Read Ebook: Storia di Milano vol. 2 by Verri Pietro
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Ebook has 292 lines and 118359 words, and 6 pages
STORIA DI MILANO
DEL CONTE
PIETRO VERRI
COLLA CONTINUAZIONE
MILANO PRESSO IL LIBRAIO ERNESTO OLIVA Contrada de' Due Muri, N. 1044 1850
Mentre era Monza bloccata e abbandonata in preda alla violenza che usavano questi avanzi di un'armata collettizia, i canonici di San Giovanni di quel borgo avevano somma inquietudine che le rapine non si estendessero sopra del pregevolissimo tesoro della loro chiesa; il quale allora, siccome dissi, era valutato ventiseimila fiorini d'oro, oltre il pregio delle cose sacre antiche. Deputarono quindi quattro canonici del loro ceto, ai quali commisero di pensare a un sicuro nascondiglio, ed ivi riporlo. Fecero giurar loro un inviolabile secreto, da non rivelarsi se non in punto di morte. Poich? da essi fu eseguita la commissione, e il tesoro collocato, non si sapeva dove, il capitolo obblig? i quattro depositari del secreto a partirsene, e separatamente frattanto vivere altrove; acciocch? non potesse colle minacce, e fors'anco colle torture, costringersi alcun d'essi a parlare, e in potere di que' licenziosi non rimanesse alcun presso cui fosse il secreto. Pensare non si poteva pi? cautamente, eppure Monza perdette il tesoro. Uno de' quattro canonici, che aveva nome Aichino da Vercelli, stavasene in Piacenza, ove venne a morte, e pales? il secreto a frate Aicardo, arcivescovo di Milano. Da esso ne fu bentosto informato il vigilantissimo cardinale legato, Bertrando del Poggetto; il quale non perd? tempo, e incaric? Emerico, camerlingo di santa Chiesa, che trovavasi in Monza, di trasmettergli quel tesoro, siccome esegu? puntualmente, e indi fu trasportato in Avignone, dove dimorava il papa, d'onde, venti anni dopo, signoreggiando Luchino, venne restituito l'anno 1344. Io lascer? al chiarissimo signor canonico teologo don Antonio Francesco Frisi la cura di verificare se la restituzione siasi fatta senza alcuna perdita. Il valore dell'oro e delle gemme che oggid? ivi si mostrano, non giunge fors'anco a duemila fiorini d'oro. Egli, che con varie dissertazioni ba illustrate le antichit? di Monza, ci render? istrutti esattamente anche di ci? nella dissertazione che si ? proposto di pubblicare sul tesoro di quella chiesa.
Della improvvisa morte di Stefano Visconti varie sono le opinioni degli autori; alcuni attribuendola a veleno, altri ad eccesso di vino; tutti per? sono d'accordo nel riconoscerla improvvisa. Il mausoleo di Stefano vedesi nella Chiesa di sant'Eustorgio, nella cappella di san Tommaso d'Aquino; lavoro il quale probabilmente si fece verso la met? del secolo decimoquarto. Poich? allora, oltre l'incertezza nella quale trovavasi la signoria de' Visconti, anche l'interdetto avr? impedito questi onori funebri; molto pi? a Stefano Visconti, scomunicato, perch? figlio di Matteo, quantunque egli non abbia mai avuto parte nel governo dello Stato e nelle dispute col papa. Quel mausoleo merita d'esser osservato, per avere idea della magnificenza de' Visconti in que' tempi; e in quella chiesa medesima merita pi? d'ogni altra cosa osservazione il nobilissimo deposito di marmo cui stanno le reliquie di san Pietro martire; opera che ? delle prime e delle pi? antiche per servire d'epoca al risorgimento delle arti, e da cui si pu? conoscere quanto fossero gi? onorate e risorte verso la met? del suddetto secolo decimoquarto. Le figure e i bassorilievi sono di un'artista pisano, che travagli? con una maestria e grazia affatto insolita a' suoi tempi.
Azzone Visconti, unico figlio di Galeazzo I e di Beatrice d'Este, era diventato, siccome dissi, vicario imperiale, al prezzo di sessantamila fiorini d'oro. Ma poich? egli fu rappacificato col sommo pontefice , il titolo di vicario eragli di nessun uso; perch? dato da chi non poteva pi? considerarsi da Azzone come munito della facolt? di concederlo. Perci? egli ottenne la signoria di Milano dal consiglio generale della citt?, il giorno 14 marzo 1330; e cos? si ritrov? sovrano e principe senza contrasto alcuno. Azzone veramente meritava d'essere il primo della sua patria; e gi? mentre signoreggiava Galeazzo I, di lui padre, s'era guadagnato un nome distinto nella milizia, avendo egli acquistato borgo San Donnino, aiutato il Bonacossi a battere i Bolognesi, ed assistito Castruccio Antelminelli a battere i Fiorentini. Azzone in quest'incontro non dimentic? di far correre il palio sotto le mura di Firenze, per bilanciare il trattamento che i crocesegnati fiorentini avevano fatto, due anni prima, ai Milanesi. Allora fu che egli acquist? la stima e l'amicizia di Castruccio; il che poi fu cagione per cui egli e il padre e gli zii riacquistarono, siccome dissi, la libert?.
La gloria e la felicit? di Azzone erano un tormento atroce nell'animo di Lodovico, ossia Lodrisio Visconti, cugino in quarto grado del principe. Lodrisio era buon soldato; pareva che fosse trasfusa in lui l'anima orgogliosa e forte di Marco. Gi? vedemmo come Lodrisio fosse celato in sua casa da Matteo, nel giorno in cui scoppi? la sollevazione contro del re Enrico. Veduto pure abbiamo come Matteo gli avesse dato il comando di Bergamo. Morto che fu Matteo, nessun caso pi? si faceva di Lodrisio. Lo Scaligero, signore di Verona, aveva licenziata una di quelle compagnie militari che prendevano in quei tempi servizio indifferentemente; e che pronte erano ad uccidere e devastare dovunque, in favore di chi voleva pi? pagarle. Lodrisio assold? questa truppa, per tentare il colpo di scacciare il cugino, e collocarsi sul trono. Entr? nel milanese e fece guasto largamente; e coll'improvvisa intrusione, sbigott? e sorprese. Ma Lodrisio aveva preso a combattere contro di un principe che era buon soldato e che era amatissimo da tutti i sudditi. Nobili, popolari, tutti a gara corsero intorno di Azzone; cercando quanti erano capaci di portare armi, di combattere volontari per lui. Lodrisio si era attendato a Parabiago, e la sua armata era composta di duemila e cinquecento militi, ciascuno de' quali aveva due altri combattenti a cavallo di suo s?guito; in tutto settemila e cinquecento cavalli. Aveva di pi? un buon numero di fanti e di balestrieri; il che formava un corpo d'armata poderosa per quei tempi: uomini tutti veterani e di somma bravura nel mestiero delle armi. L'armata d'Azzone and? a raggiungere l'inimico, e talmente lo distrusse, che la giornata 21 febbraio 1339 ? notata ancora ai tempi nostri nei calendari del paese, e se ne celebra la commemorazione. Dopo lunghissimo conflitto, in cui Luchino Visconti rimase ferito, pi? di tremila uomini e settecento cavalli restaron morti sul campo; duemila e cento cavalli furono presi; e fra i combattenti ben pochi furono quei che restarono illesi e senza ferita. Tanto ostinata fu la battaglia in cui, per colmo della vittoria, Lodrisio istesso rimase prigioniero d'Azzone! Federico I poneva i prigionieri sulla torre contro Crema, gli faceva impiccare, o per clemenza, loro faceva cavar gli occhi. Federico II li conduceva nudi, legati a un palo, in