Read Ebook: La Vita Italiana nel Settecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1895 by Various
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La Repubblica di Venezia era certamente quello fra gli Stati italiani dove s'erano meno pronunciate le alternative dello spirito pubblico. Quasi democratiche fino al 1297, le istituzioni del governo veneto erano divenute interamente aristocratiche dopo la famosa riforma elettorale del doge Gradenigo. La durata secolare di questo regime aveva probabilmente sottratta la Repubblica all'influenza di quelle cause che determinavano, nel resto d'Italia, la decadenza intellettuale e politica; ma le aveva anche impedito quel ritorno di energie che in ogni regione del pensiero aveva segnalato il settecento italiano. Un po' spossata dalle guerre del cinquecento e dalla politica spendereccia e megalomane del doge Francesco Foscari, Venezia s'era rannicchiata ne' suoi commerci, limitandosi ad accentuare, ogni secolo, le proprie tradizioni, mediante le imprese marittime di Francesco Morosini o di Angelo Emo. Nel complesso, l'antico suo genio si veniva estinguendo, e l'immobilit? sua non le permetteva pi? di mantenere influenza su popoli e su regimi, tutti affaccendati a muoversi, a mutarsi, a perfezionarsi. Il patriziato aveva conservato una certa attitudine ai grandi affari politici; ma per reprimere novit? ostili al suo prestigio, non aveva cercato mai di educare il popolo a vigorosi sentimenti, accontentandosi di lasciargli ogni libert? nelle feste. Venezia era diventata una grande oasi di gioia, a cui tutti potevano accorrere e attingere. Per?, su ogni cosa che riguardasse affari e politica, posava la diffidenza e il sospetto. Non se ne occupavano -- e in segreto -- che i patrizi del Maggior Consiglio, ai quali pareva che gli interessi conservatori stessero unicamente nel chiudere sempre le loro fila e i loro ordinamenti ad ogni alito di miglior?e. Tanto che, nel 1780, avevano mandato a domicilio coatto Giorgio Pisani, perch? fattosi iniziatore di riforme nelle leggi costituzionali della Repubblica.
Era in questa situazione morale e politica che Venezia vedeva avvicinarsi alle sue contrade la bufera rivoluzionaria scatenatasi dalla Francia.
La questione non tard? ad imporsi alle deliberazioni del Senato, nel quale, al principio del 1793, ventilaronsi due partiti. Francesco Pesaro, procuratore di San Marco, sostenne vigorosamente la necessit? di armarsi, pur proclamando la neutralit?. "Se Venezia non s'arma,, esclam? egli con vivo presentimento dell'avvenire "Venezia ? perduta.... credete voi di poter evitare la guerra, perch? ne avrete trascurati i preparativi?... la perfidia non ha mai cercato invano dei pretesti.... circondati d'armi da tutte le parti, la spada sola pu? tracciarsi un cammino verso la pace.,, Gli rispose un membro del Consiglio dei Savj, Zaccaria Vallaresso, e il suo discorso persuase fatalmente i patrizi ad accogliere la politica della neutralit? disarmata.
Quel discorso era un tessuto di ipotesi, cucito con abili frasi. La Francia aveva appena invaso il territorio di Nizza e della Savoja. Si sarebbe trovata di fronte a due potenze militari, il Piemonte e l'Austria, che le avrebbero certamente impedito di avanzarsi. D'altronde, lo stato interno della Francia era troppo violento perch? potesse durare; una reazione in senso monarchico era imminente. Una volta armata, Venezia avrebbe reso pi? intensi gli sforzi delle potenze belligeranti, per avvincerla a s?; non avrebbe potuto sottrarsi alla seduzione di stare cogli uni o cogli altri; sarebbe troppo deplorabile la condizione umana se, quando la guerra scoppia sopra un punto del globo, il mondo intero dovesse correre alle armi.... si deve qualche cosa all'umanit?, all'innocenza, alla giustizia.... e via dicendo.
Sofismi; ma sofismi atti a far breccia in animi fiacchi; ed era fiacca pur troppo l'assemblea innanzi a cui venivano pronunciati; era fiacco l'ambiente in mezzo a cui quell'assemblea deliberava; era fiacco il principe, a cui dovevano metter capo quelle responsabilit?, l'ultimo Doge eletto nel 1789, Lodovico Manin.
Cos? s'erano disegnati in Venezia i tre capi delle frazioni politiche, destinate a seppellire, colle loro discordie, la secolare Repubblica: Giorgio Pisani, vessillifero delle idee popolari e riformatrici; Francesco Pesaro, interprete dell'antica energia conservatrice e previdente; Zaccaria Vallaresso, oratore dei retori, dei gaudenti, degli spensierati.
Era appena presa questa infausta decisione che i sintomi del pericolo romoreggiavano sul capo della Repubblica.
