Read Ebook: Virgilio nel Medio Evo vol. II by Comparetti Domenico
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Ebook has 634 lines and 105921 words, and 13 pages
VIRGILIO NEL MEDIO EVO
PER
DOMENICO COMPARETTI
FIRENZE BERNARDO SEEBER Libraio-Editore 1896
FIRENZE-ROMA Tipografia Fratelli Bencini 1896
PARTE SECONDA
VIRGILIO
NELLA LEGGENDA POPOLARE
VIRGILIO
NELLA LEGGENDA POPOLARE
Ben v'ha un pi? antico periodo della poesia volgare, presso taluni popoli d'Europa, in cui questa ? esclusivamente nazionale e non si mescola ancora con elementi estranei alla nazione di cui ? propria. ? questo il periodo in cui i popoli scandinavi, germanici e celtici, nei canti epici dei padri loro, serbano ancora la memoria del loro passato anteriore alla civilizzazione romana e alla loro cristianizzazione. Ma, in quella parte che ? rappresentata nei monumenti scritti oggi superstiti, questo periodo ? d'assai breve durata. Gi? lo stesso porre in iscritto quei canti ? un fatto che rivela l'influenza di una cultura non nazionale, tanto per s? stesso quanto per la forma in cui si compie, essendo latina la lettera di quelle scritture. Ben pi? numerosa ? la classe di quelle poesie volgari medievali nella quale a quelle caratteristiche che ne fanno riconoscere la speciale origine nazionale si uniscono caratteristiche di natura pi? universale, quelle cio? che son dovute agli elementi che cementavano in un consorzio comune, civile, intellettuale e religioso pi? nazioni diverse. E per ultimo pi? ricca di ogni altra ? quella in cui gli elementi specialistici nazionali si perdono di vista, e rimangono soltanto visibili, come moventi poetici, gli elementi comuni del sentimento, della civilt? e della religione. Questa categoria, meno propriamente epica delle altre, si risolve in una moltitudine di narrazioni fantastiche in verso e in prosa, e nella lirica romantica, organo di una subbiettivit? che non ? esclusivamente locale in alcun paese. Nella poesia di queste due ultime categorie, singolarmente nella prima delle due, la grande fucina in cui ? avvenuta la fusione, la permutazione e la trasformazione dei vari elementi nazionali fra loro e con le idee universali, quelle sopratutto dovute alla religione e alla cultura, ed in cui ebbe luogo il trapasso dei testi volgari al latino e nuovamente poi dei latinizzati al volgare, fu la societ? monastica, portatrice e dominatrice dell'idea civile e religiosa, ossia degli elementi assimilatori.
In tutta quest'opera di fusione e, dicasi pure, di confusione, la fantasia ebbe una parte enorme, godendo di una libert? smodata che risultava da una condizione eccezionale dello spirito. Ben si vede che le menti del medio evo hanno abitudini e procedimenti diversi da quelle di epoche pi? normali, e la prevalenza in quell'et? dell'allegoria nelle pi? serie e profonde funzioni intellettuali gi? mostra chiaro come il ravvicinamento di idee disparate dovesse divenir familiare, come si stesse lontani dall'investigar per diritta via la reale natura delle cose e dal rappresentarsele giustamente, e come quindi la fantasia, sempre prona a sconfinare, non potesse trovare nell'azione del pensiero quelle remore e quei correttivi che trova in epoche avvezze universalmente alla critica. Fatto ? che se per alcune fasi della produzione fantastica medievale trovasi un movente razionale che le spiega e le nobilita, ve n'ha una pi? estrema nella quale essa apparisce come cosa di ragion patologica e che mal si spiegherebbe se non si conoscessero le leggi di certi naturali tralignamenti. Chi ben consideri le diverse nature della poesia antica e della medievale, trover? facilmente che il fantasticare vuoto e il sentimentalismo convenzionale con cui finisce questa ha, in ultima analisi, la stessa ragione che ha la retorica e la declamazione in cui si spegne l'altra.
