Read Ebook: La Vita Italiana nel Settecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1895 by Various
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Ebook has 624 lines and 94708 words, and 13 pages
LA VITA ITALIANA NEL SETTECENTO
Romualdo Bonfadini, Isidoro Del Lungo, Ernesto Masi, Vittorio Pica, Guido Mazzoni, Ferdinando Martini, Matilde Serao, Enrico Panzacchi, Giovanni Bovio, Alberto Eccher, Antonio Fradeletto.
MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI
Quinto migliaio.
PROPRIET? LETTERARIA
Tip. Fratelli Treves. -- 1908.
DA ACQUISGRANA A CAMPOFORMIO
CONFERENZA DI
Chiamatelo, secondo le leggi morali, progresso; chiamatelo, secondo le leggi statiche, moto uniformemente accelerato; certo ? che quelle mutazioni generali di pensieri, di abitudini, di legislazioni, di vita civile, a cui nell'evo antico appena bastavano dieci generazioni d'uomini, si sono compiute pi? tardi nello spazio di un secolo, e, venendo pi? presso a noi, in cinquant'anni od in trenta.
Uomini ed eventi esercitavano, nelle prime epoche dell'umanit?, un'azione cos? passeggiera e cos? lenta che quasi non s'avvertiva. Le grandi monarchie orientali impiegarono pi? di un millennio e mezzo a sorgere, a brillare, a distruggersi, senza che il mondo antico apparisse, dopo cos? grandi catastrofi, notevolmente mutato. Roma era vecchia di oltre cinque secoli, quando cominci? a far avvertire la sua presenza fuori de' suoi confini. Sesostri, Ciro, Cambise, Alessandro il Macedone, malgrado il loro genio e le loro conquiste, non lasciarono negli ordinamenti del mondo maggior traccia di quella che lascia una frana di monte, rotolatasi nell'Oceano. L'umanit? doveva giungere fino al Pescatore di Galilea, per sentirsi tratta a mutare in s? e di s? tanta parte di pensieri e di scopi. Eppure ci vollero quasi mille anni perch? il Cristianesimo vincesse, soltanto in Europa, tutti gli antichi Iddii. E i quattrocento anni dell'Impero romano occidentale dimostrano che, dopo la scossa data alle vecchie compagini sociali da Cesare e da Augusto, il mondo s'era ricantucciato nella schiavit? nuova e non accennava a riscuotersi pi?.
Colla discesa dei barbari nell'Europa, divenuta ormai l'unico fattore di trasformazioni sociali, la storia comincia a pigliare avviamenti pi? rapidi. Attila rinnova il mondo colla forza, Giustiniano col diritto. Nel medio evo, i periodi elaboratori diventano anche pi? frequenti e pi? intensi. Carlo Magno, gli Ottoni, la casa di Svevia danno gli ultimi colpi alla marmorea e millennaria tradizione romana. Da un secolo all'altro, le condizioni della societ? umana cominciano ad assumere aspetti diversi; ora sotto l'influenza delle Crociate, ora sotto quella del risveglio artistico e letterario, ora sotto gli influssi economici allargatisi per la scoperta d'America. Le plebi cominciano a rialzarsi; l'aristocrazia da feudale diventa cittadina; le necessit? dei commerci danno variet? alle legislazioni civili; gli Stati si costituiscono; sorgono le questioni nuove dell'equilibrio politico.
? cos? che, avvicinandosi ai tempi nostri, la mutazione organica delle cose appare pi? evidente e quasi continua; sicch?, mentre nel tempo antico un uomo di pensiero doveva spingere lo sguardo a due o tre secoli addietro per cogliere i sintomi di un movimento nella compagine umana, pot? pi? tardi limitarsi ad esaminare il corso della propria vita, per trovarvi elementi di novit? intellettuali, politiche, sociali, talvolta tanto pi? meravigliose nell'ultimo effetto loro quanto meno s'era avvertito il loro sorgere e il loro concatenarsi.