trionfo, poi, trasportandoli nel regno di Napoli, li consegnava al carnefice. Azzone non incrudel? contro alcuno de' prigionieri; e Lodrisio istesso, che pure meritava la morte come un suddito ribelle, fu umanamente trasportato prigioniero a San Colombano. Questa battaglia famosa di Parabiago viene riferita da due nostri cronisti che allora vivevano; da Galvaneo Fiamma e da Bonincontro Morigia; i quali, per rendere pi? maraviglioso il loro racconto, asserirono d'essersi veduto da molti sant'Ambrogio che stara in alto, e con una sferza nelle mani andava combattendo per Azzone Visconti. La chiesa milanese per? non adott? tal visione, e unicamente attribu? alla protezione del santo l'esito fortunato della vittoria; anzi ora pi? nemmeno se ne celebra la messa. Al luogo della battaglia presso Parabiago s'innalz? una chiesa dedicata a sant'Ambrogio; la quale nel secolo passato fu distrutta, per edificare la pi? grandiosa che oggid? vi si osserva. Tutte le immagini di sant'Ambrogio che hanno la destra armata d'uno staffile, sono posteriori all'anno 1339, ossia all'epoca della battaglia di Parabiago. Si cominci?, sulla tradizione di questa visione, a rappresentare il saggio, prudente e mansuetissimo nostro pastore con volto furibondo, in atto di sferzare; e si ? portata l'indecenza al segno di rappresentarlo sopra di un cavallo, a corsa sfrenata, colla mitra e piviale, e la mano armata di flagello in atto di fugare un esercito, e schiacciare co' piedi del cavallo i soldati caduti a terra. Il volgo poi favoleggi? e crede tuttavia che ci? significhi la guerra di sant'Ambrogio cogli Ariani; coi quali il santo pastore non adoper? mai altre armi che la tolleranza, la carit?, l'esempio e le preghiere. Sarebbe cosa degna de' lumi di questo secolo, se nelle nuove immagini ritornassimo ad imitare le antiche; togliendo la ferocia colla quale calunniamo il pio pastore. Nelle monete milanesi da me vedute, le prime che portano quest'iracondia da pedagogo, sono posteriori di quindici anni alla battaglia; e le mie di Azzone, di Luchino e di Giovanni hanno sant'Ambrogio in atto di benedire. Il conte Giulini ne riferisce una di Luchino collo staffile, ch'ei dice tratta dal museo di Brera: ora non credo che vi si trovi quella moneta; almeno nel museo di Brera a me non ? accaduto di riscontrarla. Come mai questo fatto d'armi si rendesse tanto celebre, e come nei giorni fausti siasi tanto distinto il 21 febbraio, e nessuna menzione trovisi fatta del giorno, ben pi? memorando, 29 di maggio, in cui l'anno 1176 venne totalmente battuto Federico I dai Milanesi; potrebbe essere il soggetto d'un discorso. Nel primo caso un ribelle che non aveva sovranit? o Stati, fu sconfitto da un principe che dominava dieci citt?; nel secondo una povera citt?, che aveva sofferto i mali estremi, sconfisse un potentissimo imperatore che avea fatto tremare la Germania, l'Italia e la Polonia. Nel primo caso si combatte per ubbidire pi? ad Azzone che a Lodrisio; nel secondo si combatt? per esser liberi, o per essere schiavi. Pare certamente che meritasse celebrit? assai maggiore la giornata 29 di maggio. Ma la fortuna ha molta parte nel distribuire la celebrit?. ? vero che una nascente repubblica nel secolo duodecimo non aveva n? l'ambizione n? i mezzi che poteva avere un gran principe nel secolo decimoquarto, per tramandare ai posteri un'epoca gloriosa.
Sin qui ho rappresentato in compendio le buone qualit? di Luchino, ora l'imparzialit? storica mi obbliga a dirne ancora i vizi. Francesco Pusterla, nobile ed onorato cittadino non solo, ma uno dei pi? amabili, pi? ricchi e pi? splendidi signori di Milano, aveva in moglie la signora Margherita Visconti, parente del sovrano, donna di esimia grazia e bellezza. Luchino pens? di sedurla, come aveva fatto a Piacenza colla signora Bianchina Landi il di lui fratello Galeazzo I; ma trov? la fedelt? istessa e lo stesso amore verso lo sposo anche nella virtuosa Margherita. La tela era gi? ordita per far soffrire a Luchino il destino medesimo di Galeazzo; se non che il cauto e sospettoso Luchino fu pronto a scoprirla e lacerarla. Tutto era disposto per discacciare con una rivoluzione questo principe dal suo trono, e si dubita che i di lui nipoti Matteo, Barnab? e Galeazzo fossero complici. Ma Luchino prese talmente le sue misure, che Francesco Pusterla, fautor principale della congiura, appena ebbe tempo bastante di salvarsi colla fuga e di ricoverarsi presso del papa in Avignone. Fin qui si vede un vizio di questo principe; ma in seguito si manifesta un'iniquit? bassa ed atroce. Non risparmi? spesa o cura Luchino per attorniare in Avignone istesso il Pusterla d'insidie e di consiglieri, i quali, con simulata amicizia, lo animassero a ritornare nell'Italia, persuadendogli che presso dei Pisani avrebbe trovato un sicurissimo asilo, e si sarebbe collocato pi? vicino alla patria per rientrarvi ad ogni opportunit?. Furono tanto moltiplicati i consigli, e tanto apparenti le ragioni, che alla fine il Pusterla si arrese, s'imbarc?, e per mare si trasfer? a Pisa; ove arrestato venne dai Pisani, che temevano le armi di Luchino, e a lui fu consegnato. Francesco Pusterla, trasportato a Milano, termin? la sua vita coll'ultimo supplicio. Un gran numero de' suoi amici diedero al popolo lo stesso spettacolo; e quello che rese ancora pi? crudele la tragedia, si fu che la nobile e virtuosa Margherita dovette, al paro degli altri, finire nelle mani del carnefice. Il luogo in cui si esegu? la carneficina fu al Broletto Nuovo, cio? alla piazza de' Mercanti, dalla parte ove alloggiava il podest?, ed ove vedesi la loggia di marmo delle scuole palatine collo sporto in fuori, da dove solennemente il giudice pronunziava le sentenze di morte. I nobili venivano ivi su quella piazza abbandonati all'esecuzione: all'incontro i plebei erano trasportati fuori di porta Vigentina al luogo del supplicio. L'industriosa sagacit? adoperata da Luchino per cogliere nell'insidia il Pusterla, potrebbe essere una lode per uno sbirro o un bargello, ma ? una macchia che disonora un sovrano. La crudelt? poi di far condannare all'orrore del supplicio una donna amata, in pena della sua virt?, ? una macchia ancora pi? obbrobriosa e vile. Luchino esili? dallo Stato i tre suoi nipoti, figli di Stefano, cio? Matteo, Barnab? e Galeazzo. La ragione di Stato forse giustificava un tal rigore, singolarmente dopo i sospetti di loro complicit? nella congiura dell'infelice Pusterla. Pretendono alcuni che Galeazzo, il nipote, fosse anche troppo intimamente unito alla signora Isabella Fieschi, moglie di Luchino, e che il bambino ch'ella partor?, ebbe il nome di Luchino Novello, per questa cagione insieme colla madre vedova passasse poi a Genova, e non entrasse mai nella serie de' nostri principi. Avr? avute quel sovrano le sue buone ragioni per tenersi lontani i nipoti; ma le insidie colle quali incessantemente li perseguitava nei paesi lontani, la miseria e la povert? nella quale gemevano sempre raminghi, sconosciuti ed erranti , son prove d'un animo niente generoso, ma anzi vendicativo e crudele. Il Corio ci dice come Luchino <
dice l'Azario.
