bell notificationshomepageloginedit profileclubsdmBox

Read Ebook: Virgilio nel Medio Evo vol. I by Comparetti Domenico

More about this book

Font size:

Background color:

Text color:

Add to tbrJar First Page Next Page Prev Page

Ebook has 353 lines and 98492 words, and 8 pages

La nominanza del poeta non soffr? adunque pur menomamente da quel moto reazionario manifestatosi in un certo campo degli studi, quantunque non sembri aver goduto le simpatie di Frontone. Ma la vitalit? di quel nome era troppo potente perch? un traviamento qualunque potesse nuocerle. Al secolo che ammir? Apuleio, uomo di molto ingegno, ma scrittore ridicolo ed insopportabile per la gonfiezza pi? esagerata e per la dicitura pi? stranamente peregrina, al secolo che a lui innalz? una statua e ud? con ammirazione parlata e scritta da africani una lingua latina di nuovo conio, a quel secolo certamente Virgilio avrebbe dovuto parere scolorato, snervato, molle ed insipido. Eppure tanto grande era questo nome, e tanta autorit? aveano accumulato su di lui quanti erano stati uomini illustri e dotti insegnanti delle antecedenti generazioni, che in mezzo a quel nuovo trionfare del cattivo gusto, un prestigio irresistibile, ed il suo rapporto colla educazione generale, lo posero in salvo. Nelle scuole dei grammatici e dei retori, in ogni classe pi? o meno colta rimase venerato sempre, e lo vedremo grandeggiare costantemente in mezzo alle peripezie delle lettere latine che ancor pi? precipitosamente rovinavano da Marco Aurelio in poi.

Ma se il nome non diminuiva di grandezza e conservava il suo pristino posto fra i nomi dell'antichit? classica, le mutate condizioni dell'ambiente intellettuale per cui passava gli faceano necessariamente cambiar natura. Creazione poetica vera e propria manca affatto a quest'epoca, come mancher? sempre d'ora innanzi nelle lettere latine. La retorica si ? sostituita alla poesia, che vive d'imitazione, attenendosi a Virgilio come a supremo modello. E qui si scorge un'altra essenziale differenza fra le nominanze di Omero e di Virgilio. Omero esercita una influenza su quello sviluppo vitale della poesia e dell'arte greca di cui esso non rappresenta che un primo momento, col quale i prodotti successivi sono naturalmente collegati per legami intimi ed organici; Virgilio invece sulla successiva poesia latina, morente o gi? morta, poesia di forma pi? che di sostanza, esercita una influenza puramente formale. Lo studio intenso del poeta, l'uso e l'imitazione spesso servile del suo linguaggio poetico, non coprono in alcuna guisa l'immenso divario che ? fra questi poeti posteriori e i poeti augustei nel modo d'intendere la poesia. Il pubblico per? accordava a molti di essi grande favore e li trovava di suo gusto. Come credere che quella gente che si entusiasmava per le declamazioni poetiche di Stazio avesse un giusto sentimento della poesia virgiliana, e nell'ammirazione pel grande Mantovano non portasse quello stesso falso e storto sentire che le faceva ammirare il gonfio e pomposo suo imitatore?