Uno di questi periodi storici, a rapide evoluzioni e a multiformi sorprese, ci presenta la seconda met? del secolo decimottavo, al quale finalmente sono giunte queste conferenze sulla vita italiana, dopo avere cominciato a frugare per entro i secoli oscuri e dopo avere illustrato i secoli gloriosi.
Uscivamo da un lunghissimo periodo di decadenza intellettuale e morale. Da dugent'anni avevamo perduto ogni elaterio di vita pubblica, ogni diritto ed ogni virt? d'iniziativa paesana. In un secolo e mezzo, soltanto il Galileo ci aveva dato l'orgoglio dell'antica grandezza intellettuale italiana. Ma, letterariamente, eravamo passati dall'Ariosto e dal Machiavelli a Gregorio Leti e al cavalier Marino; artisticamente, imbrattavamo di calce gli affreschi dei quattrocentisti, per ridipingere su quelle preziose pareti le fiamme dei dannati o le colossali effigie di San Cristoforo; giuridicamente, eravamo ritornati alle pi? fitte ignoranze del medio evo, mediante i grotteschi processi contro le streghe e contro gli untori. Politicamente poi, nulla era pi? tristo e pi? umiliante dei vari regimi italici; ballottato tra Francesi, Spagnoli, Tedeschi, l'elemento indigeno s'era piegato a tutte le tirannie, a tutte le pompe di quei governi violenti o ridicoli. I pochi principi di famiglie nazionali, come i Medici e i Gonzaga, s'affondavano nel lezzo dei cattivi costumi. Nessuna resistenza di moltitudini, nessuna protesta di pensatori fermava i governanti sullo sdrucciolo delle prepotenze e delle pazzie. Nobili e popolani s'erano acconciati a servit?, e l'uniforme gallonato d'un cortigiano spagnolo o francese trovava curve le schiene e verbosa l'ammirazione degli eredi di Piero Capponi e di Gerolamo Morone.
Questo insieme di ordinamenti politici e di fenomeni sociali sembrava assodato e ribadito nel 1748 dalla pace di Acquisgrana; che, sostituendo l'Austria alla Spagna nella preponderanza sull'Alta Italia, ed aggiungendo al Borbone di Napoli un Borbone di Parma, otteneva l'intento di stringere il nostro paese fra le due famiglie dinastiche ritenute pi? ostili ad ogni allargarsi di attivit? nazionali.
Or bene, un uomo che fosse nato, per esempio nel 1730 e si fosse spento, dopo settant'anni, nel 1800, sarebbe invece passato per tali e tante vicende, da non poter pi? riconoscere nella sua vecchiaia il mondo che gli era stato famigliare nella giovinezza; avrebbe assistito a cos? larghi mutamenti, a cos? profonde evoluzioni di costumi, di discipline, di pensieri, di ordinamenti politici, da dover dubitare se veramente non fosse stato almeno doppio il tempo della sua esistenza.
Quest'uomo, per esempio, avrebbe visto, con Giuseppe Parini, sostituirsi all'Arcadia la letteratura civile; avrebbe visto distruggersi la scolastica, spuntare con G. B. Vico la filosofia; avrebbe visto sparire i cronisti e sorgere, col Muratori, la critica storica; avrebbe visto rinnovarsi ab ovo la giurisprudenza, col Filangieri e col Beccaria; avrebbe visto le scienze fisiche far passi da gigante col Volta, col Piazzi, collo Spallanzani; avrebbe visto sgominati i cortigiani politici e risorti gli uomini di Stato, col Tanucci, col Verri, col Bogino, col Fossombroni. Avrebbe visto di pi?; avrebbe visto una triade d'innovatori fondare un teatro drammatico italiano, col Metastasio, col Goldoni e coll'Alfieri; avrebbe visto uscire dai deliri del barocco due ingegni severi, che riconducevano l'arte al culto delle linee e del pensiero, Appiani e Canova.