Con questo prevalere della fantasia identificavasi uno straordinario amore del maraviglioso, e quell'intenso universale desiderio di narrazioni d'avventure che conduceva alla personificazione di monna Avventura. E poich? tutti amavano abbeverarsi a quella fonte, l'impegno di alimentarla era grande, n? v'era angolo da cui non si andasse ad attingere per soddisfare l'avido desiderio di nuovi racconti. L'antichit? forniva anch'essa il suo contingente, e la narrazione antica come ogni altra si romantizzava travestendosi secondo gl'ideali del tempo. Questo fatto, strano per noi, accadeva allora senza sforzo, e quindi senza effetto ridicolo, poich? quel che noi chiamiamo travestimento non appariva allora quale a noi pare e non era in fatti che una formulazione un poco pi? recisa della maniera ingenua in cui quei fatti concepivansi assai generalmente; come si vede pure nell'opere di pittura che rappresentano gli uomini della societ? antica ebrea, cristiana, pagana con vesti, armi, suppellettili, abitazioni, edifizi del tempo del pittore. Tutti i vari temi, qualunque fosse la loro origine, venivano ad acquistare un colorito comune, e poich? minima era la forza che lo spirito adoperava per fare astrazione dai concetti della vita presente, sui quali ergevasi l'opera fantastica, tutto si riduceva a tipi, a ideali determinati e sempre identici, comunque cambiassero i nomi, i luoghi, le cose narrate. La narrazione chiesastica, la classica, la orientale, la mitologia e la storia, la leggenda celtica, scandinava o germanica, tutto ? capace di servire alla narrazione romanzesca. La societ? antica viene imaginata simile alla societ? feodale, l'antico eroe ? un cavaliere, l'eroina antica una dama, gli dei del paganesimo sono specie di maghi che hanno ciascuno una sua specialit?; i pagani antichi non si distinguono gran fatto dagli altri non cristiani, Nerone passa per un adoratore di Maometto, come i Saracini hanno per dio Apollino; l'amore di cui parla la favola e la storia antica ? l'amore romantico del sentimento contemporaneo; il poeta, lo scrittore antico diviene un filosofo, un savio, un chierico, di proporzioni e qualit? medievali, colle esagerazioni e i travisamenti che gi? trovansi nella tradizione scolastica e dotta d'allora e che crescono naturalmente in questo libero regno della fantasia.
Gi? il compiacersi della favola e del racconto antico ed anche il fantasticare su quelli, era cosa anteriore al romantismo propriamente detto; prima che le lettere volgari si producessero, prima che si combinassero cogli elementi della cultura e della tradizione, un lavoro simile erasi fatto nella letteratura dotta del medio evo fra i chierici, bench? taluni sentimenti ancora non vi avessero luogo e prevalesse in quello l'idea scolastica dell'antico e la tendenza chiesastica alla moralizzazione. Fra le altre favole antiche la pi? notoria e pi? spesso narrata in varie forme era la favola troiana. Virgilio, che era la prima autorit? per quella tradizione mitica che congiungeva le origini di Roma con Troia, e che, come vedemmo, avea reso di moda fra i popoli vari e le famiglie principesche del medio evo questa maniera di origini come principal titolo di nobilt?, aveva singolarmente influito a dare gran voga alla favola della guerra troiana e a tutto quanto con questa si connetteva, e singolarmente a determinare le simpatie piuttosto pei Troiani che pe' Greci. Questo vedesi gi? nel fatto notevole che il testo attribuito a Darete, supposto quindi scritto da un troiano contemporaneo degli avvenimenti e scritto realmente in senso troiano, avea pi? favore e pi? uso che quel di Ditti scritto in senso greco, e faceva anche dar del mentitore ad Omero l? dove si sapeva che questi avea narrato taluni fatti diversamente.