Sotto gl'imperatori del 3.? e del 4.? secolo quali vicende patissero le lettere latine, ? noto a tutti. Fra le preoccupazioni di una corte e di un pubblico in cui dominava l'elemento militare, quando ogni villano o barbaro autorevole sulle soldatesche ignoranti, poteva assidersi sul trono dei Cesari, certo il vento non poteva spirare favorevole alle lettere. In tali condizioni, meno profondi divenivano i rapporti della produzione letteraria collo spirito pubblico, e questa veniva gi? confinata presso una classe di persone che aveva il primo suo impulso come il principale suo ambiente nella scuola. Per questo indebolimento di legami fra le lettere e il pensiero in generale, avveniva pure che il divario fra la lingua parlata e la scritta si facesse sempre pi? sensibile, e il latino volgare, plebeo o rustico che si voglia dire, prendesse incremento e anche ardire; talch? l'ufficio del grammatico diveniva cosa meno elevata, e gi? doveva parere assai se s'insegnava a scrivere correttamente. Proporzionata al bisogno e alla qualit? di questo ? la produttivit? dei grammatici di questi secoli della decadenza, produttivit? ricca per numero di opere ma estremamente misera quanto a originalit? di vedute. In questo campo degli studi grammaticali, come in ogni altro vedesi uno straordinario impoverimento d'idee: niuno sa muovere un passo di forza propria, senza appoggiarsi ai pi? antichi. Come nell'arte tutto ? poco intelligente imitazione, nell'opera dotta o scientifica tutto ? poco intelligente riassunto o compilazione. Ormai la letteratura, disposta a vivere artificialmente e ristrettamente, riduce il suo armamentario, eliminando quanto appariva utensile superfluo, cercando scorciatoie e manifestando un gran desiderio di tutto compendiare. Di tali compendi o compilazioni, coi quali si voleva liberarsi dal leggere un gran numero di scrittori, ? ricca l'et? della decadenza, e a questa appunto appartengono la maggior parte delle opere grammaticali che ci rimangono. Grande ? la iattura delle tante opere antiche che cos? scomparvero dinanzi alle infelici lucubrazioni di queste larve di dotti. L'impero seguitava a mantener grammatici, e qualche imperatore anche a proteggerli insieme ai filosofi e ai retori, ma pi? per lusso o per capriccio, che per altro, o anche per vigliaccheria, temendo le ingiurie della loro penna, come vien detto di Alessandro Severo. Del resto il gusto imperiale, finch? favor? le lettere, aveva una predilezione per gli studi greci, n? era di tempra tale da esercitare una benefica influenza; al contrario, sempre pi? spingeva verso il futile e il vano. Geta che amava mostrarsi amico dell'alfabeto, ordinando pietanze i nomi delle quali cominciassero tutti con una certa lettera, si divertiva pur talvolta a far venire a s? grammatici per chieder loro, fra le altre cose, liste di verbi esprimenti le voci dei vari animali.

Da Alessandro Severo in poi, che pure fra le sue predilezioni greche venerava Virgilio , il culto delle lettere divenne quasi affatto estraneo alla corte. La vecchia tradizione dell'impero ? ormai rotta, e fra coloro che hanno o si disputano il supremo potere, uomini come Gordiano il vecchio sono eccezioni rare ed anche di poco momento. Contrariamente a ci? che era avvenuto in altro tempo, la qualit? di militare era ormai opposta a quella di letterato, e distraeva dall'amore per gli studi anche gli uomini che avevano ricevuto una certa cultura letteraria. Gli scrittori della Storia augusta, gente che si presenta a noi tal qual ?, senza maschera o belletto di sorta, ci danno una idea assai chiara del livello intellettuale di quel tempo, singolarmente per tutta la regione politica e militare. Vopisco si maraviglia che suo nonno, narrandogli il fatto dell'uccisione di Apro, attribuisse all'uccisore Diocleziano le parole <>: <>. Sulla fine del secondo secolo Clodio Albino, che non fu punto amoroso delle lettere, avea studiato anch'egli da fanciullo Virgilio nelle scuole; ma lo studio del poeta non gli avea servito che a manifestare i suoi istinti militari. Ad onta di tutto ci? le reminiscenze virgiliane sono frequenti anche fra questa gente, ch? una quantit? grande di versi virgiliani avea un uso quasi proverbiale, e la conoscenza del poeta era, per effetto delle scuole ed anche del teatro, cosa volgare. Quindi non solo si trovano versi virgiliani, a proposito di faccende politiche, sulla bocca di Gordiano il vecchio, ch'era un uomo colto, ma ne troviamo pure in una lettera di Diadumeno a Macrino suo padre, ed in una di Tetrico il vecchio ad Aureliano. Sotto Alessandro Severo, Giulio Crispo tribuno dei pretoriani, esprimeva il suo malumore con versi di Virgilio che gli furono fatali. Con due emistichi virgiliani ? composto un motto del circo in favor di Diadumeno contro Macrino, e parimenti un emistichio virgiliano ritrovasi fra le acclamazioni colle quali il senato chiamava Tacito, gi? vecchio, all'impero.