Il Querini da Parigi e il Grimani da Vienna avvertivano delle proposte gi? fatte dal Direttorio francese al governo austriaco, per la cessione a quest'ultimo di alcune provincie venete di terra ferma. L'agnello offriva il suo collo; diventava facile sgozzarlo, o almeno tosarlo. Cominciata la campagna del 1796, il Senato veneto lasci? sfuggirsi un'altra occasione di riparare alla sua colpevole imprevidenza. E l'occasione -- singolare presagio dei tempi -- gli veniva proprio da quella potenza che, settant'anni dopo, vincendo a Sadowa, avrebbe rotto per Venezia il fatale destino di Campoformio. Il barone di Hardenberg, primo ministro del re di Prussia, faceva dire all'ambasciatore veneziano in Parigi che se Venezia avesse voluto allearsi colla Prussia, colla quale nessun conflitto d'interessi era possibile, "la Prussia si sarebbe opposta con efficacia agli ambiziosi disegni dell'Austria ed avrebbe garantita l'integrit? del territorio veneto.,,
La fatalit? trascinava il Governo repubblicano, ostinato a cercare la salute in quell'isolamento che non era indipendenza.
E intanto erano avvenute le prime battaglie del 1796, e la guerra s'avvicinava, indietreggiando, alle provincie di terra ferma. Il generale Bonaparte, pi? esigente del suo Direttorio, credette scorgere nel contegno della Repubblica una diffidenza verso il genio della vittoria ch'egli personificava, e ferm? nella profonda mente il disegno di sopprimerne la secolare esistenza. Non lo nascose uno de' suoi intimi, il colonnello Beaupoil, il quale diceva, fin da Verona, che "quatorze si?cles d'existence devaient suffire ? la r?publique,,.
Poi, sopravvennero subito le difficolt? pratiche della neutralit? disarmata. Impotente a respingere cos? i vinti come i vincitori, la Repubblica non pot? negare il passaggio alle truppe austriache, nella loro ritirata verso il Tirolo. Bonaparte, irritato, fece subito occupare Brescia, poi Bergamo; il generale austriaco, per rappresaglia, pose guarnigione a Peschiera; Bonaparte rispose, impadronendosi di Verona. Il Senato veneto strepitava, il Querini reclamava a Parigi, il provveditor Foscarini si presentava al quartier generale dell'esercito francese. Ma ormai tutta la guerra si faceva sul territorio veneto, ne ed era possibile deviarla; Bonaparte rispondeva al Foscarini in tono altezzoso e coll'offerta ironica di mandare le sue truppe a difendere la libert? di Venezia; il Direttorio faceva offrire al Doge un trattato d'alleanza che, in tali condizioni, assumeva l'aspetto d'un trattato di servit?; e negli intimi colloqui il patrizio Querini si sentiva proporre dagli affaristi del Direttorio, che con cinque milioni dati per le spese di guerra e settecento mila lire sborsate al direttore Barras, si sarebbero potuti ottenere dal governo francese dei dispacci che fermassero il generale Bonaparte ne' suoi disegni di distruzione.
Le tratte per settecento mila lire furono effettivamente consegnate; e il Barras non ebbe pudore a presentarle per lo sconto al banco Pallavicini di Genova. Ma il generale Bonaparte s'era gi? posto colle sue vittorie in una situazione personale, che gli permetteva di non ricevere ordini da nessuno. Il suo proposito circa Venezia era implacabile; egli voleva finire una guerra, dalla quale ormai aveva tratto tutta la gloria che gli occorreva; coi territori di quella Repubblica avrebbe ammansato l'Austria, non mai esausta di forze e di eserciti. Per giungere allo scopo suo, non esit? ad entrare per le vie sdrucciole dell'insidia e della ipocrisia. I suoi emissari politici fecero lega coi pi? torbidi elementi del partito popolare, che in Venezia metteva capo al Pisani, in Brescia ai fratelli Lechi. Ben presto una sorda agitazione invade le popolazioni delle citt? e delle campagne appartenenti alla Repubblica. Brescia, Bergamo, Crema insorgono contro il dominio veneto e sono manifestamente appoggiate dai comandanti francesi. Questo primo successo incoraggia a proseguire nella via, e tutti gli sforzi s'acuiscono intorno a Verona, la citt? principale dei dominii di terraferma.
Qui tutto diventa odioso, sleale e tragico. Era capo dell'ufficio militare francese d'informazioni un Landrieux, colonnello degli ussari. Uomo senza scrupoli e deciso a servire occultamente tutti i partiti dell'epoca, uno dopo l'altro e gli uni contro gli altri, s'accont? con un vecchio stromento della demagogia parigina, Carlo Salvador, milanese rinnegato e disonorato, di cui Bonaparte si serviva per ogni mandato. Insieme complottarono un documento falso, e fu un proclama del provveditore Battaglia, nel quale, annunciandosi immaginarie sconfitte dei Francesi nel Friuli e nel Tirolo, s'eccitavano i fedeli sudditi della Repubblica, e sopratutto le classi rurali, a reprimere l'insolenza dei rivoltosi, scacciandoli da Bergamo e da Brescia, dove s'erano annidati.