Appena l'arcivescovo Giovanni rimase solo alla testa dello Stato, ognuno dovette conoscere che la passata sua non curanza del governo certamente non nasceva da mancanza di talento per governare, n? da indifferenza per la gloria, n? da insensibilit? per il pubblico bene. Il virtuoso principe cominci? il suo regno col far la pace coi vicini; col conte di Savoia, coi Gonzaghi, col marchese di Monferrato e coi Genovesi, posti prima in armi per le invasioni che Luchino aveva fatte, dilatando lo Stato proprio a danno loro. Assicuratosi cos? d'un pacifico dominio, la natura e l'indole sua benefica lo portarono a terminare la miseria degli esuli nipoti. Matteo, Barnab? e Galeazzo furono richiamati dall'esilio ed accolti come a principi si conveniva. Diede Regina della Scala in moglie a Barnab?, e Bianca di Savoia a Galeazzo; e festeggi? quelle nozze illustri con pompe ed allegrezze pubbliche; fra le quali vi furono dei tornei d'una nuova foggia, cio? colle selle alte, usanza che Barnab? aveva insegnata, seguendo la costumanza da lui imparata nella Francia. Oltre lo stato signorile e lieto al quale fece passare i nipoti, quel magnanimo arcivescovo si risovvenne di Lodrisio Visconti, che, dopo la battaglia di Parabiago, da pi? di dieci anni languiva in carcere, e lo rese libero. L'anima grande e generosa di Giovanni non dava luogo a quelle diffidenze e sospetti che dominavano nel cuore di Luchino. Appena un anno era passato da che Giovanni reggeva lo Stato, esteso sopra diciassette citt?, quale glielo aveva lasciato Luchino, che egli, senza umano sangue e senza pericolo, fece un insigne acquisto; e col mezzo di duecentomila fiorini d'oro sborsati a Giovanni Pepoli, compr? il dominio della citt? di Bologna l'anno 1350. Prevedeva per? il sovrano arcivescovo che questa importantissima addizione non poteva accadere senza forti contrasti, singolarmente per parte del papa, il quale, sebbene domiciliato in Avignone, sempre stava vigilante sull'Italia; e se tollerava che il Pepoli, piccolo principe, e che facilmente poteva superarsi, dominasse Bologna, non cos? tollerante doveva essere poi, passando quella a incorporarsi nella potente dominazione dei Visconti. In fatti Clemente VI mand? un ordine all'arcivescovo Giovanni, acciocch?, entro lo spazio di quaranta giorni, dovesse restituire Bologna alla Santa Sede; minacciando in caso di contumacia di volerlo scomunicare, insieme ai nipoti suoi quanti erano, e porre all'interdetto tutti i popoli del suo dominio. Giovanni non si cambi? per questo, n? pens? di abbandonare Bologna; onde il giorno 21 di maggio dell'anno 1351 il papa scomunic? l'arcivescovo e i tre nipoti Matteo, Barnab? e Galeazzo, e pose l'interdetto su tutte le diciotto citt? dei Visconti. Il Corio ci racconta come <
Bologna erasi acquistata senza pericolo e senza sangue; e senza sangue o pericolo l'accorto Giovanni acquist? un'altra non meno cospicua citt?, cio? Genova, l'anno 1353, ed ecco come. Erano i Genovesi impegnati sventuratamente a guerreggiare contro de' Veneziani, collegati col re Pietro di Aragona. Erano stati malamente battuti da quelle forze preponderanti i Genovesi. Le loro navi erano quasi distrutte; e Genova si trovava bloccata dalla parte del mare; e per terra ancora, dalla parte di ponente, custodita dagli Spagnuoli; per modo che non le rimaneva altra via per ottenere i viveri, che gi? mancavano, se non dalle terre possedute da Giovanni arcivescovo. Proib? questi che n? da Alessandria, n? da Tortona, n? da Piacenza, n? dalla Lunigiana, n? da veruna altra parte del suo Stato venisse portato alcun alimento ai Genovesi; e cos?, anzi che perire o cader nelle mani de' loro nemici, quei cittadini presero il solo partito che loro rimaneva offerendo a Giovanni la signoria della loro citt?. Quest'offerta venne accettata ben presto, e il nuovo principe, nel mese di ottobre del 1353, prendendo solennemente possesso di quella illustre citt?; v'introdusse al momento l'abbondanza e la gioia. Cos? aggiunse Giovanni al suo Stato la decimanona citt?, e divent? padrone di un porto di mare. Ci? fatto sped? quel principe a Venezia degli ambasciatori, acciocch? cessassero i Veneziani di offendere Genova, divenuta cosa sua. I Veneziani, i quali gi? dovevano vedere con sospetto la potenza preponderante del Visconti, non vollero ascoltare discorso di pace. Giovanni fece allestire una poderosa armata navale, la quale lasci? il porto di Genova, spiegando al vento del mare, per la prima volta, le insegne della vipera; e seppe cos? bene farsi rispettare, che bruci? Parenzo, citt? marittima dell'Istria soggette ai Veneziani, indi batt? la flotta veneziana presso Modone, sulle costiere della Grecia. Quando, ventisei anni prima, Giovanni Visconti trovavasi coi fratelli nel carcere orrendo di Monza, chi avrebbe mai potuto prevedere ch'ei dovesse un giorno rappresentare sul teatro del mondo il personaggio che vi sostenne poi! Chi mai avrebbe potuto accostarsi all'orecchio di Matteo, mentre vivea da povero privato in Nogarola, e dirgli: Tu sarai sovrano, e da qui a quarant'anni i figli tuoi domineranno un principato che potr? nominarsi un regno: Bologna, Parma, Piacenza, Cremona, Crema, Bergamo, Brescia, Como, Milano, Lodi, Pavia, Vigevano, Novara, Alessandria, Tortona, Vercelli, Asti, Genova e Bobbio; dicianove citt?! L'Ente Supremo regge gli avvenimenti. Il saggio impara ad adorarne i decreti; si tiene modesto nella prospera, e fermo nell'avversa fortuna.
poi, dopo di aver descritti i fiumi del vasto di lui Stato, passa a fargli dono d'una coppa d'oro co' versi seguenti:
Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano e di altre diciotto citt?, fra le quali Genova e Bologna, cess? di vivere il giorno 5 di ottobre dell'anno 1354, dell'et? di sessantaquattro anni, dopo d'aver regnato sei anni appena; poich? il tempo in cui comparve ch'ei correggesse con Luchino non pu? contarsi, tanto poco s'immischi? egli allora negli affari dello Stato. Giovanni fu un principe umano, benefico, giusto, liberale, fermo e d'animo signorile, e merita un luogo fra i buoni principi vicino ad Azzone. Il tumulo di lui si vede nel coro della Metropolitana.
Milano, nei ventiquattr'anni nei quali regnarono Azzone, Luchino e Giovanni, i primi che apertamente si dichiararono sovrani, battendo moneta col loro nome, godette la pace, e prov? alfine i beni dell'ordine sociale e della civile sicurezza. I Milanesi abbandonarono il mestiere dell'armi, e si rivolsero a pi? miti e pi? industriosi pensieri, alla mercatura cio?, alla coltivazione delle arti e delle terre. La popolazione e la ricchezza crebbero in proporzione, e qualche coltura appresero gl'ingegni, onde questi oggetti meritano dilucidazione.