Sul modo di considerare quel poeta che era la pietra fondamentale dell'insegnamento letterario, molto dovevano influire i commenti coi quali era spiegato ed illustrato nelle scuole. Una storia critica dei numerosi commentatori di Virgilio, bench? tentata dal Suringar, ? tuttavia un desiderio che non sar? soddisfatto prima che molte ricerche e studi speciali abbiano rischiarato questo campo intralciatissimo. I commenti virgiliani, moltiplicatisi fino all'ultimo medio evo, per l'uso continuo fattone nell'insegnamento, erano tutti soggetti ad una grande mobilit?, ad incessanti e svariate peripezie. Niun maestro si faceva scrupolo di ridurre, modificare, postillare a suo modo. Chi compilava da pi? antichi dando alla compilazione il suo nome, chi postillava prendendo di qua e di l? e serbando l'anonimo, chi raffazzonava o interpolava a suo modo i commenti gi? in uso ponendo tutto sul conto dell'autore primitivo. La massa dei commenti che oggi possediamo ? giunta a noi come un torrente tutto intorbidato, ed ingrossato da confluenti diversi per natura e per provenienza. Tutti sono o compendi, o rifacimenti, o compilazioni; niuno ne possediamo nella sua forma originaria. Quelli che ci rimangono ancora col nome di Probo e di Aspro possono provare quanto l'attrito scolastico rimpiccolisse o corrompesse l'opera dei migliori grammatici. Come le principali compilazioni grammaticali, cos? le principali compilazioni di commenti virgiliani che ci rimangono, appartengono a quest'epoca di decadenza, nella quale per questo lato principalmente si distinguono due autori rimasti celebri nell'insegnamento grammaticale posteriore, Donato e Servio.

A giudicare del commento, oggi perduto, di Donato, che Girolamo discepolo dell'autore, rammenta fra gli altri commenti adoperati nelle scuole dei fanciulli, pu? servire quanto da esso riferisce Servio. Donato voleva farla da critico e giudicava con molta libert? il poeta, in molti luoghi trovando da ridire; e non solo giudicava tortamente, ma spesso dava prova di tale oscitanza, da errare fino nelle pi? volgari leggi della prosodia. Le sue critiche non gl'impedivano invero di ammirare il poeta; ma la sua ammirazione era di natura tale che gli faceva presentare ai suoi allievi il poeta in una luce del tutto falsa, attribuendogli, come gi? da antiche scuole filosofiche erasi fatto per Omero, un sapere straordinario, e cercando nei suoi versi dottrine riposte e scopi filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai. Egli spiegava l'ordine delle poesie virgiliane in questa maniera: <> Vedremo pi? tardi quale sviluppo e quali proporzioni prendesse quest'uso di cercare allegorie in Virgilio.

Ma il pi? adoperato dei commentatori di Virgilio ed il solo che oggi ci rimanga completo, bench? tutt'altro che intatto, ? Servio che fu usatissimo nelle scuole del medio evo, e riesce molto importante anche oggi, non tanto per la illustrazione di Virgilio, quanto per ogni sorta di preziose notizie che ci ha conservate. Giudicare del valore di questo lavoro di Servio da quello ch'esso ? oggi, ? cosa assai difficile; poich? da un lato ? evidente che Servio compil? da commenti e da opere grammaticali anteriori, dall'altro ? pure evidente che, nel grande uso fattone, ha sub?to alterazioni diverse, ed ? stato interpolato lungo il medio evo, talvolta stupidamente al punto di fargli citare Servio stesso. Certo per? Servio era un grammatico distinto pe' suoi tempi e superiore a Donato, di cui spesso con molto senno e giusto sapere riprende gli errori. Ma non per questo egli ha potuto schivare molti difetti della dottrina del secol suo. Una certa stereotopia si ravvisa in tutta la tradizione grammaticale in quest'epoca, ormai irrigidita, quale durer? per tutto il medio evo, e si riconosce chiarissima anche in questa parte prattica dell'insegnamento dei grammatici, che era costituita dalla esposizione degli scrittori. Fra le molte cristallizzazioni di prodotti anteriori che si ritrovano in Servio, assai ve ne ha che provengono da un cattivo indirizzo gi? esistente in quello studio anche nell'epoca migliore. Quelle questioni futili che furono tanto in voga fra gli Alessandrini circa Omero, e delle quali tanto si dilett? Tiberio, ebbero luogo anche per Virgilio, e dalla formola uniforme molte si riconoscono ancora in Servio. Una critica coscienziosa ed una solida dottrina non erano punto indispensabili per ci? che la moda domandava in questo esercizio, nel quale troppo spesso i grammatici si trovavano o erano spinti sul terreno della ciarlataneria, guardandosi, cos? ne' quesiti come nelle risposte, piuttosto al sottile, all'imprevisto e allo specioso, che all'utile, al giusto ed al vero. Un curioso esempio di ci? offrono quei 12 o 13 luoghi virgiliani che si credeva presentassero difficolt? insuperabili. La loro insuperabilit? era quasi un articolo di fede, e dinanzi ad essi il grammatico tirava di lungo, dicendo: ? uno dei dodici. Eppure alcuni di quei luoghi che Servio pone in quel novero, non presentano davvero difficolt? ben reali.