Il 17 aprile 1797 Verona fu piena d'armi, d'odii e di stragi. Ad una rissa fra militari veneziani e militari francesi, il generale Balland credette opportuno por fine, cannoneggiando dai forti. La popolazione si credette assalita e reag?. Dove si trov? in minor numero, fu sopraffatta dalle milizie; dove prevalse, non risparmi? n? vivi, n? ammalati, n? donne. Non bastava la morte, vi si aggiunsero i tormenti. Per cinque giorni durarono le stragi per parte dei popolani e dei contadini, le bombe e l'incendio per parte dei francesi, agglomerati nei forti. Al sesto, venuta meno quasi la materia prima ai furori, poterono pronunciarsi parole di pace. Parecchi patrizi veronesi, il conte Nogarola fra gli altri, avevano raccolto e nascosto in casa loro cittadini ed ufficiali francesi, cercati a morte. I provveditori veneti, Giustiniani, Erizzo e Giovanelli, che da un pezzo avevano richiamata l'attenzione sullo stato degli animi e sulle mene dei cospiratori franco-italiani, si raccolsero a consiglio coi generali francesi; ma ebbero presto ad accorgersi che in questi nessuna idea di temperanza poteva penetrare. Il linguaggio era brutale, le esigenze innumerevoli, evidente il desiderio di trarre dal dramma veronese pretesto a maggiori complicazioni. Verona dovette arrendersi a discrezione, e i provveditori furono rimandati a Venezia.
Ma su Venezia intanto scoppiava l'ira del Giove tonante.
Le sorti della guerra avevano portato il generale Bonaparte sulle alture del Semmering, d'onde l'istinto audace gli faceva gi? intravedere l'occupazione di Vienna.
Per? tra l'audacia e il successo, nel cervello del futuro Cesare v'era ancor posto pel ragionamento. Anzi, pei ragionamenti; poich?, nel momento attuale, erano due e combaciavano fra loro. Vincere un'altra battaglia pareva ancora possibile, forse era facile; ma non era esclusa la possibilit? di perderla, e la perdita, in quelle condizioni, bastava ad annullare tutta la gloria e tutti i vantaggi ottenuti. A misura che si allungava su Vienna, l'esercito francese, cos? lontano dalle sue basi, naturalmente s'indeboliva; mentre intorno alla gran capitale, l'arciduca Carlo avrebbe trovato forze e mezzi di resistenza e di attacco sempre maggiori. Non si poteva giurare che una sola vittoria avrebbe ancora stesa l'Austria ai piedi del vincitore; si poteva giurare che una sola sconfitta avrebbe costretto il generale Bonaparte a rifare in fuga precipitosa quel cammino fino allora seminato di cos? rapide audacie.
D'altra parte, obbligando l'arciduca Carlo, non timido avversario, a concentrare tutte le forze militari del suo paese per difendere da un colpo di mano la capitale della monarchia, Bonaparte avrebbe resa pi? facile una ripresa offensiva dell'esercito del Reno, che il generale Moreau guidava con minore impeto, ma con eguale tenacia, contro i nemici della Francia repubblicana. V'era a prevedere il caso che i due eserciti entrassero contemporaneamente in Vienna e che i due generali ne avessero eguale onore. Ora, ci? non secondava i disegni del generale Bonaparte, che gi? si sentiva il primo nel suo paese e non avrebbe voluto dividere con nessuno, meno che mai -- e lo provarono gli eventi successivi -- col generale Moreau, la dittatura che gi? volgeva nell'animo.
Sicch? la pace -- una pace gloriosa, dopo una guerra che non l'era meno -- avrebbe posto fine alle due preoccupazioni che lo agitavano, e avrebbe mantenuta intorno al solo suo capo la doppia aureola del vincitore e del pacificatore dell'Europa.
Fu per queste considerazioni, tradite gi? dai documenti dell'epoca, e ormai riconosciute da tutti gli storici, che il generale Bonaparte si decise a scrivere all'arciduca Carlo una lettera famosa per la sua moderazione pacifica e a trattare nel tempo stesso Venezia con modi altrettanto famosi per la loro esagerata violenza. Dopo i fatti di Bergamo, di Brescia e di Sal?, aveva mandato a Venezia il generale Junot, minacciando il Doge e gli ottimati di aperta guerra; dopo i fatti di Verona, accolse burbero gli inviati del Senato, e scrisse a Pesaro: "io sar? un Attila per Venezia.,,
E Attila fu; non nel senso della devastazione materiale, ma nel senso della distruzione politica.
Invano riceveva istruzioni dal Direttorio, e dal suo ministro degli Affari Esteri, Talleyrand, di non permettere dominio austriaco sopra nessuna parte di territorio italiano. Egli era gi? abbastanza forte da fare una politica che non fosse quella del suo governo, e voleva stupire il mondo col suo amor della pace, dopo averlo meravigliato colla sua rapidit? nella guerra.
Cos? si venne ai preliminari di Leoben, che cominciavano a sbranare la Repubblica di Venezia, dando all'Austria tre quarti delle sue provincie di terraferma. Era per? serbata ad un piccolo villaggio posto fra Udine e Passeriano, questa gloria d'Erostrato, di consumare il sacrificio del pi? antico Stato indipendente che esistesse in Europa. Da Leoben a Campoformio le trattative furono ancora molte, ma l'implacabile disegno di Bonaparte trionf? d'ogni esitazione; e poich? i plenipotenziarii austriaci stavano sul tirato, egli ruppe loro sul viso un candelabro, per dimostrare la superiorit? della sua diplomazia.