Finalmente vorrei poter dare un'idea della coltura nostra verso quell'et?, ma le notizie non erano copiose in nessuna parte dell'Europa. Avemmo un medico che compose le pandette della medicina, dedicate al re di Napoli Roberto. Questi si chiamava Matteo Silvatico, milanese, che scrisse l'anno 1317. Quel libro si stamp? a Venezia l'anno 1498. Un altro milanese ebbe nome presso dei giusperiti, cio? Signorollo Omodeo, le opere del quale non sono ignote ai forensi. Ma di bella letteratura non ne abbiamo vestigio alcuno. Uno dei pi? antichi poeti italiani fu Pietro da Bescap?, nostro milanese. Egli scrisse i suoi versi nell'anno 1264, nel quale pretese di tradurre in poesia la storia del Vecchio testamento. L'autore cos? comincia:
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Il fine di questo canto, poema o diceria, qualunque si voglia chiamare, ? ancora pi? rozzo del principio, e cos? termina:
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Costoro scrissero prima che Francesco Petrarca dimorasse in Milano; ma certo Galliano scriveva l'anno 1391; e ne conservano l'antico MS. i monaci di Sant'Ambrogio. Costui non lesse mai le dolci e sensibili rime del Petrarca; n? pose mai il piede nel suo Linterno; cos? questo rozzo scrittore termin? la sua cantilena:
Queste sono le sole reliquie che siano da quei tempi trapassate alla cognizione nostra; e ben a ragione il signor abate Paolo Frisi, che ci vantiamo d'aver per concittadino, e che mi onora colla sua amicizia, nell'Elogio del Cavalieri, sul proposito della venuta a Milano del Petrarca e dello stato delle lettere milanesi in que' tempi, cos? s'esprime: <>
Nella successione de' Visconti non si vede seguita una legge costante. Matteo I aveva quattro figli: dopo la di lui morte rest? unico signore Galeazzo I, a cui successe Azzone di lui figlio. Pareva adunque il principato ereditarsi dal primogenito. Ma dopo di Azzone, morto senza figli, la signoria pass? a' due fratelli Luchino e Giovanni, senza che i figli di Stefano vi avessero parte; i quali pure avrebbero dovuto possedere l'eredit? paterna, se lo Stato fosse un bene divisibile. In fatti, morto Giovanni, i tre soli discendenti di Matteo riconosciuti legittimi, cio? Matteo, Barnab? e Galeazzo, figli di Stefano, diventarono padroni e si divisero lo Stato. Non vi erano in que' tempi idee chiare di gius pubblico. Il principato era un podere, non una dignit? instituita per il bene dello Stato. Tutto il bene che un sovrano faceva al suo popolo non era considerato allora come il pi? sacro dovere adempiuto, ma bens? come un'accidentale beneficenza d'un animo generoso. Terminata che fu la vita di Giovanni, la divisione si fece di comune accordo fra i tre fratelli. A Matteo toccarono le citt? che s'inoltrano nell'Italia, a Barnab? la provincia che s'accosta a Venezia, ed a Galeazzo toccarono le terre che ora sono appartenenti al Piemonte. Milano e Genova rimasero indivise sotto la comune dominazione. Matteo cos? ebbe in sua separata porzione Bobbio, Lodi, Piacenza, Parma e Bologna. Barnab? ebbe Cremona, Crema, Bergamo e Brescia. Toccarono a Galeazzo Pavia, Alessandria, Tortona, Novara, Vigevano, Asti, Vercelli; e Como, che rimaneva come isolata, fa pure assegnata a Galeazzo. Con tal modo altro non mancava se non la dissensione o diffidenza per distruggere una signoria ragguardevolissima. Ma nelle cose umane comunemente accade che n? si ottenga tutto il bene che ragionevolmente si poteva sperare, n? si soffrano tutt'i mali che con ragione si dovevano prevedere; e talvolta le pi? scomposte ed assurde organizzazioni di sistemi, le quali pareva che dovessero rovinare uno Stato, si sono ridotte ad effetto, senza che per ci? siane accaduto il danno che compariva inevitabile: poich? nell'esecuzione, gl'interessi degli uomini che vi si adoperano, essendo quelli d'evitare la rovina, rimediano e correggono l'imperfezione del sistema. Cos? lo Stato si conserv?, crebbe anzi, come vedremo, e pot? lusingarsi il successore de' tre fratelli d'essere dichiarato re d'Italia; e forse lo sarebbe stato, se la morte non troncava il filo della di lui ambizione.
Carlo IV, dopo di essere stato incoronato anche in Roma, se ne ritorn? al suo paese; ma non per questo cessarono gli emuli principi d'Italia di eccitare per ogni modo l'animo di quell'augusto a deprimere i Visconti. I maneggi degli Estensi, dei Gonzaghi e del marchese di Monferrato indussero Marquardo, vescovo d'Ausburgo, il quale stavasene in Pisa col carattere di vicario imperiale, a citare i fratelli Visconti per il giorno 11 di ottobre 1356 a comparire dinanzi al suo tribunale e discolparsi d'aver conferite con arrogata facolt? le dignit? ecclesiastiche, di aver tessute all'imperatore delle insidie a Pisa, e di aver fatte chiudere le porte delle citt?, impedendovi l'ingresso al medesimo imperatore nel suo ritorno da Roma. I due fratelli Visconti non pensarono nemmeno a questo viaggio. Il vescovo Marquardo radun? le forze degli emuli: e si pose alla testa di un corpo d'armati rispettabile, incamminandosi verso Milano. S'impadron? di varie citt?; poich? i Visconti o non avevano preveduta una tale invasione, ovvero avevano negligentate le difese. La stessa campagna di Milano venne esposta alle prede ed ai guasti de' nemici. Si postarono gl'imperiali ne' contorni di Casorate; e i due fratelli finalmente, radunate le loro forze, ne confidarono il comando al vecchio Lodrisio Visconti; a quel Lodrisio che, diciasette anni prima, colle armi alla mano, venne preso a Parabiago, allorch? cercava di togliere la sovranit? ad Azzone. Il valore di Lodrisio e la sua perizia produssero la vittoria del giorno 14 di novembre l'anno 1356. I nemici vennero disfatti a Casorate; il vescovo Marquardo d'Ausburgo, loro comandante, rimase prigioniero, fu condotto decorosamente a Milano, e dai Visconti fu poi licenziato, onde ritornossene nella Germania. Lodrisio Visconti ricompens? per tal modo la vita che gli lasci? Azzone, e la libert? che gli diede Giovanni, principi illuminati, i quali conobbero che un generoso perdono ci affeziona pi? di qualunque altro beneficio un'anima nobilmente energica. I Visconti, signori quasi tutti assai valorosi, affrontarono intrepidamente i pericoli prima che reggessero lo Stato; seduti poi che erano sul trono, ben rare volte si esponevano; ma affidavano anzi ai loro figli o cugini ed altri estranei il comando. La sconfitta di Casorate per? non tolse la speranza ai collegati, dai quali non si risparmiavano maneggi. Il papa non vedeva punto con indifferenza il gran potere de' Visconti, e soprattutto da che Bologna era un oggetto delle loro pretensioni; il che ottenendo essi, era aperta loro la strada a nuovi acquisti sulla Romagna. Ai Genovesi non era men gravosa questa estera dominazione sulla loro citt?, in prima libera, e gi? illustre per imprese marittime e per ricchezza. Il papa, i Genovesi, gli Estensi, il marchese di Monferrato e i Gonzaghi facevano causa comune. Gi? Bologna, siccome accennai, si era staccata. Genova fece lo stesso; e il giorno 17 di novembre 1356 si dichiar? libera, e creossi un doge, che fu Simone Boccanegra. Dopo ci?, seguirono varii piccoli fatti d'armi sul Milanese; ma le cose de' fratelli Visconti non prendevano buona piega; onde furono costretti, cedendo Asti e Pavia al marchese di Monferrato, di cercare la pace, la quale fu stabilita il giorno 8 di giugno dell'anno 1358.