Per quanto debba ammettersi che molto nel commento di Servio ? opera di interpolatori, talune interpretazioni allegoriche, come p. es. quella relativa al ramo d'oro con cui Enea scende all'Inferno e simili, sono troppo d'accordo colle idee di quel tempo perch? si possa credere non appartengano a Servio. Per? se qua e l? ad alcuni versi o a qualche parte del racconto virgiliano Servio attribuisce un significato filosofico, non c'? traccia in tutto il commento di una interpretazione allegorica sistematica e generale, che faccia convergere tutto l'insieme di un'opera virgiliana verso un solo concetto riposto. Di una interpretazione cosiffatta avremo a parlare diffusamente in appresso; allora potremo trattenerci a studiare pi? da vicino quest'ordine di fatti nella sua indole e nelle sue cause.

A Servio anche senza dubbio appartiene, come al suo tempo, la idea esagerata che si manifesta in pi? luoghi del commento, circa la dottrina immensa e non a tutti palese che trovasi in Virgilio. Con visibile compiacenza ei cita l'opinione di Metrodoro il quale scrisse che a torto Virgilio era accusato da taluni di non sapere di astrologia ed al principio del 6.? dell'Eneide, che si credeva contenere la dottrina pi? riposta, pone questa nota: <>

Macrobio ha trovato il terreno preparato di lunga mano per la sua opera, non soltanto pel materiale di cui si ? servito, ma anche per lo spirito in cui ? scritta. La decadenza che in essa, quantunque l'autore si sforzi di sollevarsi al disopra dei suoi tempi, si mostra s? avanzata, avea gi? cominciato da un pezzo; noi abbiam veduto e notato i primi segni e il successivo ingrandire di quel tralignamento della nominanza virgiliana di cui essa segna una fase gi? inoltrata. Nata in sul disfarsi dell'antico mondo pagano, e figlia di un uomo notevole tuttavia appartenente a quello, quest'opera formula e caratterizza in modo luminoso l'indole di quella pi? alta idea che si avea del poeta negli ultimi momenti del paganesimo, allorch? il suo nome entrava nella nuova e trasformatrice atmosfera del medio evo cristiano, di cui siamo ormai sul limitare.

A quest'epoca di decadenza e ancora aderenti alla tradizione pagana appartengono due autori che non furono senza influenza nel propagare la rinomanza di Virgilio lungo i secoli della barbarie; parlo dei due grandi luminari della grammatica, Donato e Prisciano. Questi due compilatori, sorti a circa due secoli di distanza l'uno dall'altro, dominarono con tanta forza nelle scuole dei grammatici, durante tutto il medio evo, che il loro dominio sopravvisse anche a questo, e sia direttamente, sia indirettamente, per l'uso che se ne fece nel fabbricare nuovi libri scolastici, si protrasse fino a' tempi nostri. Il commento a Virgilio di cui gi? abbiamo fatto cenno, oscurato da quello di Servio, non procacci? a Donato la rinomanza ch'egli ebbe in grazia della sua grammatica, tanto adoperata nelle scuole e tanto familiare a quanti le avean frequentate, che il nome di Donato fin? col significare quell'arte in generale. Prisciano, con lavori di compilazione pi? estesi e pi? dotti che quei di Donato, acquist? un'autorit? tanto grande che la venerazione per lui spesso negli scrittori del medio evo si traduce colle pi? entusiastiche espressioni. Non deviando dalla tradizione dei grammatici anteriori, dai quali compilavano, Donato e Prisciano da Virgilio assai pi? che da qualsivoglia altro scrittore attingono esempi, al punto che se fino allora Virgilio fosse stato poco letto e trasandato, essi soli, coll'autorit? di cui godettero, sarebbero bastati a metterlo in voga. Prisciano, in uno scritto speciale che fu molto in uso, ci d? un curioso saggio del modo col quale nelle scuole si faceva servire Virgilio all'insegnamento prattico della grammatica. Prendendo il primo verso di ciascun libro dell'Eneide, su quei dodici versi ei fa esercitare lo scolaro, chiedendogli ragione di ogni parola e l'analisi grammaticale e metrica; e cos? passando di domanda in domanda ei trova in quei versi tanto da far ripetere al discepolo le regole o le definizioni principali della grammatica e della metrica. ? notevole che Lucano, il quale fu di moda nel medio evo, vien citato da Prisciano quasi tanto sovente quanto Orazio. Ma il poeta ch'ei cita pi? sovente dopo Virgilio ? Terenzio.