Poi, rivolgendo lo sguardo alle abitudini della vita, quell'uomo si sarebbe accorto di altri fenomeni; avrebbe veduto illuminarsi e lastricarsi le vie cittadine, rimaste per tanti secoli in bal?a del fango e dei ladri; avrebbe veduto nella locomozione elegante sostituirsi le carrozze alle lettighe, nell'alimentazione delle infime classi sostituirsi la salubre patata ai grani infraciditi. Avrebbe poi visto una rivoluzione nella salute pubblica, mediante l'innesto del vaiuolo; una rivoluzione nella pubblica educazione, mediante l'espulsione dei gesuiti da tutto il territorio italiano; una rivoluzione nei contatti sociali, mediante la fondazione dei giornali e lo spesseggiare dei ritrovi nelle botteghe da caff?.
Finalmente, quell'uomo avrebbe visto, nei costumi italiani, un rivolgimento inatteso e anche pi? consolante; avrebbe riudito un linguaggio, a cui da due secoli l'Italia s'era disusata: il linguaggio dell'uomo libero dinanzi al potente, si chiamasse principe o plebe.
Questi fenomeni di risveglio intellettuale e morale dominano tutto il periodo che va dalla pace d'Acquisgrana alla fine del secolo; e bastano a segnare i caratteri generali di un'epoca ricostruttrice e innovatrice; come sogliono bastare a chiarire le epoche di decadenza quei tristi fenomeni che si riassumono nelle opinioni fiacche, nella paura dei molti, nella frenesia del mutare, nella volutt? del servire.
D'onde poi sia uscito, come sia stato preparato questo rapido rivolgimento nella coltura pubblica e nel carattere nazionale degli Italiani, non par facile congetturare.
Forse, anche la mutazione avvenuta nei regimi politici della penisola pot? aiutare il benefico movimento. Le dinastie secolari, quando cessano di rinnovarsi nelle abitudini e nelle idee al contatto dei nuovi indirizzi assunti dallo spirito umano, determinano intorno a s? cristallizzazioni di forme, attraverso le quali ? difficile che il pensiero possa trovare la forza di penetrare. Questo era avvenuto alle vecchie famiglie medievali dei Farnesi, dei Medici, dei Gonzaga, rese inette dall'abitudine del fasto e dei godimenti a comprendere le necessit? di governo secondo i concetti pi? austeri che cominciavano a farsi largo. Questo era avvenuto anche pi? alla boriosa dinastia spagnola, coll'aggravante che, non potendo neanche governare direttamente i suoi domin? italiani di Milano e di Napoli, aveva dovuto lasciare quelle popolazioni sotto l'arbitrio di governatori, pi? nobili che intelligenti, e sopratutto pi? intesi a far denari che a promovere giustizia e civilt?.
I mutamenti dinastici avvenuti in Italia dopo la guerra per la successione di Spagna, e ratificati nel trattato di Acquisgrana, rompono in parte, e un po' dappertutto, meno a Venezia, queste cristallizzazioni. La casa d'Austria, insediatasi in Lombardia, vi porta uno spirito pi? moderno, v'incoraggia un maggiore studio delle questioni amministrative, abitudini pi? laboriose, pi? virili, pi? parsimoniose. I Borboni, installati a Napoli e a Parma, sentono il bisogno di iniziare il loro regime con qualche innovazione che procuri loro il favore dei governati, e secondano le savie riforme di Bernardo Tanucci e del marchese Du Tillot. La Toscana, passata dai Medici ai Lorena, trova nei principi di quella casa uomini d'indole mite, volonterosi di bene, purch? largito a piccole dosi e non disciplinato da logica di princip?; insomma il vero tipo di quel dispotismo intelligente, che appariva allora un progresso, dopo tanti despotismi ignobili e crudeli, ma che costituisce oggid? il maggiore pericolo delle societ? liberali e la pi? fatale illusione degli spiriti fiacchi e spensierati.
Non ? dunque fuor di proposito il supporre che anche da siffatti avvenimenti politici sia venuta, diretta o involontaria, una spinta a quella ricostituzione intellettuale e morale, a cui evidentemente gli spiriti italiani s'erano lentamente preparati nel tempo, e che aspettava soltanto un'occasione per uscire dai sotterranei alla luce.