Per lo spazio di sette anni ancora, dopo la morte di Galeazzo II, continu? ad essere separato in due parti lo Stato de' Visconti, reggendo l'eredit? del padre il conte di Virt?, e continuando a regnare Barnab? sulla sua porzione. Il Gazata nella sua Cronaca ci racconta che Barnab? aveva comprata la citt? di Reggio da Feltrino Gonzaga, collo sborso di cinquantamila fiorini d'oro; e che per diventar padrone di alcune rocche e castelli di quel distretto, egli s'impadron? di Francesco Fogliano; ed avutolo nelle sue mani, gli fece intimare che o doveva indurre Guido Fogliano, di lui fratello, a consegnare a Barnab? le fortezze che egli possedeva, ovvero questi sicuramente lo faceva impiccare, quantunque tra il Fogliano e Barnab? non vi fosse mai stata altercazione alcuna. Il povero Francesco Fogliano fece ogni sforzo per indurre colle sue lettere il fratello a riscattarlo. Guido credette che non si sarebbe mai imbrattato il Visconti con una cos? obbrobriosa macchia; ma s'ingann?, perch? Barnab? fece sospendere Francesco alle forche, sulle mura di Reggio, il giorno 7 dicembre 1372. Il conte di Virt? aveva questo terribile collega. Il conte era giovine di venticinque anni. Egli s'era pi? volte presentato al nemico con valore, allorquando i collegati invasero lo Stato; ma non aveva dato saggio nemmeno d'avere i talenti d'un buon comandante. Aveva egli stretti vincoli di sangue colla casa di Francia, colla casa di Savoia, colla casa d'Inghilterra: ma Barnab? non era meno appoggiato ad illustri e potenti parentele. Barnab? ebbe tanti figli, che se ne contarono trentadue, de' quali quindici legittimi, nati dalla signora Beatrice della Scala, da altri chiamata Regina della Scala. Barnab? aveva date le sue figlie in matrimonio a potenti signori. La casa d'Austria, la casa di Baviera, il re di Cipro, la casa di Wirtemberg, la casa di Turingia, i Gonzaghi avevano delle principesse figlie di Barnab?. La principessa che entr? nella gloriosissima casa d'Austria si chiamava Verde Visconti. Ella spos? il duca Leopoldo. Questo principe, giovine di quattordici anni, venne a Milano l'anno 1365, ed il giorno 23 di febbraio celebr? le sue nozze nel palazzo del signor Barnab? Visconti, presso San Giovanni in Conca. Barnab? diede in dote alla figlia centomila fiorini. Indi andarono gli sposi a Vienna; e da queste nozze discende l'augusto sovrano che ora, per nostra felicit?, domina su questo Stato. Chi bramasse pi? minute notizie di queste memorabili nozze vegga il nostro conte Giulini, che ne ha pubblicati i monumenti sinora inediti.
Appena il colpo era fatto, il conte, alla testa degli armati, entr? nella citt?, e senza veruna opposizione se ne impadron?, fra gli evviva della plebe, alla quale permise tosto di saccheggiare i palazzi di Barnab? e de' suoi figli, e la plebe di pi? saccheggi? le dogane e la gabella del sale, che era alla piazza de' Mercanti. Nella fortezza di porla Romana vi fu ritrovato tanto argento per caricarne sei carri, ed in oro vi si contarono settecentomila fiorini. Quindi si radun? un consiglio generale della citt?, il quale tosto confer? il dominio al conte di Virt?, e, dopo lui, a' suoi discendenti maschi legittimi, in quel modo a lui pi? fosse piaciuto. Con tal decreto vennero esclusi i discendenti di Barnab?: e in quel giorno Giovanni Galeazzo Visconti, conte di Virt?, divent? sovrano di ventuna citt?, e sono Reggio, Parma, Piacenza, Cremona, Brescia, Lodi, Bergamo, Crema, Milano, Como, Vigevano, Pavia, Bobbio, Alessandria, Valenza, Novara, Tortona, Vercelli, Alba, Asti e Casale. Questo colpo, eseguito con tanto vigore, e preparato colla pi? cupa e simulata ipocrisia, conveniva in qualche modo farlo comparire onesto e suggerito dall'assoluta necessit?; e a tal fine ordin? il conte che si formassero i processi contro di Barnab?. L'autore degli Annali milanesi ce ne ha trasmesso l'epilogo. Le atrocit? che ivi si leggono imputate a Barnab?, sono enormi; e dopo una sanguinosa enumerazione di esse, vedesi incolpato Barnab? d'avere tese insidie alla vita del nipote; d'essere uno stregone, che colle fattucchierie avesse rese sterili le nozze del conte di Virt?; e che finalmente Gian Galeazzo fosse stato costretto a far prigionieri lo zio ed i cognati, perch? essi l'avevano in quel momento assalito a tradimento. Non saprei se sotto il governo di uomini di quell'indole vi fosse nelle magistrature un uomo virtuoso; ma se pur vi era, quello certamente non sar? stato trascelto per formare il processo. Barnab? era uomo feroce, violento, coraggioso, franco, ma non dissimulato, n? capace di tradire o di insidiare. Egli era nemico di ogni arte e di ogni scienza, crudele, sanguinario, d'una religione inconseguente, poich?, insultando il papa, oltraggiando i vescovi, calpestando gli ecclesiastici, donava ai conventi generosamente i beni che rapacemente confiscava ai cittadini. Ma il conte era suo nipote; il conte era suo genero; giaceva le notti colla sua moglie Caterina Visconti, nel tempo in cui ordiva di togliere la sovranit? alla di lei famiglia, mentre teneva prigione suo padre, lasciava errare raminghi e bisognosi i di lei fratelli, che pure avevano tanta ragione per succedere nella signoria di Barnab?, quanta ne aveva il conte per essere succeduto nella signoria a Galeazzo. Di tanti figli che aveva Barnab?, malgrado le potenti e illustri loro aderenze, non ve ne fu pi? alcuno che potesse comparir nemmeno a disputare la usurpata porzione del padre, trattone Estore che era figlio illegittimo, il quale pot? fare ventisette anni dopo un momentaneo contrasto al duca Filippo Maria, come vedremo. La potenza acquistata in un istante dal conte di Virt? fiacc? l'animo de' suoi sudditi; l'ardimento della sua ambizione, spiegata come un improvviso lampo, unita alla profondissima simulazione, rese attoniti gli altri principi; giacch? gli oggetti pi? ne soprafanno, quanto pi? grandeggiano annebbiati. I popoli, oppressi dal duro e violento giogo sofferto, accolsero con allegrezza il cambiamento. La virt? e la giustizia non ebbero parte alcuna in questa rivoluzione, in cui si vide accadere un avvenimento di cui sono frequenti gli esempi; cio? che, posti due colleghi di egual condizione al governo, colui che avr? le passioni pi? spiegate, dovr? soccombere a colui che sapr? coprire colla timidezza l'ambizione, siccome ancora accadde dell'impero del mondo fra Ottavio ed Antonio.