Anche all'infuori della sfera scolastica e dotta, il poeta non cessava di essere popolare, come prima lo era stato. Le rappresentazioni teatrali desunte dalle sue poesie continuavano tuttora, ed uno dei soggetti preferiti erano le infelici avventure di Didone, che commovevano le genti fino alle lagrime, ed erano tanto in moda che sulle tappezzerie, nelle pitture ed in ogni opera d'arte figurata erano rappresentate di preferenza. N? mancavano le letture pubbliche ed ancora nel sesto secolo il popolo affollato udiva leggere l'Eneide nel f?ro Traiano. Non conviene dimenticare per? che nello stesso tempo destava entusiasmo la meschina poesia di Aratore sugli Atti degli Apostoli, e per ben sette volte era costui chiamato a farne pubblica lettura. E gi? il nome di Virgilio si applicava ad uomini di cos? poco valore che Ennodio mostravasene grandemente irritato. Una mano consolare trascriveva ed emendava il testo di Virgilio nel codice prezioso che ci rimane; ma distinzioni di tal natura toccavano a quei tempi anche ad altri scrittori, poveri figli di povera epoca.

Quanto diversa da quella di un tempo era Roma allora, e quanto diverso il popolo romano! La retorica pomposa e vuota dei panegiristi e di Simmaco fra gli altri che giunge ad applicare al regno di Graziano i felici e ridenti presagi della quarta ecloga, non fa che rendere pi? lugubre lo spettacolo di tanta rovina. Ben pi? reale e giusto ? il sentimento di Girolamo che, udendo nella sua solitudine in oriente come Roma fosse stata presa da Alarico, esprimeva con versi dell'Eneide il profondo dolore cagionatogli dalla tremenda notizia, ed esclamava col salmista: <> Alle memorie di un passato glorioso si contrapponevano i tristi fatti della decadenza, il gelido ed umiliante contatto dei barbari ormai scatenati ed il presentimento di un avvenire tetro e luttuoso. Quantunque per? Roma e il suo impero cadessero, quella unit? civile di tanti popoli, ch'era la grande opera sua e la vera sua missione, rimaneva. Nell'animo di tutti Roma era sempre madre di ogni ricordo civile, simbolo di miracolosa potenza, ideale altissimo e poetico di ogni umana grandezza; quel forte ed universale sentimento romano a cui Virgilio avea cos? bene proporzionato la sua epopea, anche dopo distrutto l'impero, era troppo essenzialmente connesso colla cultura latina perch? potesse spegnersi finch? quella vivesse. La vasta orma che lasciava il dominio romano e i benefizi che l'umanit? ne ereditava, danno alle infinite espressioni di quel sentimento che universalmente sopravvisse ad esso per lunghi secoli, una base reale e solida che non permette di vedere in quelle una riproduzione fredda ed automatica dall'antico. Certo per? le condizioni del pensiero erano profondamente mutate, e per una grande parte dell'antica cultura questo non poteva essere che passivo, n? poteva, nella sua attivit? presente, armonizzare assai intimamente con quella. Il gusto era deperito affatto, ed ogni giusta idealit? estetica ed artistica era del tutto spenta.