Convinti da questo argomento, i plenipotenziari firmarono il trattato di Campoformio, mediante il quale l'Austria acconsentiva a lasciare estendersi la Cisalpina fino alla riva dell'Adige, e otteneva in cambio il cadavere vivo della Repubblica di Venezia.
? doloroso dover dire che nessuna grande inspirazione di virt? o di valore eruppe allora dagli ultimi consigli della morente Repubblica. Il Vallaresso e i suoi colleghi si ostinarono fino all'ultimo giorno nella loro politica di rassegnazione agli eventi; il generale Condulmer affermava l'impossibilit? di difendere la laguna; Lodovico Manin si rammaricava di non poter neanche dormire la notte nel proprio letto. Tanto era diverso da un successivo Manin l'animo e l'ingegno dell'ultimo Doge della Repubblica!
Il 16 maggio 1797 il Senato faceva annunciare che il Governo cedeva i suoi poteri al Municipio. E il giorno dopo, il generale Baraguay-d'Hilliers occupava con quattromila francesi la piazza di San Marco. Erano i primi soldati stranieri che da quattordici secoli Venezia avesse veduti!
Questa fu l'opera del generale Bonaparte; che iniziava cos? quella politica di disprezzo delle nazioni e di mercato di popoli, a cui ubbid? in tutto il corso della sua meravigliosa dominazione.
So che la leggenda napoleonica trova degli evocatori anche in Italia, e degli evocatori dominati da simpatia. A questi io non posso unirmi. Ammiro il genio dell'uomo, come si ammira un vulcano in eruzione. Ma non posso avere nessuna simpatia pel despota, che, avendo nelle sue mani l'Italia, ha venduto la Repubblica di Venezia e ha fatto di Roma un dipartimento francese.
Non sempre dalle pagine storiche si possono trarre delle formole educative. Questa volta, penso, si pu?.
Il secolo nostro vedeva, al suo cominciare, radiati dalla carta politica dell'Italia due Stati, una repubblica e un principato. Settant'anni dopo, quella repubblica appariva, negli animi, pi? morta che mai; quel principato era divenuto, per affetto di popoli e per virt? di casi, il regno d'Italia.
Vuol dire, se non erro, che dalle catastrofi difficilmente risorgono i governi, quando ubbidiscono soltanto ad un programma cieco ed egoista di conservazione, come quello che prevaleva negli ultimi tempi della Repubblica di Venezia. Vuol dire che, malgrado le catastrofi, hanno avvenire splendido e sicuro quegli Stati, quei governi, quelle dinastie, che fondano il loro diritto di conservazione sopra un ideale, sia di completamenti nazionali, sia di progressi morali.
I MEDICI GRANDUCHI
CONFERENZA DI
ISIDORO DEL LUNGO.
Il pugnale di Lorenzino de' Medici, il cui sinistro bagliore rompeva la penombra lusingatrice all'ultima fra le turpi notti del ducale cugino Alessandro, non poteva rendere la libert? a Firenze. Quel giovinastro malinconico e motteggiatore sognava, cos? almeno lasci? scritto in pagine di frase eloquente, e come del resto gli altri regicidi di quella et? paganeggiante, sognava Bruto e l'opera sua: ma la voce di Bruto ? ascoltata ed efficace, quando si leva presso al cadavere d'una sposa intemerata, non voluta sopravvivere a s? medesima, frementi attorno cittadini che nella violazione del sacrario domestico sentono offesa la santit? della convivenza civile; si disperde e muore sulla pianura scellerata di Filippi, quando, divenuta nome vano la virt?, il grido di libert? non ? pi? l'eco della coscienza cittadina, e l'amor della patria non arma che il braccio d'un gruppo di congiurati. E poi, Lorenzino non era un Bruto autentico. Rampollato da uno de' minori rami Medicei, del quale accoglieva in s? l'ultimo fiato e le mancate ambizioni, aveva rimuginati nell'animo culto e pervertito quei medesimi elementi del classico Rinascimento, in mezzo alla cui acre fermentazione si era trasformata la Firenze repubblicana; e come pel ramo dominante, si venne in Cosimo vecchio, nel magnifico Lorenzo, in Lorenzo duca d'Urbino, elaborando il Cesare liberticida, cos? in questo diseredato, alle fattezze sue vere, che erano di un Medici inviso a Medici e invidente, si era sovrapposta la larva, non altro che la larva, di Bruto. Quando poi, spinta da cotesto uomo, giunse l'ora, Firenze, che non aveva pi? popolo dal giorno in cui l'Impero e la Chiesa le ebber dato un Senato, Firenze, da quei senatori -- uno de' quali si chiamava pur troppo Francesco Guicciardini, il Tacito mancato alla storia della destinata servit? -- avea docilmente ricevuto in un giovinetto di diciotto anni il suo Cesare.
Cesare, il duca Cosimo, per modo di dire; ma veramente, un proconsolo del vero Cesare ispano-austriaco, alle cui mani diventava cosa l'utopia romana medievale del Santo Impero. All'ombra di questo, i Signori insediatisi per vario modo sulle rovine del Comune, esercitavano, vicar? coronati, un principato, che, illegittimo d'origine, perch? nato di violenza o di frode contro le libert? popolari, riceveva degna sanzione nella investitura segnata dalla mano di un monarca, che di romano e d'italico non aveva se non il nome, poich? nel fatto era il continuatore della oppressione barbarica sul gentil sangue latino.