Questa trasformazione romantica di narrazioni antiche non ? propriamente, come parrebbe a prima giunta, opera popolesca che si effettui fuori della conoscenza delle lettere classiche. ? cosa fatta per una societ? superiore ed aristocratica, ? un prodotto delle lettere volgari divenute cortigiane; gli autori sono uomini colti, laici o chierici che fossero di stato, e fanno quel lavoro di proposito, tenendo dinanzi agli occhi il testo latino, di cui anche sovente invocano l'autorit? nel loro lavoro. Essi non facevano niente di strano, per cui gi? tutto non fosse preparato e disposto, ma solo formulavano e riassumevano con opera pi? speciale e con certa intelligenza dello scopo e della cosa, ci? che gi? trovavasi elaborato nelle lettere romantiche e nella poesia volgare in generale. I nomi e i fatti antichi, separati com'erano anche nelle menti dei chierici da un giusto sentimento dell'antichit?, eran passati nel modo il pi? naturale, come elementi del pensiero, nelle lettere volgari e nell'arte nuova; in queste trovaronsi a contatto coll'idea e il sentimento che le governava, si approssimarono a quello e si connaturarono con quello. Ogni poeta volgare conosce e rammenta i nomi di Enea, Didone, Lavinia, come tanti altri nomi antichi, servendosene naturalmente nell'interesse della sua poesia, e fra le varie narrazioni che i trovatori vantansi di sapere trovasi un numero di soggetti antichi mescolati a soggetti intieramente romantici. Il fecondo Chrestien de Troies in un suo poema romanzesco parla di una ricchissima sella sulla quale era scolpita tutta la storia d'Enea. Naturalmente per tutti costoro, come anche per lo stesso chierico quando diveniva poeta di quella natura, il concetto del fatto antico non poteva essere antico, ch? come tale avrebbe stonato. Ogni forma d'arte per la sua ragione psicologica impone uno special modo di vedere. D'altro lato per? quella tal forma d'arte per cui questo avea luogo non assorbiva intieramente tutta l'opera del pensiero, ma coesisteva allato ad una cultura tradizionale, ad una operosit? letteraria e dotta, anch'essa tradizionale, che passava dai chierici ai laici appunto nell'epoca in cui pi? si moltiplicano e diffondono que' romanzi. E cos? accade, fatto sorprendente per noi, che il rifacimento romantico gode di grande notoriet? e favore, mentre la stessa notoriet? gode il testo classico da cui tanto si diparte, e mentre anche si fanno in volgare per uso dei laici, traduzioni propriamente dette di quel testo; tutto ci? senza che il lavoro romantico appaia come parodia o cosa bizzarra e ridicola. N? ? questo il solo campo in cui il medio evo pot? trovare naturale il connubio di cose che oggi a noi appariscono inconciliabili.
Uno dei caratteri pei quali il popolo italiano, anche nel medio evo, d? segno della sua superiorit? storica e civile dinanzi agli altri popoli d'Europa, ? l'essere esso quello che fra tutti gli altri pi? scarseggia di produzione fantastica. Il romantismo, in quanto ? invenzione narrativa, poco si ebbe da noi, e in questo, come anche nella cavalleria che ? un suo movente principale, l'Italia mostrasi in una condizione che pu? dirsi passiva; subisce per fatto d'infiltrazione inevitabile, ma dal poco che produce in quell'ordine vedesi chiaro esser quello cosa poco sua, e poco omogenea alle sue tendenze attive. Insieme a tanti altri romanzi venuti dal di fuori e allora sparsi dappertutto, ebbero qualche voga anche qui i testi francesi della Storia Troiana; ben poca ne ebbe il Romanzo d'Enea. Virgilio, Ovidio e altri antichi furono presto tradotti in volgare prosa italiana, senza grandi cambiamenti, salvo la giunta delle solite moralizzazioni, singolarmente per Ovidio. Guido da Pisa scrivendo i fatti di Enea mostrava invero talvolta in alcune espressioni l'influsso di certe idee del suo tempo, ma era lungi dal fare un'opera romantica, e non deviava dalla narrazione virgiliana che sull'autorit? di altri antichi. La fantasia ebbe pi? remore qui che altrove, sia pel prevalere di facolt? pi? elette e pi? razionali nella tempra dell'ingegno italiano, sia perch? la cultura tradizionale, comunque molto abbassata anche in Italia, avesse qui pi? salde radici che altrove e pi? che altrove fosse cosa domestica. L'Italia nel medio evo, bench? vinta e dilaniata e anche imbarbarita, moralmente e idealmente figura sempre come un centro storico e civile, e di questo essere suo non si perde mai la coscienza fra gli italiani. Perci? mal si cercherebbe qui ci? che pu? solo trovarsi in paesi nei quali meno fortemente e meno immediatamente agiva il peso di grandi ricordanze storiche, tanto universalmente intese come tali da non potere esse in alcuna guisa acquistare natura e forma epica. Con questo non s'intende dire che il popolo italiano fosse sfornito di leggende; ebbe anch'egli le sue aventi per soggetto l'antichit?, e il passato e i primordi delle varie citt? italiane. Pu? credersi che col procedere degli studi storici fra noi, concepiti in quella pi? larga maniera che ? loro propria oggid?, molte di queste leggende finora dispregiate, saranno messe a luce e accresciuta cos? la conoscenza, troppo insufficiente, che oggi abbiamo di tal materia. Per? rimarr? sempre vero questo fatto, del resto ben naturale, che l'impressione fantastica prodotta dalle memorie dell'antico mondo romano, fu assai pi? vivace e feconda fra i barbari che fra gli italiani. Si pu? senza gran fatica provare che il numero delle leggende relative all'antichit? romana nate in Italia ? assai minore di quelle nate in suolo straniero, e che anzi non poche di quelle che si ritrovano in Italia, singolarmente nella letteratura, furono qui introdotte dal di fuori.