All'ambizione artificiosa del conte di Virt? erano poche ventuna citt? suddite. Egli pensava a nulla meno che al regno d'Italia: e i primi sguardi ch'egli gett? furono dalla parte del Veronese e del Padovano, per estendere sino all'Adriatico il suo Stato. Egli, siccome dissi, possedeva gi? Crema, Bergamo e Brescia. Antonio della Scala era signore di Verona e di Vicenza. Francesco da Carrara era signore di Padova. Da gran tempo questi due piccoli sovrani avevano delle discordie, e si facevano delle reciproche ostilit?. Il conte di Virt?, simulando zelo per la concordia e per il bene di que' due principi, entr? mediatore per accomodare le loro controversie; e mentre l'una parte e l'altra stavano facendo le loro proposizioni, il conte lusing? il Carrarese, signore di Padova, proponendogli un'alleanza invece del progettato accordo. L'alleanza avea per fine la distruzione dello Scaligero. Il piano era che il Carrara lo dovesse attaccare dalla parte di Vicenza, mentre il conte di Virt? farebbe lo stesso dalla parte di Brescia. L'esito non poteva essere dubbio, poich? Antonio della Scala, posto cos? di mezzo, non poteva avere scampo. Il frutto era grande, mentre s'offeriva a Francesco Carrara di lasciargli Vicenza, e il conte restava pago di prendere per s? Verona. Non poteva essere l'orecchio del Carrarese adescato da una proposizione pi? seducente di questa, e incautamente la accett?. La passione antica che aveva contro lo Scaligero, lo acciec? a segno di lusingarsi, che il conte sarebbe stato un alleato fedele a lui, poich? fosse reso ancora pi? forte coll'acquisto del Veronese, e diventato confinante col Padovano! Appena concertata la cosa, il conte mediatore immediatamente pubblic? un manifesto diretto allo Scaligero, diffidandolo che tre giorni dopo quella data veniva a muovergli guerra. Fu invaso il Veronese dalla milizia del Visconti da una parte, e del Carrara dall'altra. Alcuni malcontenti veronesi, che avevano secreta corrispondenza con Antonio Bevilacqua, comandante delle truppe del conte, aprirono l'ingresso; e il Bevilacqua, fuoruscito veronese e nemico di Antonio della Scala, rese Verona suddita del conte di Virt?; alle armi di cui si sottomisero i borghi e le terre tutte del Veronese non solo, ma del Vicentino e la stessa citt? di Vicenza. Cos? termin? la signoria degli Scaligeri l'anno 1387. La conquista fatta dal conte, della citt? di Vicenza, era una violazione dei patti. Contra di essa reclamava il signore di Padova Francesco da Carrara. Il conte rispondeva che egli teneva Vicenza, non come cosa spettante a lui, ma come l'eredit? di Caterina sua moglie, figlia della regina Scaligera, moglie di Barnab?. Il Gatari, nella Storia di Padova, ci dice che il conte di Virt?, per maneggi secreti, corruppe i favoriti di Francesco da Carrara, e fece che gli consigliassero di alzar ben bene la voce, e declamare contro la perfidia del conte, facendogli sperare che, in tal modo, e il consiglio del conte e la di lui stessa moglie, l'avrebbero certamente indotto a consegnargli Vicenza, anzi che portare la patente macchia d'avere violata la fede; supponendosi a ci? indotti dalla lusinga che, intimorito, il Carrara non avrebbe osato di farne pubblica doglianza. Anche da tale insidia fu c?lto quell'incauto principe; e il conte ebbe il pretesto di vendicare le ingiurie proferite da Francesco Carrara; e non solamente ritenne Vicenza, ma invase il Padovano, s'impadron? di Padova istessa, fece prigioniere l'infelice Francesco da Carrara, e trasportollo nella torre di Monza, ove termin? i suoi giorni. Io ho delle monete del conte di Virt?, signore di Padova, e sono gi? pubblicate altre monete del medesimo come signore di Verona, le quali monete vennero coniate probabilmente dalla zecca di Milano o nell'anno 1387, ovvero poco dopo. Da questi fatti compare chiaramente il carattere di Giovanni Galeazzo. Gli editti che pubblicava erano composti con frasi che indicavano religione, piet?, moderazione. S'invocava Dio; se gli rendeva omaggio di ogni prospero successo; si fabbricava il Duomo; si fondava la gran Certosa presso Pavia; ma la morale non era punto rispettata. Le animosit? e le contese fra gli Scaligeri ed i Carraresi ebbero tal fine. E per lo pi? cos? accadde che i piccioli nemici combattono colla chimerica lusinga di soggiogare i loro emuli; e un terzo si presenta, il quale tranquillamente profitta delle loro spoglie; giugnendo poi i rivali rovinati a conoscere, ma tardi, che assai miglior partito ? quello di tollerarsi scambievolmente, e rimanere concordi ed uniti, per ottenere stabilit? di fortuna, e tranquillo e decoroso godimento di essa.
Dalla met? del secolo decimoquarto sino alla met? del secolo decimoquinto, per lo spazio di cento anni, la storia di Milano presenta come una figura colossale mal connessa, di cui ora si raccozzano ed ora cadono i pezzi; che per? in nessuna parte mostra vaghezza ed eleganza, ma rappresenta una figura truce e deforme. Tale fu l'indole di que' tempi e di que' governi, nei quali della virt? appena si conosceva il nome; sotto a principi che considerarono gl'interessi loro, non solamente staccati, ma opposti a quelli del loro popolo, che opprimevano e saccheggiavano anzi che governarlo. Ad onta per? dei vizi de' sovrani, Milano s'and? arricchendo; si anim? l'agricoltura, si aument? sempre la popolazione, l'industria si moltiplic?. Perch? la capitale d'un vasto Impero, collocata in mezzo d'una fertile pianura, e comandata da un sovrano , non pu? a meno che non cresca. Morto il duca Giovanni Galeazzo, cadde la gran mole dello Stato sotto il governo di due minori. Giovanni Maria, primogenito e nuovo duca, aveva appena quattordici anni, e dieci e non pi? ne aveva Filippo conte di Pavia, di lui fratello minore. Sarebbe stato difficile in que' tempi il conservare illesa la dominazione, quand'anche il ducato di Milano fosse stato un principato antico, consolidato dalla opinione de' popoli, e la duchessa vedova tutrice fosse stata d'animo bastantemente elevato ed energico per sostenere il peso del governo. Ma oltre i mali inseparabili dalla minorit?, lo Stato era un recente aggregato di conquiste, di usurpazioni, di compre; e nessun altro titolo v'era per convincere i popoli della legittimit? della nuova dominazione, che la forza. Un diploma comprato da un debole e deposto imperatore, le male arti, le insidie e la pi? vergognosa mancanza di fede, questi erano i titoli che doveva far valere la vedova duchessa Caterina, donna avvilita d'animo; perch?, per lo spazio di ventidue anni, costretta a soffocare colla dissimulazione il rammarico della rovina di suo padre e de' suoi fratelli, oppressi da quello stesso uomo ch'ella vedeasi giacere al suo fianco la notte, e al quale doveva simulare stima ed affetto. L'orrore del suo misero stato aveva ridotta la vedova principessa affatto incapace di reggere alla testa di una tale sovranit?; ed all'animo abbattuto dalla lunga ed uniforme sofferenza de' mali, s'aggiugneva un colpo d'apoplessia gi? sofferto, che