Tale eredit? raccoglieva Cosimo duca: bens? non come successione pacifica; non come il magnifico Lorenzo pot? sognare, se la vita gli fosse bastata, di trasmettere quella sua indefinita, non per? meno effettiva, autorit? ai suoi discendenti; invece, una successione viziata di tante eccezioni, quante venivano ad essere inchiuse in quest'ordine di fatti: la cacciata del 1494 e successivi diciotto anni di governo popolare, la restaurazione del 1512 violenta, la cacciata ultima del 27, l'assedio, la permanente ribellione dei fuorusciti, fra' quali ora riparava festeggiato l'uccisore del tiranno. Ma questo Cosimo giovinetto aveva avuto per padre Giovanni, il prode capitano delle Bande Nere, che la milizia italiana rimpiangeva tuttora; e per madre ed educatrice quella valente Maria Salviati, che accoglieva nell'animo, congiunti in salda tempera, gli spiriti di una popolana baldanzosa e d'una imperiosa matrona; degna e caratteristica madre di quello fra i Medici, sul capo del quale la popolare supremazia della predestinata famiglia doveva divenire principato e fregiarsi della corona granducale.
Cosimo I assume giovinetto il potere, calcando le superstiti resistenze repubblicane, e l'ambizione, a quelle alleata, della ultima famiglia di emuli contro la supremazia medicea, gli Strozzi. Legato di necessit? alla fortuna di Spagna, vuole e sa avere, pur sotto quegli auspic?, una politica propria, che gli consente i vantaggi della protezione imperiale, riserbandogli sufficiente libert? di atti, rispetto agli altri Stati d'Italia, alla Francia, alla Chiesa. Vendicata in Lorenzino la strage del duca Alessandro, e in Filippo Strozzi la resistenza armata al proprio insediamento, volge attorno, con sicurezza di vecchio signore, di sovrano nato, lo sguardo: e mentre prosegue la depressione e la dispersione de' ribelli, che, sotto quel flagello incessante, non si raccozzeranno mai pi?; mentre difende la novella sua porpora ducale dalle gelosie delle antiche prosapie principesche d'Italia, e contro l'ardito generoso tentativo dell'ultimo, nell'Italia medievale, idealista di libert? Francesco Burlamacchi; Cosimo ha, fin da principio, chiaro dinanzi a s? il suo intento, e verso quello mira con perseverante sagacia, risolutezza e, quand'occorra, violenza: e l'intento suo ? la formazione d'uno stato che abbracci tutta intera la Toscana. Da Montemurlo a Scannagallo, questa tenace sua volont? trionfa col soggiogamento della vigorosa Repubblica sopravvissuta alla fiorentina, pel quale gli ? consentito di scrivere sul granito della colonna di Santa Trinita "Cosimo de' Medici duca di Firenze e di Siena,,: la volont? di Cosimo, prima e dopo di quella vittoria, si afferma, a benefizio del paese e afforzamento del principato, mediante i provvedimenti agrari migliorativi specialmente del Valdarno pisano e della Valdichiana; si afferma con la difesa del litorale infestato dai Barbareschi, contro i quali la istituzione della milizia di Santo Stefano durer? non senza gloria della nazione; con gli stessi forzati pazientamenti, si afferma, verso la Spagna. Lo stato spagnuolo dei Presid?, nella Maremma senese, ? limitato, per ventura d'Italia, dall'assodata potenza dalla potenza di questo duca italiano. Non molto dissimile che con l'Impero, fu l'atteggiamento suo con la Chiesa: della quale secondava le gagliarde resistenze alla libert? religiosa, accettando in Firenze i Gesuiti; favorendovi l'Inquisizione, e vilmente gratificandola del capo di Piero Carnesecchi; sovvenendo le sanguinarie guerre di religione in Francia, anche per destreggiarsi con Caterina che sul trono cristianissimo aveva portato i rancori suoi di Medici, ultima del maggior ramo, contro lui Cosimo sopravvenuto e sormontato del ramo cadetto: -- ma tuttoci?, senza ch'egli disertasse la difesa delle civili giurisdizioni contro le usurpatrici improntitudini del f?ro ecclesiastico, e conservando quella indipendenza statuale ch'era stata pe' secoli tradizione della guelfa repubblica. Fu vittoria di questa sua politica, audace a un tempo e prudente, il serto di granduca di Toscana che a cinquantun anno, soli quattro prima che morisse, coron? per mano del Papa, con mala contentezza dell'Impero e dei principi italiani, le ambizioni di questo che solo fra essi tutti, in quanto fondatori di nuovo stato, poteva vantarsi di aver saputo applicare, sebbene per fini del tutto personali e dinastici, le sinistre teorie, a ben pi? alta meta rivolte, di Niccol? Machiavelli.