Le leggende nate in Italia hanno per soggetto talvolta antichi fatti storici o mitologici, pi? spesso antichi monumenti, e spesso ancora d'antico non hanno che i nomi dei personaggi che in esse figurano. Molti nomi illustri dell'antica Roma rimasero fluttuanti nella memoria del popolo, segregati dai fatti coi quali la storia li mostrava uniti, ma pur non del tutto sprovvisti di certe caratteristiche distintive procedenti dalle loro caratteristiche storiche, concepite queste com'era capace di farlo la mente limitata del popolano o della narratrice casalinga, di cui Dante dice che:
<<.... traendo alla rocca la chioma, Favoleggiava colla sua famiglia De' Troiani, e di Fiesole, e di Roma.>>
Attorno a questi nomi la fantasia popolare aggruppava racconti favolosi, comunque originati, attenendosi per? alla special categoria d'idee popolari a cui ciascun nome per sua natura apparteneva. Quindi ? che anche divenuti personaggi leggendari serbano un carattere ben distinto fra loro Cesare, Catilina, Nerone, Traiano, e simili. Nondimeno, siccome il numero dei tipi rappresentati dalle leggende ? limitato ai soli ideali pi? spiccanti che il popolo ? capace di concepire, da ci? viene che pi? nomi s'incontrino sotto una data categoria, come quella del savio, del mago, del tiranno ecc., e siano quindi compartecipi delle leggende a quella appartenenti, le quali talvolta all'uno, talvolta all'altro dai narratori vengono riferite.
Dopo tutto quanto abbiamo premesso non parr? strano che le pi? antiche notizie che si abbiano intorno a leggende popolari relative a Virgilio trovinsi in iscritti, non gi? di provenienza plebea o destinati comunque alla plebe, ma bens? dettati da persone colte e di posizione elevata, non in volgare ma in latino, e destinati a gente della classe la pi? distinta della societ?. Fra gli altri autori, i pi? notevoli per ubert? di notizie rilevanti per le nostre ricerche, sono un Corrado di Querfurt cancelliere dell'imperatore Arrigo VI, suo rappresentante a Napoli ed in Sicilia, e poi vescovo di Hildesheim, un Gervasio di Tilbury che fu professore dell'universit? di Bologna e maresciallo del regno di Arles, un Alessandro Neckam fratello di latte di Riccardo Cuor di Leone, professore nell'universit? di Parigi, abate di Cirencester ed uno dei pi? sopportabili facitori di versi latini del suo tempo, un Giovanni di Salisbury ed altri di cui parleremo. Qui per?, prima d'ogni altro, debbono fissare la nostra attenzione Corrado e Gervasio, come quelli che non solo sono i primi a farci conoscere in modo assai diffuso le leggende virgiliane, ma ci additano eziandio la loro origine napoletana, che sar? confermata da quanto poi avremo da aggiungere a questo primo indizio. Infatti essi riferiscono quelle leggende come viventi fra il popolo napoletano, dalla bocca del quale le raccolsero.
Temibile ed incomodo vicino ? per Napoli il Vesuvio, ma Virgilio pens? a rimediare ponendogli incontro una statua di bronzo che rappresentava un uomo coll'arco teso e la freccia pronta a scoccare. Ci? pare bastasse a tenere per molto tempo in soggezione quel monte ignivomo; se non che un bel d? un contadino, non potendosi capacitare che colui stesse cos? eternamente coll'arco teso, fece in modo che la freccia scocc?, e questa and? a colpire l'orlo del cratere il quale d'allora in poi ricominci? a mandare fuori fumo e fuoco.
Premuroso di provvedere in ogni modo al pubblico bene, Virgilio fece presso Baia e Pozzuoli dei bagni pubblici, utili a tutte le malattie, ornandoli con immagini di gesso che rappresentavano le varie infermit? e indicavano i bagni appropriati a ciascuna di esse.