Quelle potenze psicologiche dalle quali l'arte risulta, dove non giacessero paralizzate, erano impiegate e sfogate in un campo novello a cui l'arte di vero nome era estranea. In queste epoche di grandi lotte e di grandi trasformazioni morali e sociali, c'? sempre un dispendio immenso di elatere poetico, il quale, piuttostoch? una espansione artistica, ha per prodotto il fatto stesso gravissimo ed imponente del generale rinnovamento. Cristo non verseggi?, ma quanta poesia non assorb? nella personalit? e nell'attivit? sua e in quella di tanti seguaci suoi! L'arte fra quel rimescolarsi ed urtarsi di elementi eterogenei, fra quell'imperfetto pensare e sentire di un mondo che si decomponeva e si rigenerava, avea difetto delle condizioni pi? indispensabili alla sua esistenza; l'animo delle genti era turbato, distratto vagamente, e come indurato alle impressioni estetiche, il sentimento artistico tralignato o spento. Irrigidita e come stereotipata seguitava intanto l'antica cultura: le menti aveano sempre dinanzi i prodotti dell'arte antica, ma il livello di esse era troppo abbassato, gli scopi e gl'ideali del pensiero erano troppo nuovi e diversi perch? si possa credere che quelle antiche opere, tuttavia studiate e ammirate, esercitassero realmente sugli animi un prestigio pi? ragionevole di quello di una brillante fantasmagoria. Come vediamo da Macrobio e dai grammatici e da ogni sorta di scrittori, il posto centrale in quel corpo di dottrina, in quel complesso di autorit? tradizionali, scolastiche e dotte, era tenuto da Virgilio il quale appariva come l'astro pi? luminoso intorno a cui tutti gli altri gravitavano. Quelle qualit? reali di dottrina che lo distinguevano e che gi? fin dai primi tempi della sua rinomanza avean condotto a giudizi inesatti, in quest'ultima epoca rimanevano sole in vista ed, in tanto prestigio di quel nome, erano intese ed esagerate in ordine alle tendenze ed alla natura del pensiero d'allora, spinto irresistibilmente al simbolo, all'allegoria ed al misticismo da pi? cause ed influenze diverse, che si riassumono nel predominio del neoplatonismo e pi? ancora del cristianesimo ormai trionfante. I poeti del tempo non riuscivano pi? che ad un verseggiare di rado mediocre, pi? spesso cattivo, generato e governato unicamente dalla scuola grammaticale e retorica. Tutta l'arte del massimo poeta latino appariva a quella gente come un mistero, di cui la chiave dovea cercarsi in una sapienza vastissima e recondita. Prova di fino ingegno e di sapere superiore al volgare pareva il trovarvi dentro conoscenze e dettami scientifici d'ogni maniera e sensi riposti di alta filosofia.

Centro e sommit? del retaggio letterario lasciato dai latini, rappresentante della sapienza antica, interprete di quel sentimento romano universale che sopravviveva all'impero, il nome di Virgilio acquistava un ampio e alto significato che nell'Europa latina lo connaturava quasi colla civilt? stessa. Con questa missione lo tramandava ai secoli avvenire la morente societ? pagana che nell'abbattimento e nell'agonia si adoperava a riassumere, con opera frettolosa, i portati della splendida e gloriosa sua vita. Parecchi secoli prima che Dante chiamasse Virgilio <> Giustiniano, sul pi? tetragono monumento della sapienza prattica de' romani, era in grado di richiamarne il nome, ponendolo accanto a quello del divino epico greco che, per lui, ? il <>.

Ma ormai possiamo inoltrarci a seguitare le vicende di Virgilio lungo il medio evo. I barbari ed il cristianesimo hanno fatto cambiar totalmente d'aspetto l'antico mondo latino. Da un lato le lettere minacciano di perire sotto i colpi del fanatismo religioso o d'affogare nel vasto pelago della letteratura teologica; da un altro gli invasori, gente ruvida ed incolta, per tutt'altra ragione mostrano di aver occupato i paesi civili che per amore della civilt? stessa o per gran voglia che abbiano di studi classici. Oppressi ed oppressori, laici ed ecclesiastici hanno troppe preoccupazioni materiali o troppo han da pensare per la salute dell'anima, perch? il gusto del bello classico possa fiorire fra loro. Nondimeno c'? un'?ncora di salvezza per le lettere latine. Il latino ? tuttavia la lingua degli scrittori e della chiesa singolarmente, ed ? gi? un tempo in cui per iscrivere passabilmente in latino bisogna averlo studiato. Mentre esso ? quasi affatto ridotto allo stato di lingua morta, i volgari dell'Europa latina, quantunque in istato di formazione pi? che incipiente, pure non sono ancora giunti a quell'organismo determinato e definitivo a cui mostrano di tendere, ed in cui soltanto potranno arrivare all'onore di lingue letterarie. Quindi le scuole, e principalmente le scuole dei grammatici, devono seguitare ad esistere, ed attorno alla grammatica dovranno seguitare ad aggrupparsi le altre discipline che sono pure o si credono necessarie anche al nuovo avviamento, sopratutto religioso, che han preso gli scrittori. Se i testi raccolti da vari dotti per provare l'esistenza delle scuole in tutte le epoche del medio evo non si avessero, a provar ci? basterebbe questo fatto dell'uso non interrotto di scrivere in una lingua di esistenza puramente letteraria, e differente dalla lingua parlata. Devesi per? badar bene a non prendere queste scuole per qualcosa di pi? serio e importante di quel ch'esse erano in fatto. In esse s'insegn? per l'appunto quanto era necessario, o per meglio dire, quanto pareva necessario; poich? in fondo gli studi profani non erano pi? uno scopo, ma doveano servire materialmente come propedeutica a studi superiori di tutt'altro genere. Quindi le sette arti nelle quali gi? da tempo anteriore ad Augusto si era diviso il materiale della istruzione, e che poi si erano venute sensibilmente assottigliando, nel medio evo son ridotte ai minimi termini. Un tempo il compendiare in un riassunto ordinato gli elementi delle principali discipline, come fecero Catone e Varrone, era opera che, quantunque utilizzata, teneva un posto modesto fra le produzioni letterarie, a causa della vita reale e propria che animava ciascuno dei rami di sapere in quelle opere riuniti. Ora che quella vita era spenta e ciascun ramo del sapere laico, non pi? produttivo, veniva ridotto e ristretto nei pi? angusti limiti dell'indispensabile, i riassunti generali erano un risultato di quelle stesse cause che spingevano ai compendi di ciascuno studio speciale, e, come prodotti richiesti da un bisogno del tempo, doveano esser numerosi e ottenere nella letteratura un posto e una notoriet? che prima non avrebbero potuto avere. Ci? spiega le enciclopedie delle sette arti di Cassiodoro, Capella, Isidoro, Beda e di altri che, con vario artificio, tutto il sapere profano racchiusero in picciol volume, e spiega pure la buona accoglienza che ad esse fu fatta e la celebrit? di cui godettero per tutto il medio evo. Propriamente in queste enciclopedie si scorge che delle varie discipline in esse trattate, la pi? prossima e la pi? affine all'autore ? in generale la grammatica, della quale le altre costituiscono come il corteo e il complemento; la natura dell'assieme e della trattazione ? tale che mal si potrebbe dare all'autore, per l'indole della sua opera, altro titolo che quello di grammatico. E veramente la grammatica ? trattata e considerata sempre come la prima fra le arti liberali, ed ? bello udire un re barbaro che si ammanta alla romana, Atalarico, tesserne l'elogio in una ordinanza diretta al senato romano, perch? provvegga allo stipendio dei professori di arti liberali. <>.