E, del resto, toccherebbe a troppo alti orgogli l'ingegno umano, se potesse afferrare, anche soltanto nel passato, una sicura sintesi delle cagioni. Quegli stessi ostacoli, o somiglianti, che fermano al problema delle origini le pi? audaci indagini dello scienziato, trattengono intorno al problema delle leggi evolutive il moralista o il filosofo della storia. Quegli intervalli, quelle soste, quei salti che turbano, senza impedirlo, il lento avanzarsi delle razze umane verso il miglioramento indefinito dell'avvenire, possono bens? precisarsi nei fatti, ma non si riesce a sottoporli a discipline di pensiero; come si constata, ma non si spiega, se non con altre ipotesi, l'alternarsi degli strati nella storia geologica.
Iddio determina, nel corso secolare dell'esistenza, i periodi demolitori e i periodi ricostruttori, le epoche, in cui l'uomo precipita verso gli abissi e quelle in cui si slancia verso l'Empireo. Supporre che nell'avvenire queste alternative debbano cessare e i periodi storici non segnino pi? che nobili gare verso sempre maggiori svolgimenti di bene, pu? essere una speranza, non ? una legge che abbia stabilito i suoi termini. Il che non impedisce che nell'uomo rimangano per? immutabili i termini del dovere morale, che consiste nell'opporre ogni resistenza alle ragioni del male, anche quando un concorso di forze irresponsabili sembri impedire o allontanare il trionfo del bene.
Ma tornando all'argomento storico, dopo questa scappata, forse inopportuna, nelle regioni dell'etica, ? bene avvertire come, anche in questo mezzo secolo fervido di tante mutazioni, le forze innovatrici siano state di due sorta, ed assai diverse cos? nella rapidit? come nella intensit? degli effetti raggiunti. Dal 1748 al 1795 ? un cammino calmo, costante, non audace, pacifico; dal 1795 alla fine del secolo, ? un correre vertiginoso, spensierato, fatale, una distruzione implacabile, una ricostruzione tumultuosa. Nel primo periodo di 47 anni, l'impulso ? dato da elementi nazionali, da pensatori, da principi o da ministri di principi; nel secondo periodo di soli cinque anni, ? dato da invasioni straniere, da prepotenza d'armi, da subitaneit? d'interessi, da esigenze di turbe, chiamate in ventiquattr'ore a dominio irresponsabile dopo secoli di servit?. Il primo periodo si suole chiamare delle riforme, il secondo, della rivoluzione.
Ora, s'? molto disputato fra gli studiosi di storia patria, se il moto rivoluzionario esotico abbia affrettato o ritardato, ne' suoi ultimi effetti di civilt? e di progresso, il moto riformatore indigeno. Forse anzi ? questa la tesi storica del secolo decimottavo, intorno a cui si siano pi? affatioate le menti e le ipotesi dei polemisti. ? inutile aggiungere che, dopo questi sforzi d'ingegno, la situazione ? rimasta quella di prima. N? gli adoratori della Rivoluzione francese riescono a persuadere i liberali riformatori della bont? intrinseca del metodo giacobino; n? questi possono presumere di vaticinare che cosa sarebbe stato il mondo senza il lavacro uscito dagli ardori del 1789. Certo, i progressi economici e civili raggiunti in Toscana sotto l'amministrazione leopoldina non furono superati da quelli a cui posero mano i commissari francesi o la principessa Elisa Bonaparte. E quando, nel 1790, il conte Pietro Verri propose ai notabili milanesi, contro l'opinione del Visconti e del Botta, di chiedere all'imperatore Leopoldo una Costituzione, l'opinione pubblica lombarda doveva gi? trovarsi, su per gi?, nello stato in cui trovossi, cinquantasette anni dopo, l'opinione pubblica piemontese, quando il conte di Cavour propose ai notabili torinesi, contro l'opinione del Sineo e del Valerio, di chiedere a Carlo Alberto la pubblicazione dello Statuto.