A queste opere maravigliose di Virgilio Corrado aggiunge ci? che a Napoli si credeva intorno alle ossa del poeta. Queste, dic'egli, trovansi in un castello circondato dal mare, e se vengano esposte all'aria si fa subito scuro d'ogni dove, si ode lo strepito di una tempesta, il mare si commove tutto, si solleva, e mettesi a procellare, <
Dopo aver narrato anch'egli il fatto del macello e dei serpenti, <
Parecchie delle leggende virgiliane raccontate da Gervasio sono in fondo identiche con quelle raccontate da Corrado, se non che, avendo ambedue attinto direttamente alla tradizione orale del popolo napoletano, offrono nei loro racconti tutta quella differenza di particolari che suol trovarsi appunto nelle versioni orali delle leggende. Cos? il macello della carne incorruttibile, secondo Gervasio, deve la sua qualit? ad un pezzo di carne posto da Virgilio in una delle sue pareti, ed in esso la carne si conserva non per sei settimane soltanto, ma per un tempo indefinito; i serpenti furono racchiusi da Virgilio sotto ad una statua presso porta Nolana. In ci? che riguarda i bagni di Pozzuoli van d'accordo ambedue; cos? pure quanto alla mosca. Quanto poi alla statua opposta da Virgilio al Vesuvio la versione di Gervasio offre una differenza assai notevole. Quella statua trovavasi sul Monte Vergine e non aveva in mano un arco colla freccia, ma bens? una tromba alla bocca, e questa tromba avea la virt? di ricacciare indietro il vento che trasportava verso quelle campagne il fumo e la cenere del Vesuvio. Disgraziatamente per?, soggiunge Gervasio, sia che l'et? l'abbia logorata, sia che gl'invidiosi l'abbiano abbattuta, ora per parte del Vesuvio si rinnovano sempre i guai di prima.
Dopo avere escluso Neckam dal novero degli autori che impararono a conoscere le leggende virgiliane nel luogo stesso dov'erano nate, ? tempo che ci occupiamo di esaminarle quali esse sono in questo pi? antico loro periodo storico, affine di determinare la vera natura e le ragioni dell'esser loro. I lettori avranno gi? notato che Virgilio, in questa pi? antica forma della leggenda, apparisce come protettore della citt? di Napoli, e che le opere maravigliose a lui attribuite consistono principalmente in talismani. Oltre alle tradizioni dell'antichit?, oltre alle idee diffuse nel medio evo in Europa da popoli di stirpe semitica, la credenza nei talismani fu certamente rinvigorita nell'Italia meridionale dalla dominazione bizantina. Infatti come molte opere di tal genere furono a Napoli attribuite a Virgilio, cos? in Costantinopoli molte ne furono attribuite ad Apollonio Tianeo. Com'? naturale, certi monumenti della citt? eran quelli che dovean farne le spese. Cos? il famoso tripode di bronzo, di cui si vede una parte tuttora nell'ippodromo, fu per lunghi secoli considerato come un talismano. La leggenda diceva che a tempo di Apollonio Tianeo Bizanzio fosse visitata dal flagello dei serpenti e che quindi fosse col? chiamato quel savio, onde allontanasse quella piaga. Costui elev? una colonna sulla quale era un'aquila che teneva nei suoi artigli un serpente, e d'allora in poi quegli animali scomparvero. Ai tempi di Niceta Coniate questa colonna coll'aquila esisteva tuttora; fu distrutta per?, come tanti altri monumenti, quando la citt? cadde in potere dei latini. Ma la leggenda, che non si distrugge cos? facilmente, rimase, e fu applicata al nobile residuo dell'antico tripode, il quale appunto ? costituito dalle spire di tre serpenti avviticchiati assieme. Inoltre le leggende costantinopolitane raccontavano anch'esse che Apollonio bandisse le mosche dalla citt? con una mosca di bronzo, e le zanzare con una zanzara di bronzo, e cos? pure gli scorpioni ed altri insetti. La credenza poi a talismani di questo genere era ben lungi dal limitarsi a Napoli ed a Costantinopoli. A' tempi di Gregorio di Tours la troviamo anche a Parigi. <
Vecchie tradizioni del paganesimo parlavano anche esse di mosche e d'altri insetti perseguitati da esseri superiori all'uomo. Cos?, delle mosche dicevasi ch'esse erano state bandite dal tempio di Ercole nel foro boario, e da una montagna dell'isola di Creta. <
Non ? da credere che a Napoli la credenza in questi talismani fosse semplicemente allo stato di racconto, senza un qualche oggetto a cui si riferisse. Certamente anzi essa dovette nascere dalla presenza di opere di arte, sia antiche, sia bizantine, alle quali il popolo, come a Costantinopoli, attribuisse un'origine telesmatica. Una volta poi cos? avviata pot? la fantasia popolare, od anche quella degli scrittori, amplificar la cosa, aumentando il novero dei talismani <
Principale, e forse uno dei pi? antichi fra questi talismani, pare essere stata la mosca di bronzo. Uno scrittore anteriore a Corrado e Gervasio non solo ne parla, ma ci riferisce anche per intero la leggenda ad esso relativa. Questi ? Giovanni di Salisbury che conosceva bene Napoli e l'Italia come colui che nel 1160 diceva di aver gi? passato le Alpi dieci volte e di aver percorso due volte l'Italia meridionale.
