo certamente Virgilio avrebbe dovuto parere scolorato, snervato, molle ed insipido. Eppure tanto grande era questo nome, e tanta autorit? aveano accumulato su di lui quanti erano stati uomini illustri e dotti insegnanti delle antecedenti generazioni, che in mezzo a quel nuovo trionfare del cattivo gusto, un prestigio irresistibile, ed il suo rapporto colla educazione generale, lo posero in salvo. Nelle scuole dei grammatici e dei retori, in ogni classe pi? o meno colta rimase venerato sempre, e lo vedremo grandeggiare costantemente in mezzo alle peripezie delle lettere latine che ancor pi? precipitosamente rovinavano da Marco Aurelio in poi.

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