Del resto -- ripeto -- siffatta disputa non pu? servire oggimai a nessuno scopo scientifico, quando non sia quello d'un'acuta ginnastica intellettuale. Potrebbe chiudersi tutt'al pi? con quella vigorosa frase sintetica, colla quale a Sant'Elena l'imperatore Napoleone chiuse una polemica quasi simile intorno a Gian Giacomo Rousseau: "forse il mondo sarebbe stato pi? felice se io e lui non fossimo nati.,,
Il periodo rivoluzionario colpiva impreparate le masse, ma era stato preveduto, in parte favorito dagli uomini di pensiero.
Gi? fin dal 1784 l'uragano incipiente non era sfuggito alla sagacia del ministro piemontese, conte Bogino, il quale, guardando alla Francia, era morto esclamando: "povera Italia! povera Europa!,, Viaggiando in Francia, al seguito di una dama lombarda, illustre per bellezza e per intelletto, la marchesa Paola Castiglioni, Alessandro Verri, Francesco Melzi, Cesare Beccaria s'erano mescolati a tutti i gruppi novatori della societ? parigina e riportavano in patria l'impressione che il periodo delle riforme stava per chiudersi. Un abate napoletano, pozzo di spirito e di scienza, Ferdinando Galiani, era entrato in grande dimestichezza con Diderot e d'Holbach, e scriveva da Parigi ai suoi compatrioti, informandoli di tutte le agitazioni e le preparazioni che bollivano nella pericolosa citt?. E pi? dei pensatori s'affaccendavano gli avventurieri, razza che non manca mai di entrare in iscena alla vigilia delle grosse crisi, e a cui di solito vien meno la moralit?, non mai l'ingegno o l'audacia.
Un veneziano, Giacomo Casanova, fuggito con mirabile ardire dalla prigione dei Piombi, aveva percorso l'Europa, rompendo tutte le discipline sociali; imponendosi con astuzie di finanza al conte di Choiseul, a Federico II, a Caterina II, a Maria Teresa; bisticciandosi col conte di San Germano e con Voltaire; scandalizzando tutti i paesi per le pubblicit? della sua vita, pel lusso, pei giuochi, pei duelli, per gli amori, pei debiti.
Un siciliano, Giuseppe Balsamo, era penetrato pi? addentro negli organismi delle vecchie sette europee; le aveva dominate coi misteri nuovi del mesmerismo; e imbrancandosi col finto nome di Cagliostro nell'aristocrazia europea, corrompeva principi, aizzava plebi, abbarbagliava ignoranti, spargeva dappertutto i semi della miscredenza e della rivolta.
Un milanese, il conte Giuseppe Gorani, innamoratosi delle pi? spinte dottrine demagogiche, s'era volontariamente sbandito dalla patria ai primi sintomi della commozione francese; s'era fatto intimo dei pi? scamiciati giacobini dell'epoca; aveva accettato missioni segrete di agitatore in Isvizzera ed in Italia; sicch?, per decreto dell'arciduca Ferdinando, era stato radiato dall'albo della nobilt? milanese e, coi procedimenti giudiziari ancora in uso, gli erano state confiscate le propriet?.
Era sotto queste impressioni e sotto queste influenze, dirette o indirette, che cominciava a suscitarsi un'opinione pubblica, favorevole alle dottrine umaniste, quantunque risolutamente contraria alle applicazioni inumane dei rivoluzionari francesi.
Frutto di questo duplice indirizzo degli spiriti, sopratutto nella regione lombarda, la pi? indicata a ricevere il primo urto delle idee e dei fatti della Rivoluzione, era stata una dimostrazione ostile, fatta, sin dal 1789, nel teatro della Scala al conte d'Artois, e nel tempo stesso l'avversione acuta, universale ond'erano circondati i violenti energumeni che del Comitato di Salute Pubblica parigino s'erano fatti fra noi apologisti e plagiari, come il prete Lattuada, Gio. Antonio Ranza e Carlo Salvador.