Quest'uomo veramente superiore, pieno d'ingegno e di spirito, ci racconta l'aneddoto seguente: <
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Da quanto siamo venuti dicendo fin qui i lettori avran potuto farsi un concetto di ci? che era la leggenda virgiliana nell'origine sua. C'? un'idea prima e fondamentale, ed ? questa, che Virgilio non solo abbia vissuto a Napoli, ma abbia avuto in mano il governo di quella citt?, o almeno per le alte sue relazioni in corte, abbia avuto parte a quel governo, ed in ogni caso abbia spiegato il pi? grande amore pel pubblico bene dei napolitani. Inoltre, esistevano in Napoli parecchi monumenti d'arte, antica o medievale, ai quali il popolo napolitano, come accadeva fra altri popoli altrove, attribuiva qualit? maravigliose e telesmatiche. Abbiamo veduto di quale aureola di sapienza fosse stato decorato il nome di Virgilio presso i letterati del medio evo. Il popolo napoletano per la idea che universalmente si aveva di questo suo protettore, non poteva attribuire quei talismani ad altri che a lui.
Il popolo adunque non faceva altro a Napoli se non trarre conseguenze materiali dal concetto che i letterati d'allora si formavano di Virgilio, e questo era tale che i letterati stessi non si maravigliavano di quei racconti. Siccome per? quel concetto era universale e la leggenda ? di origine esclusivamente napoletana, si pu? domandare come mai il nome di Virgilio fosse cos? familiare al popolo di Napoli, che questi se lo trovasse cos? alla mano quando volle dare un autore ai talismani a cui avea preso a credere. E questa ? appunto l'ultima e pi? semplice formola a cui si riduce il problema dell'origine di queste leggende. Prima per? di farci a dire la nostra opinione intorno a ci?, ? d'uopo far parola di un fatto che non possiamo qui lasciar passare inosservato.
Il fatto narrato da Gervasio presuppone l'esistenza della leggenda. Non ? punto impossibile che un eccentrico inglese si ponesse in capo di ottenere le ossa di Virgilio, onde cavarne, per mezzo di una operazione magica, quel tesoro di scienza riposta che il mondo attribuiva allora al poeta. L'avere per? il popolo napoletano ricusato di dargliele, e la ragione stessa di questo rifiuto, mostra evidentemente che gi? il nome del poeta erasi reso celebre a Napoli per la protezione che le sue opere telesmatiche, e le sue ossa stesse porgevano alla citt?. L'idea che in quella occasione si scoprisse il sepolcro di Virgilio, e che questa scoperta facesse grande impressione sul popolo napoletano a me pare non resista alla critica, quantunque Gervasio pretenda che il popolo napoletano fosse, prima di quel fatto, <
Cos? non ? impossibile che sia d'antica data l'idea popolare che il sepolcro di Virgilio fosse intimamente connesso col bene della citt? e l'altra da questa dipendente, che, come riferisce Corrado, le ossa di lui quando si ponessero all'aria suscitassero turbini e tempeste. E veramente abbiamo potuto notare che il sepolcro di Virgilio figura nelle pi? antiche leggende virgiliane, fra le quali notevolissima, da questo punto di vista, ? quella dell'inviolabilit? quasi sacra della grotta di Pozzuoli, vicino all'ingresso della quale scorgesi anche oggi il sepolcro creduto del poeta. Leggende di questo genere erano assai comuni anche ai tempi pagani. ? noto come il possedere le ossa di Edipo fosse tenuto qual causa di prosperit? dagli Ateniesi, e come la stessa cosa, per altre ossa, si credesse da altri popoli. Un'altra leggenda, relativa al colle che serviva di sepolcro ad Anteo, diceva che quando da questo toglievasi un poco di terra pioveva immediatamente, n? cessava di piovere finch? non si fosse rimessa al posto.