Coerentemente a questa sua azione verso il di fuori, l'amministrazione dello Stato fece egli servire al concetto di afforzarlo anche internamente e guarentirlo da pericoli di turbamento. Perci? represse i malefic? con fiere leggi; aiut? i commerci nei quali egli stesso continu?, da buon Medici, a trafficare con somme ingenti; ordin?, quanto meglio consentivano i tempi, l'economia pubblica, non senza aiutarne i provvedimenti con le ispirazioni della carit?. Nel favorire gli stud?, non pure rinnov? l'antica liberalit? medicea, ma consent? libert? di pensieri e di giudizi maggiore assai che non avrebbe tollerata nei fatti. L'Accademia Fiorentina, che, quasi rinfocolando i platonici entusiasmi del Rinascimento, denomin? sacra; l'Accademia del Disegno, il cui sorgere s'irradi? degli splendori del divino Michelangelo; la biblioteca Medicea Laurenziana; lo Studio di Pisa; sentirono il benefizio dell'opera sua. Palazzi, ville, loggie, colonne, statue, il fabbricato degli Ufizi superbo di greca toscanit?, furono sotto gli occhi del popolo il duraturo ricordo e l'auspicio della signoria novella. Ma di questa signoria il monumento pi? solenne, e pieno di ammonitrice severit? e di epica grandezza, addivenne il palagio che d'allora in poi, cessatagli la perpetua giovinezza della libert?, s'incominci? a chiamare il Palazzo Vecchio; il palagio, che da sede del magistrato popolare artigiano, diventava il Palazzo del Duca, e i suoi veroni giardino pensile della duchessa spagnuola, e calate dalla torre le campane che avevano per secoli risonata la voce del popolo, e le pareti del salone memore di fra Girolamo istoriate delle guerre asservitrici di Pisa e di Siena, e ai lati della porta fiammeggiante nel nome di Cristo re profanate le virili idealit? del David michelangiolesco con l'appaiarle all'eroismo brutale del grosso iddio Ercole. Poco appresso, sulla verde pendice che sovrasta all'oltrarno, sorgeva, vagheggiata dalla duchessa, sorgeva nel palagio di altri emuli vinti gi? da tempo, e si distendeva pei viali ariosteschi di Boboli, la vera e propria reggia fiorentina, che Cosimo mediante l'aereo corridoio da Pitti agli Ufizi congiungeva col Palazzo del Duca; nel modo stesso che altrove un despota feudale avrebbe, con qualche via sotterranea irta di orridi agguati, comunicato il proprio covo con la r?cca delle sue masnade: ma in Firenze quel corridoio valicante l'Arno, finiva, in volger breve di tempo e per quando duchi e granduchi sarebber trapassati alla storia, con l'aver congiunte due reggie dell'arte, e fatto un solo tesoro della pi? splendida galleria che vanti il mondo civile.
Nella vita privata e domestica, un? Cosimo quella che ormai pel secolo cortigiano era repubblicana rozzezza, con le qualit? buone o tristi di principe assoluto. Armatore e carezzatore di sicar?, non si tenne dal farsi omicida egli stesso. E invero, la vita degli uomini, o strumenti o vittime ch'e' se li assegnasse, fu a lui meno che nulla: nel che pur troppo quella rozzezza di medio evo agevolmente si conciliava con la ferocia, pi? o meno dissimulata, che l'istinto della conservazione e i clericali sofismi del diritto divino connaturavano alle tirannidi dinastiche. Dalla Eleonora di Toledo che, data a lui dalla Spagna, molto confer? a improntare di spagnuolo la novella corte, ebbe figliolanza, salvo uno, Ferdinando granduca, tutti, quanti essi furono, di tragiche sorti: Maria, morta giovinetta non si sa se d'amore o di veleno; Isabella Orsini e Lucrezia d'Este, la prima certamente uccisa dal marito; Garzia e Giovanni, mancati di precipitosa morte insieme con essa la madre; Pietro, perdutissimo uomo, pi? scherano che principe, assassino dell'altra Eleonora di Toledo che fu moglie sua sciagurata; Francesco successore, mal vissuto e finito in turpe abbandono di s? a grossolani abusi: per non dire degli altri due figliuoli che Cosimo ebbe, Giovanni da una Albizzi, e Virginia dal secondo senile matrimonio con una Martelli.
La figura di Cosimo esce da que' suoi trentasette anni di regno, luminosa di carattere, di genio politico, d'una forte, profonda, imperturbata coscienza di quanto egli principe doveva a s? e al paese ch'egli in s? impersonava: tenebrosa di propositi inflessibili, di bieche violente passioni, il cui impeto pure gli concedeva una feroce apatia al bene ed al male. Uomo terribile al fare; e a ci? che di fare si prefiggeva, e quasi si decretava, subordinatore di tutti i sentimenti, di tutti i princip?, di tutti i doveri. "Ho fiducia in Dio e nelle mie mani,,: nella quale specie di complicit? fra coteste mani ducali e quelle sante di Domeneddio si potrebbe, anche essendo teologi molto indulgenti, osservare qualche cosa. Forse ne' tempi da lui vissuti, per riuscire a quel ch'egli riusc?, non si poteva essere diversi da quel ch'egli fu.