Nondimeno, come avviene sotto il sole, sempre e senza rimedio, gli esagerati si organizzavano e i moderati si rassegnavano; sicch? i primi e non i secondi si trovarono pronti a cogliere i vantaggi ed esercitare le influenze che la procella politica stava per sostituire ai vecchi ordinamenti sociali.
Questi resistettero, come meglio seppero, in Piemonte e in Lombardia, finch? le minaccie partirono soltanto da elementi indigeni e da cospirazioni paesane; si frantumarono, come statue di gesso, a cui venisse tolto il sostegno, appena furono visti dalle Alpi scender armati, e, come ai tempi del Filicaja,
Bever l'onda del Po gallici armenti.
Per dire il vero, quegli armati non scendevano "a torrenti,, come il Filicaja narra del tempo suo. Erano anzi pochi, mal vestiti e peggio nutriti; ma li guidava un'idea fatale e un giovane anche pi? fatale dell'idea.
Era un generale in capo di ventisette anni, non alto di statura, gracile di complessione, pallido di colorito, coi capelli spioventi sulla fronte e sulla nuca, dalla fisonomia pensosa, dallo sguardo d'aquila, dal parlar breve, rotto, energico, implacabile. Il suo paese lo aveva veduto sedare in dodici ore una formidabile insurrezione per le vie di Parigi, rioccupare Tolone a colpi di cannone, e strisciare come un sollecitatore nelle anticamere del disonesto Barras, dispensatore di titoli e di gradi. Il nostro paese era destinato a vederlo fulmineo vincitor di battaglie, distruttore di regni e di repubbliche, improvvisatore di governi e di costituzioni politiche, saccheggiatore di codici e di opere d'arte, nemico formidabile di despotismi e di libert?, detronizzatore di principi e di pontefici, restauratore di ordine, di stud? e di religione, imperioso con generali, con popoli, con regnanti, schiavo umile e innamorato di una sposa bella, frivola e traditrice.
L'ora che corre segna in tutta Europa una specie di ripresa della leggenda napoleonica. Non si sa se sia ammirazione della fortuna, delle virt? o dei delitti che a quella leggenda appartengono. Non si sa se il mondo discopra quel tumulo per cercarvi una volont? potente, una direzione sicura, un ingegno a nessuna esigenza inferiore, o se frughi fra quelle ossa per trovarvi i residui del dispotismo illimitato e spensierato, a cui anelino di prostrarsi societ? frolle e scettiche, stanche di pensare e di combattere por idealit? da cui non aspettano nessun vantaggio.
Ad ogni modo, nessuna preoccupazione di questa natura agitava i contemporanei, quando il generale Bonaparte, con una rapidit? di mosse a cui non erano preparati i suoi avversar?, gira e supera nel tempo stesso la catena dell'Appennino ligure, si ficca come un cuneo fra le colonne austriache e le piemontesi, batte le prime a Montenotte e a Dego, le seconde a Millesimo, forza ad un armistizio il governo sardo, scende difilato lungo la corrente del Po, lo varca a Piacenza mentre Beaulieu lo aspettava a Valenza, si getta su Lodi, vi sbaraglia l'esercito austriaco ed occupa Milano, entrandovi dal lato orientale, mentre tutte le difese gli si erano opposte dal lato occidentale.
Prima che il secolo decimottavo seguisse i suoi predecessori nel vortice della storia, anche queste anarchie potevano dirsi in gran parte cessate. Ma se, fra tante procelle, s'erano, a intervalli, mantenute nei loro domin? le dinastie del centro e del mezzogiorno d'Italia, pi? profondi e durevoli mutamenti di Stato avevano avuto luogo nella regione settentrionale, dove due fra i pi? antichi e gloriosi governi della penisola erano stati violentemente soppressi, per tradimento, o, se la parola pare eccessiva, per insidia delle nuove diplomazie.
? inutile dire che alludo alla monarchia di Savoja e alla repubblica di Venezia. Delle ipocrisie che hanno avviluppato la prima fu sopratutti responsabile il Direttorio francese; di quelle a cui soccombette la seconda, spetta al generale Bonaparte l'iniziativa e la responsabilit?.