Aulo Gellio dice di aver trovato scritto <
Queste idee storico-fantastiche procedenti dalla biografia del poeta, si collegano e si continuano colle idee popolari dei tanti benefizi fatti a Napoli dal sapiente Virgilio, non pi? poeta, ma taumaturgo. C'? di mezzo la superstizione comune ai letterati ed al popolo, della prodigiosa efficacia del sepolcro di Virgilio per la salute ed incolumit? di Napoli. Che questa citt? per la sua forte cinta di mura e pi? ancora per la sua posizione fosse difficile a prendere ed anche imprendibile lo vide gi? Belisario e lo dice poi e lo ripete pi? di uno scrittore del medio evo. Ma la superstizione popolare, certamente assai antica, attribuiva questa imprendibilit? di Napoli alla presenza in essa di un palladio che la preservava, anzi di pi? d'uno, poich? ve n'era uno profano ed uno cristiano, v'erano le ossa di Virgilio, protettore antico e profano della citt? di Napoli, e quelle pure dei due suoi protettori sacri S. Agrippino e S. Gennaro. Gli scrittori medievali, generalmente ecclesiastici, ricordano pi? volentieri il protettorato dei santi, ma non ignorano e neppur sempre passano sotto silenzio la credenza popolare e laica del protettorato di Virgilio. L'autore della Vita di S. Atanasio per l'indole religiosa del suo scritto non ricorda che il protettorato dei due santi pei quali la citt? ? imprendibile; ma Alessandro di Telese che, quantunque ecclesiastico, narra le gesta di un principe laico, si sente pi? libero e laicamente dimenticando S. Gennaro, ricorda invece Virgilio. Una propagine di questa idea ? l'ampolla contenente un modello della citt? di Napoli che si credeva al tempo di Corrado di Querfurt Virgilio dicesse per servir di palladio ad essa. Ma anche allora viveva tuttavia la credenza che il principal palladio fossero le ossa di Virgilio, come si vede nella storia di quel tal Ludovico che le richiedeva e i napoletani gliele rifiutarono temendo ne venisse danno alla citt?.
Qui avendo esaurito tutti i dati che abbiam potuto trovare per gittar luce sulle origini di queste leggende napoletane, sar? opportuno restringerne il risultato in poche parole.
Nello stabilir cos? le origini della leggenda, possiamo constatare come la natura stessa ch'essa presenta in questa prima sua fase, ben si accordi con queste sue origini e con certe osservazioni generali da noi gi? fatte. Virgilio in essa figura come conoscitore profondo dei segreti della natura e come tale che ne usa in pro del suo popolo prediletto. Piuttosto che il mago, egli ? il dotto per eccellenza che sa fare cose inaccessibili ai comuni ingegni. Ond'? che nel trasformarsi della rinomanza di Virgilio noi scorgiamo una legge presso a poco identica segu?ta egualmente e presso il popolo napoletano, che serbava memoria del suo vecchio amico, e presso i letterati che avean continuato a leggerne i versi per consuetudine, e ad ammirarli per tradizione. Dal che proviene che quelle tali leggende napoletane appena riferite nel mondo letterario, pel concetto che i letterati allora aveano di Virgilio, trovarono il terreno cos? ben preparato ad accoglierle che vi allignarono ed anche, propagandosi, vi tralignarono con una rapidit? veramente sorprendente.
Che le leggende popolari trasmettendosi di bocca in bocca o anche passando da scrittore a scrittore vadan soggette a modificazione, ? legge costante e notissima. Piccoli nuclei di leggenda sogliono crescere a dimensioni considerevoli per due modi diversi, sia, cio?, per una esagerazione ed amplificazione del dato primitivo creata in corso di tempo dalla fantasia popolare, sia coll'aggrupparsi attorno ad esso di altre leggende che gi? esistevano, vaganti, solette ed anonime, ovvero appartenenti ad altri cicli leggendari. Generalmente per? la prima, pi? profonda modificazione ? quella che subiscono le leggende nell'uscire dal suolo in cui sono nate, particolarmente quando ad esse abbia dato motivo un fatto locale, storico o tradizionale. Nel cambiar di paese una leggenda di tal genere, non potendo incontrare quei sentimenti affatto locali ai quali corrispondeva nella patria sua, deve necessariamente andar soggetta ad essere fraintesa ed a cambiar di natura. Se quindi nella sua prima forma napoletana, la leggenda di Virgilio non poteva parlare di arti diaboliche, perch? ripugnava al sentimento popolare dei Napoletani il credere che la loro citt? andasse debitrice ad arti siffatte di tutti quei pretesi benefizi, e se Virgilio, figurando in essa come protettore di Napoli, non poteva essere posto in una luce poco onorevole per lui e per la citt?, tutto ci? non aveva ragione di essere quando la leggenda uscendo da Napoli si diffuse in Europa. Ed infatti noi la vediamo, col traslocarsi, entrare in una seconda fase ben distinta dalla prima.