Se diremo, che pel capo di Francesco la corona della Toscana trapass? da Cosimo al successore suo vero Ferdinando, avremo giudicato, in confronto del padre e del fratello, quel secondo granduca, degno allievo di corte iberica, duro ad ogni buona cosa, ad ogni cattiva mollissimo, il dammeno di tutto il principato mediceo, e che quasi in tutti gli atti della sua vita si mostr? men che principe e men che uomo: cosicch? ne' suoi tredici anni di regno, dal 1574 all'87, anche quello di buono, a che pose mano, gli si sviava nel male. Il che addimostr? egli nel resistere, ma con effetti disordinati e manchevoli, alle pretese giurisdizionali della Curia di Roma; e nel curare la prosperit? economica dello Stato, ma con leggi proibitive, tanto pi? condannabili in quanto poi vantaggiavano nel suo privato i commerci da lui esercitati con avidit? pi? che di mercatante; e nel favorire le arti, che si adornarono delle opere del Buontalenti, dell'Ammannato, di Gianbologna, del Bronzino, del Poccetti, spesso per? con intenti subordinati al vacuo fasto cortigianesco; e nel mostrarsi non alieno dalle lettere, ma alla protezione verso la Crusca frammettendo il favore per le censure o piuttosto fiorentine vendette del cavaliere Salviati in odio a Torquato Tasso; e appassionandosi per le scienze naturali, ma col perdersi dietro alle vanit?, e alle stolte cupidigie dell'alchimia. L'atto suo pi? efficacemente regio fu forse l'aver proseguito, come poi anche il successore Ferdinando, l'incremento del porto e citt? di Livorno: e l'atto pi? sciagurato, la tresca, mescolata a bestiali straviz? e saldata dall'assassinio del marito, la tresca con Bianca Cappello; per la quale fu intronato il malcostume e lo scandalo che serpeggiavano per entro tutta la famiglia, e quasi, a maniera mussulmana, convertita la reggia in alcova, finch? nel simultaneo disfarsi d'ambedue i turpi coniugi si adempi?, a distanza di poche ore dell'uno dall'altro, la giustizia vendicatrice dello strazio indegno sofferto dalla granduchessa legittima la virtuosa Giovanna d'Austria. Si pu? dubitare se sia giusto il paragone che si fa di Cosimo con Tiberio, e vedere invece maggior convenienza a lui nelle virt? e nei vizi d'Augusto: ma egli ? poi certo che in Francesco ebbe Firenze il suo Claudio.
Ed altres? certo, che Ferdinando I possa, fatta ragione dei termini di cos? diseguali proporzioni, essere avvicinato fra quei romani Cesari ai pi? equabilmente temperati. Se, a dinastia finita, Firenze avesse dovuto decretare pubblica onoranza monumentale ai veramente insigni fra i granduchi medicei, sarebbero egualmente le statue di soli due, Cosimo I sulla piazza della Signoria e Ferdinando I su quella dell'Annunziata, che ci sorgerebbero oggi, come ci stanno infatti e in Firenze e in Pisa, dinanzi: n? dello avere Ferdinando "coi metalli rapiti al fero Trace,,, com'egli scrisse in quel bronzo, monumentato non tanto, del resto, s? stesso, quanto le sue vittorie sui barbareschi, gli faremo noi carico, se pensiamo che decretate pi? tardi, quelle due statue le avremmo avute da ben altre mani che da quelle di Gianbologna.
I due successivi granducati, che occupano dal 1609 al 1670 la maggior parte del secolo; con la breve signoria di Cosimo II fino al 1621, con la reggenza della madre sua Cristina e della moglie Maria Maddalena d'Austria, e con la signoria, dal 27 in poi, lunga d'oltre quarant'anni, di Ferdinando II; segnano sollecitamente l'indebolirsi, se non ancora della dinastia, ma certo del governo cos? negli ordini amministrativi come nei politici. Nell'interno, dove l'opera de' ministri prevale troppo spesso a quella del Principe, languiscono lentamente i commerci e le industrie, deperisce l'agricoltura, i vincoli giurisdizionali sopraffanno l'economia pubblica e domestica, si snerva la famiglia e si gonfia il convento, l'antico vigore del braccio e dell'animo si strania in servigio d'altri paesi; scarsa e mal nutrita ? la fioritura delle lettere e delle arti, faticosa e contrastata quella della scienza che per virt? e martirio di pochi si afferma. Dal Cinque al Seicento, in Toscana, non ? solamente cambiata la forma del reggimento civile; si ? mutata la razza. Nelle relazioni esteriori, solidata ormai, per necessit? di cose e per salutare effetto delle altrui gelosie reciproche, la esistenza del granducato, non per? ? altrettanto scevra d'impedimenti la morale indipendenza del Principe: la tradizione politica di Ferdinando I, tenuta in piedi alla meglio fra l'imperversare delle ambizioni e delle guerre dinastiche, non vale ad assicurare a' suoi successori la libert? delle loro amicizie o alleanze. E quando, cessati all'Impero i pericoli sovrastanti da Enrico IV, s'imbastiscono, con quelle del doppio ducato di Monferrato e Mantova, le prime guerre di successione; e Carlo Emanuele I sospinge animosamente i destini di Casa Savoia; e la guerra dei Trent'anni sconvolge o sospende tutta l'Europa; la politica medicea ?, senz'arbitrio di scelta, vincolata pi? o meno strettamente a Spagna e Austria, e due fratelli di Ferdinando combattono in quella guerra ed uno vi muore. Il che non guadagn? del resto a Ferdinando II il ricambio dell'alleanza, allorch? egli ebbe a contrastare anche con le armi, e non senza onore, alle oltracotanze nepotistiche di papa Barberini; riserbandosi egli bens?, a sua volta, di starsene a suo agio, quando Spagna e Francia si accapigliarono sulla costa maremmana per la vecchia questione dello Stato dei Presidii. Tutto insieme, non mancarono a Ferdinando II qualit? di governo; ma inadeguate alla straordinaria e troppo vasta complicanza dei fatti contemporanei. Ed ? altres? vero che alcune deficienze, delle quali in quel periodo casa Medici pecc? verso s? stessa, non sono imputabili n? a lui n? al padre suo, ma alle Reggenti; come fu del non aver fatto a tempo valere il conchiuso matrimonio di lui con Vittoria, ultima Della Rovere, per attirare alla corona granducale il ducato d'Urbino; che sarebbe stato pi? vantaggioso, e troppo pi? bello, acquisto che non gli altri, i quali Ferdinando non trascur?, di Pontremoli e di Santa Fiora.