L'antichit? classica adunque non sopravvisse al medio evo che afferrandosi alle panche delle scuole elementari, e quanti autori antichi godettero di qualche rinomanza in quell'epoca, ne andarono debitori ai maestri di scuola. Principali insieme con Virgilio, e quasi come pianeti del grande astro, troneggiarono in quelle scuole Ovidio e Lucano, Orazio, Giovenale, Stazio e poi altri a seconda delle preferenze dei maestri. Erano i primi nomi di antichi autori che, con quelli dei grammatici, l'istruzione elementare scolpiva nella mente dei fanciulli. Fatti adulti e anche divenuti scrittori, pur volendo, non riuscivano ad estinguere quelle reminiscenze della scuola che serbava sempre vive la lingua che adoperavano scrivendo. Quindi avveniva loro di citarli frequentemente, e quindi l'immenso numero delle citazioni di Virgilio e di scrittori pagani, che ricorrono presso gli scrittori cristiani, prima e dopo la totale estinzione del paganesimo e durante tutto il medio evo. Ma il sentimento e l'ascetismo cristiano doveva pur suscitare gravi ripugnanze contro questi rappresentanti dell'idea pagana, e noi dobbiamo qui studiare da vicino la posizione di Virgilio e degli altri antichi scrittori in mezzo ai fieri attacchi che sub? il paganesimo per parte degli scrittori cristiani, e particolarmente dopo la vittoria completa riportata su di esso dalla nuova religione.