la rendeva ancora pi? inetta agli affari. I due giovani principi non avevano alcun prossimo congiunto che potesse reggere lo Stato; non un Consiglio appoggiato alla costituzione. La loro rovina era inevitabile. La reggenza cominci? coll'unione di alcuni generali e di alcuni cortigiani, i quali pretesero di formare il Consiglio, presso cui stava la sovranit?, sotto il nome del duca Giovanni Maria. Questa unione d'uomini potenti e mal assortiti, di cui ciascuno null'altro aveva per fine che la propria fortuna, e null'altro aspettava se non l'occasione per approfittarsi della giovent? d'un principe per il quale nessuno aveva alcuno zelo; questa unione, dico, colle interne rivalit?, e col disordine ed interno scompigliamento, diede in certo qual modo il segnale ai sudditi d'essere giunto il momento opportuno per liberarsi dal giogo che era stato aggravato da Barnab?, da Galeazzo, e recentemente dal primo duca; la dispotica dominazione de' quali non era durata abbastanza per far dimenticare l'antica libert?, se pure ? possibile che si dimentichi mai ogni qualvolta si soffre l'abuso del potere sovrano. I Rossi fecero ribellare Parma; Ugo Cavalcab? s'impadron? di Cremona; Giorgio Benzone si fece arbitro di Crema; Brescia se la prese a reggere Giovanni Bosone; Franchino Rusca s'eresse sovrano in Como; Giovanni da Vignate si pose a signoreggiare Lodi; e frattanto i generali del morto duca, che avevano combattuto per lui, ma non sotto di lui, niente affezionati alla sua memoria, andavano saccheggiando lo Stato e occupandone le citt? per proprio loro conto; come fece Facino Cane, che si rese padrone di Piacenza, di Tortona, di Alessandria, di Novara e di altre terre. Le armi de' collegati scacciarono i Visconti dalla Romagna, e cos? Bologna, Perugia ed Assisi vennero cedute al papa il giorno 25 agosto nell'anno 1405. Siena anch'essa scosse il giogo; e poco dopo si dovettero cedere ai Veneziani Verona, Vicenza, Feltro, Belluno e Bassano l'anno 1404, frattanto che il marchese di Monferrato s'impadroniva di Casale e di Vercelli. In tale stato erano le cose, che, due anni dopo la morte del duca Giovanni Galeazzo , i suoi figli tremavano, il primo rinchiuso in Milano colla duchessa sua madre nel palazzo di corte, custodito come un ostaggio in mezzo di una citt? che, divisa in partiti, tumultuava ogni giorno; e l'altro appiattato nel castello di Pavia e mal sicuro, perch? nella citt? pi? di lui potevano i Beccaria: ed ecco il fine di tanta ipocrisia, di tanti maneggi, di tanta simulazione, e di tante violazioni di fede!
Alcuni de' nostri scrittori hanno preteso di farci credere che il duca Giovanni Maria coltivasse le belle lettere; se ci? mai fosse, ridonderebbe un tal fatto piuttosto in disonore delle lettere che in lode di quell'anima perversa; perch? proverebbe che si pu? anche da un cuore insensibile gustare la venust? e la grazia del Petrarca, il che per? sembra una contraddizione. So che la filosofia, le lettere, la musica, la pittura, le arti tutte hanno i loro ipocriti, come gli ha la virt?, come gli ha la religione; ma un giovine dissoluto che si diverte a far lacerare gli uomini dai cani, non ? sulla strada d'alcuna ipocrisia.
Sarebbe un problema da esaminarsi tranquillamente da un uomo ragionevole e non ambizioso, se veramente Matteo Visconti abbia procurato un bene a s? stesso e alla sua casa innalzandosi al trono. Lo stesso Matteo I mor? di rammarico per gl'interdetti e le scomuniche; Galeazzo I, suo figlio, cess? di vivere per i lunghi patimenti sofferti nel carcere; Stefano per? di veleno; Marco venne gettato da una finestra; Luchino fu avvelenato dalla moglie; Matteo II fu ucciso violentemente dai fratelli; Barnab? mor? in carcere a Trezzo di veleno; Giovanni Maria fu trucidato. ? una gran massa di sventure cotesta, accadute ad una famiglia in meno di cento anni! Nella condizione privata ? ben difficile che ne accada altrettanto. Azzone e Giovanni furono i due soli principi felici, perch? sensibili, benefici e virtuosi, ma fu breve il loro regno. Egli ? vero per? che questo seguito di miseri casi nacque per i vizi di que' sovrani; quando nella serie di cinque secoli dell'augusta casa d'Austria non troveremo veruna traccia de' mali che in meno d'un secolo sopportarono i Visconti.
Le avventure del conte Carmagnola sono interessanti. Il momento in cui sconsigliatamente volle il duca disgustare quel benemerito generale, fu quello in cui la fortuna dello Stato si cambi?; e laddove sino a quell'ora sempre la vittoria, le conquiste o le dedizioni avevano contrassegnati gli anni del suo regno, da quel punto cominci? a contrassegnarli colle inquietudini, colle sconfitte, colle umiliazioni e colle perdite. Appena era partito il conte, che il duca stese la mano confiscatrice su tutti i poderi suoi, e si riprese su tutti i doni che gli aveva fatti. Tese varie insidie per averlo prigione; ma non gli riuscirono. Tent? il veleno, e certo Giovanni Liprandi, milanese, che aveva per moglie una Visconti, provossi a Treviso di avvelenare il conte: il che verificato, perd? poi la testa a Venezia. A tali infami azioni s'abbassava il duca per consiglio di Zanino Riccio, e d'altri vigliacchi ed astrologi, pari a lui, mentre in vece con qualche onesto partito nulla sarebbe riuscito pi? facile che l'accomodarsi col Carmagnola, gi? affezionatissimo nel suo cuore ai Visconti, siccome accade sempre di esserlo, quando si sono fatti insigni beneficii, pei quali amiamo il beneficato come cosa nostra. Il conte, pagato con tanta ingratitudine, insidiato in cos? bassa ed atroce maniera, conobbe non rimanergli pi? altro partito che l'operare da nemico. Egli adunque consigli? ai Veneziani di legarsi coi Fiorentini. Temevano i primi di perdere Verona e Vicenza, occupate recentemente sotto l'infame governo dell'ultimo duca. I Fiorentini vedevano gi? nuovamente innoltrata nella Romagna quella sovranit? dei Visconti, che ventiquattro anni prima aveva esposto all'estremo pericolo la loro repubblica; quindi si unirono coi Veneziani. Il re Alfonso di Napoli si un? colle due repubbliche; ed il conte Francesco Carmagnola, l'anno 1426, ricevette solennemente dalle mani del doge di Venezia lo stendardo di San Marco, e venne dalla repubblica dichiarato capitano generale dell'armata terrestre, coll'assegnamento, cospicuo per quei tempi, di dodicimila annui fiorini, ossia ducati d'oro. Ci? fatto, il Carmagnola si port? sul bresciano. Egli conosceva quel paese, poich? sei anni prima vi aveva guerreggiato per riacquistarlo al duca e scacciarne i Malatesti. Era celebre la battaglia ch'ei vinse l'anno 1420, il giorno 8 di ottobre; ora si trattava di acquistar Brescia ai Veneziani. Il conte ne scacci? l'armi del duca. Il comandante che Filippo Maria aveva posto alla testa delle sue armi invece del Carmagnola, era Guido Torello; uomo che non pareggiava i talenti del Carmagnola. Sotto del Torello combattevano Niccol? Piccinino e Francesco Sforza, uomini di merito; ma il primo di questi due si sdegnava d'essere sotto il comando