Ma storia pietosa storia pietosa ? quella di due fra questi depositi: commovente epilogo d'uno di quei malaccoppiamenti, lungo i quali la razza granducale medicea si logor? e si spense. Ferdinando che avrebbe dovuto essere terzo mediceo, e granduca invece del minor fratello Giangastone, ha, depositatogli a' piedi, in un vasetto di maiolica coperto d'un drappo nero, il cuore della principessa datagli in moglie Violante Beatrice di Baviera, morta, diciassett'anni dopo lui, nel 1731: virtuosa moglie, affettuosa, non bella, di marito libertino che mai non l'am?, mentr'essa essa "coniuge amantissima, impose per testamento, che il cuor suo, donatogli nelle nozze, gli fosse ricongiunto in morte e collocato nel sepolcro stesso di lui,,: con lui il cuore; e il corpo, cos? pure ella ingiungeva, riposasse nella chiesa delle monache di Santa Teresa in Borgo la Croce. E vi ripos? fino al 1810, quando, dissacrata la chiesa, il Governo francese cur? il trasporto di quelle ossa travagliate alla basilica Laurenziana. Restituita, in quella recognizione del 1857, al luogo da lei decretatosi, e che era ritornato ad essere sacro, col? rimane tuttora; non senza per? aver corso pericolo, dopo la soppressione ultima e l'adattamento dell'antico monastero a penitenziario, di trovarsi novamente in terreno dissacrato, e a dover tornare per la seconda volta ai sepolcri di quella famiglia nella cui reggia non le fu felice l'ingresso. La chiesa di Santa Teresa ? divenuta oratorio delle prigioni: e il corpo di "Violante Beatrice Gran Principessa di Toscana,, rimane tuttavia all'ombra del santuario: ma senza le preci, rimane, l? in quell'angolo lasciato a Dio nella trista casa del male, senza le preci delle sorelle in Cristo, che la povera bavarese volle e sper? risonassero perpetue sul suo capo infelice; mentre nel sotterraneo mediceo finir? di disfarsi quel ch'ella in vita ebbe dato a un Medici con auspic? s? tristi: il suo cuore buono di donna!
Ed ora torniamo, Signore gentili, fuori del buio dei sepolcri, alla luce e alla vita.
Dal Comune artigiano alla supremazia medicea, dai Medici cittadini ai Medici granduchi, da questi ai Lorenesi, Firenze nostra, la Firenze del sentimento e del pensiero, della scienza e dell'arte, tenne quasi in grembo una non piccola porzione delle sorti d'Italia; come nel tesoro della lingua ella custodiva il suggello del nostro esser nazione. Que' due principati, fatta pur ragione dei meriti o demeriti rispettivi di quelli undici granduchi, furono nella storia della nostra regione fenomeno passeggero: non era in essi Firenze, non la Toscana. E quando sulla torre di Palazzo Vecchio si spieg? al sole dei nuovi tempi, fra i tre sospirati colori, la Croce della sola monarchia nostra naturale e legittima, non fu soltanto l'unit? d'Italia che si affermava su quella bandiera, ma anche il diritto rivendicato della nostra gloriosa Repubblica. E rivendicato il diritto, Firenze ha saputo nobilmente adempire il dovere.
GLI AVVENTURIERI
CONFERENZA DI
Questa societ?, si direbbe, non pu? aver segreti per loro, deliberati come sono, d'approfittare di tutte le sue debolezze e falsit?, di tutti i suoi errori, di tutte le sue colpe, di tutti i suoi deliri; deliberati, come sono, di farla in barba a tutti i suoi sussieghi e a tutti i suoi formalismi, di romperla con tutte le sue convenienze e con tutti i suoi divieti tirannici.
Ma a che pro tanta artificiosit?, tante lustre, tanta prudenza di ciarle vuote, come crisalidi di cicale scoppiate, se, sbucando di sotterra, la masnada degli avventurieri, non astretta a nessun obbligo, a nessun dovere, a nessuna decenza, scompiglier?, ridendo sgangheratamente, tutta quella compassata galanteria, sveler? tutto senza ritegno, dir? senza regola e senza pudore tutto quello che si voleva tacere?
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