Gli scrittori ecclesiastici potevano conservare una forte avversione contro gli scrittori pagani, slanciarsi contro di loro, come Arnobio e Tertulliano ed altri apologeti, gridando <> con una violenza che appena le persecuzioni e l'entusiasmo possono giustificare, ma dovevano anche leggerli e studiarli, sia per confutarli, sia per la ragione non meno potente, che essi erano il fondamento della generale cultura ed in essi soltanto s'imparava a scrivere nella lingua e secondo i gusti di quel mondo civile che si voleva convertire. Perci? parve odiosissimo il decreto di Giuliano imperatore col quale vietava ai cristiani l'insegnamento, e quindi lo studio, della grammatica e della retorica; quantunque con questo ei non facesse che richiamarli alla osservanza prattica di ci? che risultava dalle loro idee stesse. Ei diceva non esser bene che coloro i quali tanto si adiravano contro le dottrine morali e religiose degli scrittori pagani, prendessero poi questi scrittori per base della loro educazione, come appunto dissero molti dei pi? caldi e pi? intolleranti asceti cristiani. Ma quanti erano fra i cristiani illuminati e meglio forniti di talento prattico capivano che, quantunque tardo, pure il decreto di Giuliano era pieno di fina malizia; poich? in realt? separare il cristianesimo totalmente dall'antica cultura, imporgli una logica rigorosa che lo legasse nei limiti della sua natura antimondana e gl'impedisse di piegarsi a certe esigenze, era il miglior modo di combatterne o trattenerne i progressi in una societ? di cultura greco- romana. Ma le dighe pi? potenti erano rotte da un pezzo, e il decreto di Giuliano come ogni altro riparo imaginato da lui and? travolto dall'impeto della gi? irresistibile fiumana. Quando poi il paganesimo cess? affatto di esistere, e confutare i pagani divenne una cosa oziosa, la tradizione delle scuole cristiane era ormai formata e resa tale quale doveva rimanere per tutto il medio evo, e sarebbe stato impossibile farle cambiar natura. Ben vi fu chi disse che agli scrittori profani si potevano sostituire nelle scuole scrittori cristiani; ma come pretendere che i grammatici li trovassero equivalenti? Nelle nuove compilazioni grammaticali gli esempi tolti dalla vulgata e da taluni scrittori cristiani si aggiunsero invero talvolta a quelli degli antichi, ma la massima autorit? rimase sempre, come doveva, a questi ultimi.

La necessit? di una radicale riforma non si faceva sentire, poich? ormai il paganesimo era morto per bene, ed ogni uomo che avesse un poco di senno intendeva che non potevano essere le scuole dei grammatici quelle che lo farebbero risuscitare. Perci? se cerchiamo atti ufficiali dell'autorit? ecclesiastica che impongano di rinunziare a questi scrittori, noi non ne troviamo. Troviamo invece questi fatti costanti, bench? in apparenza contradittori, che gli antichi sono sempre odiati e maledetti come pagani, ma sono letti e studiati assiduamente; e dagli uomini pi? illuminati della cristianit? sono sempre stimati come scrittori, come dotti e come uomini d'ingegno. Il medio evo trov? gi? formato un uso tradizionale che segu? scrupolosamente. Gli antichi padri avean detto e scritto molto contro questi autori, ma ci? non li avea distolti dal servirsene. Si seguitava dunque a far lo stesso; si studiavano nelle scuole, si citavano all'uopo anche negli scritti e fin nelle controversie teologiche e nell'esegesi sacra; alla circostanza poi si maltrattavano come <>. Alcuni fra i padri pi? autorevoli avean detto invero che leggerli non era cosa buona; ma come dar peso a questo ch'essi dicevano in un momento di fervore, se poi essi si contraddicevano colle parole e col fatto? Girolamo, gi? ben noto per l'amore che port? a Cicerone che gli valse quel famoso <> e le angeliche battiture nel sogno che tutti sanno, stimava Virgilio oltremodo e lo chiamava <>. Egli per?, nella epistola a Damaso sul Figliuol prodigo, biasima altamente quei sacerdoti <>. Con queste parole non si accordano punto quelle di Agostino il quale osserva e non disapprova, che <>. Queste reminiscenze di studi profani e pagani sub?ti per necessit?, importunavano invero molte anime scrupolose, tanto che Cassiano eremita giunge fino ad escogitare e consigliare altrui un rimedio per liberarsene. Quanto per? fosse difficile cancellarle dalla mente, Girolamo stesso lo prova, non volendo, assai di sovente coi luoghi di scrittori classici che gli corrono gi? dalla penna. Parlando delle cripte che rinserrano a Roma le tombe degli apostoli e de' martiri, e dell'oscurit? che regna in quei sotterranei: <> Una delle colonne della chiesa chiede ad un pagano le parole per esprimere i sentimenti che ispirano i pi? venerandi recessi del santuario! Chi direbbe che sia lo stesso Girolamo il quale, infervorato da tutto l'ardore della fede, esclama altrove: <> E ben molti luoghi si potrebbero citare dalle sue opere in cui lo si coglie a questa maniera sul fatto. N? i suoi avversari gli risparmiarono disturbi per questo suo culto delle lettere classiche. Allorch? a Bethlem ei pose scuola di grammatica, spiegando ai giovanetti Virgilio ed altri scrittori profani greci e latini, Rufino gli scagliava per ci? accuse che lo ferivano profondamente.

Add to tbrJar First Page Next Page Prev Page

 

Back to top