Dopo le prime battaglie di Montenotte e di Millesimo, il governo sardo, vistosi impotente a continuare le ostilit?, s'era piegato ai consigli pacifici del cardinale Costa, arcivescovo di Torino, stipulando a Cherasco un armistizio, che fu poi convertito a Parigi in un formale trattato di pace.
Pareva che di quegli accordi il Direttorio dovesse essere soddisfatto, poich? a nessuna condizione onerosa il Piemonte s'era negato. Concedeva libero il passo agli eserciti francesi, cedeva la Savoia e Nizza, lasciava occupare le fortezze di Ceva, Cuneo, Tortona e Alessandria, distruggeva i forti alpini di Exilles, di Brunetta e di Susa, chiudeva i suoi porti alle navi delle potenze ostili alla Francia, riduceva l'esercito al piede di pace.
Malgrado ci?, non cessavano le pretese. Tardava alla Francia l'assorbimento del regno. Sicch?, dai confini della Lombardia, divenuta Repubblica Cisalpina, entravano spesso elementi di rivolta, che si aggiungevano alle cospirazioni paesane. Viceversa, quando il governo sardo reprimeva o puniva, era sempre dall'ambasciatore francese che partiva la domanda o l'ingiunzione di grazia. Cos? riusciva difficile il governare. Meno di due anni dopo il trattato di Parigi, il Direttorio volle un nuovo trattato, che chiam? d'alleanza, e pel quale -- s'intende -- il Piemonte doveva fornire uomini ed armi contro i nemici della Francia, quali si fossero. Neanche questo bast?. Verso la primavera del 1798 divenne evidente che il Direttorio francese accampava contro il Piemonte le stesse ragioni che, nella favola famosa, il lupo accampava contro l'agnello.
Mentre queste cose accadevano intorno alle alture dove comincia il Po, altre non meno dolorose avevano luogo intorno alle lagune, dove finisce.
La Repubblica di Venezia era certamente quello fra gli Stati italiani dove s'erano meno pronunciate le alternative dello spirito pubblico. Quasi democratiche fino al 1297, le istituzioni del governo veneto erano divenute interamente aristocratiche dopo la famosa riforma elettorale del doge Gradenigo. La durata secolare di questo regime aveva probabilmente sottratta la Repubblica all'influenza di quelle cause che determinavano, nel resto d'Italia, la decadenza intellettuale e politica; ma le aveva anche impedito quel ritorno di energie che in ogni regione del pensiero aveva segnalato il settecento italiano. Un po' spossata dalle guerre del cinquecento e dalla politica spendereccia e megalomane del doge Francesco Foscari, Venezia s'era rannicchiata ne' suoi commerci, limitandosi ad accentuare, ogni secolo, le proprie tradizioni, mediante le imprese marittime di Francesco Morosini o di Angelo Emo. Nel complesso, l'antico suo genio si veniva estinguendo, e l'immobilit? sua non le permetteva pi? di mantenere influenza su popoli e su regimi, tutti affaccendati a muoversi, a mutarsi, a perfezionarsi. Il patriziato aveva conservato una certa attitudine ai grandi affari politici; ma per reprimere novit? ostili al suo prestigio, non aveva cercato mai di educare il popolo a vigorosi sentimenti, accontentandosi di lasciargli ogni libert? nelle feste. Venezia era diventata una grande oasi di gioia, a cui tutti potevano accorrere e attingere. Per?, su ogni cosa che riguardasse affari e politica, posava la diffidenza e il sospetto. Non se ne occupavano -- e in segreto -- che i patrizi del Maggior Consiglio, ai quali pareva che gli interessi conservatori stessero unicamente nel chiudere sempre le loro fila e i loro ordinamenti ad ogni alito di miglior?e. Tanto che, nel 1780, avevano mandato a domicilio coatto Giorgio Pisani, perch? fattosi iniziatore di riforme nelle leggi costituzionali della Repubblica.
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