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Oltre al macello che rendeva la carne incorruttibile, Neckam racconta che Virgilio, con una sanguisuga d'oro, liber? Napoli da una miriade di sanguisughe che ne infestavano le acque, che costru? un ponte aereo per mezzo del quale poteva trasportarsi dovunque volesse, e che circond? il suo maraviglioso giardino d'aria immobile, impenetrabile come un muro: aggiunge poi un'altra leggenda di cui parleremo fra poco.
Che il popolo romano nell'ignoranza in cui il clero e i barbari l'avean gittato nel medio evo, non sapesse pi? rendersi ragione dei monumenti che ancora rimanevano in Roma, e che ad essi applicasse molte leggende, ? cosa tanto pi? facile a indovinarsi, che non ne mancano esempi fra le plebi neppure in epoche colte. L'ammasso di memorie che si era accumulato su Roma era talmente imponente, che il sapere il vero nome e scopo di ciascun monumento avrebbe richiesto cognizioni storiche superiori a quelle che possono aspettarsi dal popolo di una citt? qualsivoglia. Il sentimento d'essere romani e nobili figli d'un gran popolo non mancava, e la grandiosit? dei monumenti superstiti lo manteneva, ma la memoria dei fatti speciali non poteva esistere che in qualche nome o in qualche leggenda. Quella grandezza per? piuttostoch? fra i Romani doveva far nascere molte leggende fra gli stranieri, che arrivando a Roma con quella freschezza d'animo che ? propria dei popoli di recente inciviliti, e ignari affatto delle maraviglie che ? capace di produrre una potenza ed una civilt? come fu la romana, rimanevano attoniti dinanzi ai residui sempre imponenti e maestosi dell'abbattuto colosso. Tornati alle loro case descrivevano quel che avean veduto, esagerando; chi ripeteva esagerava anch'egli, e cos? la leggenda si formava.
Tale ? il primo rapporto in cui veggasi posto Virgilio con Roma dalla leggenda. Quantunque sappiamo che Virgilio possedeva una casa sull'Esquilino, pure dalle notizie che ci d? la sua biografia non pare che ei risiedesse abitualmente in quella citt?, e quand'anche vi avesse dimorato a lungo, non avrebbe potuto lasciarvi le memorie che lasci? a Napoli. Il popolo che abitava la capitale del pi? grande impero che sia mai esistito, avvezzo com'era a grandezze d'ogni sorta, non poteva ricevere grandi e durature impressioni dalla personalit? di Virgilio, quantunque sapesse distinguerla ed apprezzarla in mezzo ad una folla di grandi d'ogni specie. Quindi se in Roma troveremo qualche monumento a cui si connetta il nome di Virgilio, troveremo ancora che ci? non avvenne per una tradizione qualsivoglia relativa al poeta serbata dal popolo romano, ma bens? ebbe luogo in epoca assai recente, per un riflesso delle leggende virgiliane nate altrove, mescolate colle leggende relative a quella citt?, e in questa portate dal di fuori.
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Divenuto che fu Virgilio mago per bene, non solo si attribuirono a lui parecchie maraviglie che si raccontavano di Roma, ma gli furono applicati ancora racconti gi? riferiti ad uomini a cui tocc? la stessa sorte. Uno di questi, com'? notissimo, era il papa Silvestro II, o Gerberto, che colla rinomanza di magia pag? il torto che ebbe di occuparsi di meccanica e di matematica in un tempo in cui ci? in un ecclesiastico, e pi? in un papa, pareva uno scandalo. Fu tanto pi? facile confondere la leggenda sua colla virgiliana, che molti degli scrittori notissimi che riferivano questa, riferivano anche l'altra; tali sono, per esempio, Gervasio di Tilbury, Elinando e quindi Vincenzo di Beauvais, Alberigo ecc. Un esempio di questa confusione l'abbiamo nei poemi che ho gi? citati.
Molti racconti puerili ho dovuto narrare fin qui, tediosi certamente pel lettore, al quale debbo chiedere scusa se non ho saputo presentarglieli in modo da diminuirgli la noia. Tanto pi? poi ho bisogno della sua indulgenza che, quantunque arrivato assai innanzi, non posso annunziargli di aver finito. Per quanto possa riuscir gravoso a lui ed a me l'andare anatomizzando queste fantasticherie, oso sperare che il frutto che se ne trae per la spiegazione di un fenomeno pur singolarissimo, conforter? lui, come me, a proseguire.
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