d'un generale ch'egli non credeva superiore a s? stesso; l'altro era ancor giovine, focoso ed inesperto. Oltre ci?, passavano fra tutti e tre quelle rivalit? che, tendendo a farsi reciprocamente scomparire, rovinavano il sovrano e lo Stato, del quale ad essi era consegnata la difesa. Presa Brescia, era da temersi che la guerra non s'avanzasse nel centro del dominio; e perci? dovette il duca richiamare le truppe dalla Romagna, e abbandonare per sempre Forl?, Imola e Faenza, che appena da due anni erano sue. Il conte Francesco Carmagnola diede una sconfitta ai ducali il giorno 11 ottobre 1427. Quasi tutti i generali del duca, e quasi tutti i suoi soldati rimasero prigionieri. Oltre i gi? nominati erano nell'esercito ducale altri generali, cio? il conte di Cunio Alberico da Barbiano, Cristoforo Lavello, Carlo Malatesta ed Angelo della Pergola; uomini che tutti avevano buon nome nella guerra. Conseguenza ne venne che Bergamo pass? in potere dei Veneziani l'anno 1428. Cos? Zanino Riccio fece perdere al duca ed a' suoi successori non solo Vicenza e Verona, che si dovevano ricuperare, ma Brescia e Bergamo, e quasi tutta le terra ferma che possedette poi ed attualmente possede la repubblica di Venezia. Se il conte Carmagnola fosse stato d'animo costante, il duca Filippo Maria sarebbe rimaso con Zanino Riccio; anzi sarebbe stato abbandonato ben presto da quell'istesso infingardo, che non amava se non la fortuna del duca. Gi? Filippo Maria aveva dovuto cedere al duca di Savoia Vercelli, per contentarlo e non soffrire invasione anche da quella parte. Il marchese di Monferrato, i Fiorentini, i Veneziani ben presto gli toglievano il restante de' suoi Stati. Il Carmagnola, dopo la presa insigne della armata ducale, non aveva pi? contrasto: e Cremona, Crema, Lodi rimanevano, se lo voleva, in potere dei Veneziani. Ma quando vide il conte posto il duca a mal partito, cess? di far la guerra con vigore; anzi non serv? pi? con buona fede i Veneziani. O foss'egli allontanato, per una ripugnanza dell'animo, dal portare cos? la distruzione ad un principe dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori e sotto del quale aveva acquistata la celebrit?; ovvero fosse egli ancora nella fiducia che, umiliato il duca, venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici che avevano ardito di nuocergli, cio? i vilissimi cortigiani suoi, o qualunque ne fosse il motivo, il conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare, disarmati bens?, ma liberi, al duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11 ottobre 1427. Il duca in pochi giorni arm? di nuovo e rimont? questi militi, ed ? molto degno di osservazione questo fatto, cio? che due soli artefici di Milano in pochi giorni gli diedero le armature per quattromila cavalli e duemila fanti, sapendosi che in quei tempi gli uomini si coprivano tutti di ferro; il che prova quanto si ? accennato al capitolo duodecimo sulla grandiosa manifattura d'usberghi, d'elmi e d'ogni lavoro di ferro che v'era in Milano. Anche i quattromila cavalli ben tosto li ritrov? il duca dalle razze del suo Stato; e cos? il Carmagnola poco dopo ebbe nuovamente di fronte quella stessa armata che aveva avuta inerme in suo potere. Il s?guito delle sue imprese sempre pi? fece palese il suo animo poich? trascur? tutte le occasioni, e, lentamente progredendo, lasci? sempre tempo ai ducali di sostenersi. Insomma giunse a tale evidenza la cattiva fede del conte Francesco Carmagnola, che venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia, il giorno 5 di maggio dell'anno 1432, come reo di alto tradimento. Tale fu il fine che fece il conte Francesco; uomo che non aveva i vincoli sacri della patria e della famiglia, i quali ammorzarono la vendetta nell'animo di Coriolano; uomo che sarebbe un eroe, se non avesse macchiato l'ultimo atto della sua vita colla infedelt?.
Il regno di Filippo Maria dur? per trentacinque anni di guerra quasi continua. Giammai i trattati di pace furono tanto insignificanti come allora; poich? il giorno dopo si violavano se conveniva, e la fede pubblica si consider? una parola senza alcuna idea. Non bo voluto fare la storia di molte marziali vicende troppo uniformi, la minuta notizia delle quali sarebbe un peso inutilissimo alla memoria, poich? nessun lume somministrerebbe, o per meglio conoscere lo stato de' tempi, o per l'arte militare medesima. Avrei pur bramato di trovare qualche germe almeno di virt? in que' tempi; ma l'ho cercato invano. Le fisionomie degli uomini ch'ebbero parte negli affari pubblici, mi si presentarono tutte bieche ed odiose. La fede e la probit? erano celate allora nell'oscurit? di qualche famiglia, e nel magazzino dei negozianti. La virt? nasconde e copre la sua esistenza nell'asilo della privata fortuna per essere sicura contro i colpi del vizio, quand'egli ? armato e trionfante come in que' tempi. Non pu? incolparsi a malignit? di messer Niccol? Macchiavello s'egli ha dato per norma ai principi una pessima morale. Egli era un pittore che fedelmente ci rappresentava gli oggetti quali erano allora; la colpa sua ? quella di non aver osato di esaminare la fallacia della politica che generalmente si praticava: io ne do la colpa alla mente, piuttosto che al cuore di quell'autore. Per vedere anche in piccolo la fede di que' tempi, aggiungo un fatto solo. Gi? dissi che il duca, l'anno 1419, aveva comprato da Gabrino Fondulo la citt? di Cremona, collo sborso di trentacinquemila ducati. Gabrino si era per? riservato per s? Castelleone, luogo forte del Cremonese, ove tranquillamente da sei anni dimorava. Volle il duca possedere anche quella fortezza, la quale difficilmente avrebbe superata colle armi. Fu scelto Oldrado Lampugnano, amico di Gabrino, per tradirlo; e vi si prest? benissimo Oldrado. Si port? egli sul Cremonese con alcuni armati, mostrando commissione di visitare le terre del duca; e, fatto posa avanti Castelleone, sped? un uomo entro della fortezza, chiedendo un maniscalco per ferrare un cavallo, e frattanto lo incaric? di salutare il suo amico Gabrino, e dirgli che verrebbe ad abbracciarlo, se la fretta di proseguire il cammino non glielo vietasse. Gabrino Fondulo, disarmato e senza alcun sospetto, immediatamente usc? per salutare anche per un momento il creduto amico. Oldrado Lampugnano lo arrest? e lo tradusse a Milano: la famiglia del Fondulo fu posta nei ferri; il suo tesoro, nel quale si trov? anche una prodigiosa quantit? di perle, fu confiscato; e Gabrino fu decapitato in Milano il giorno 21 di febbraio del 1428. Due anni dopo Oldrado Lampugnano, che aveva sacrificato la virt? e l'onore per ottenere la grazia del duca, perdette anche quella, e rimase colla esecrazione di s? medesimo.
Il conte Francesco Sforza, appena ebbe l'annunzio della morte del duca, s'incammin? diligentemente verso Milano, abbandonando la Romagna, ove si trovava. I Veneziani erano nella circostanza la pi? favorevole per impadronirsi del milanese. Lodi, Piacenza ed altre citt? desideravano di vivere sotto la repubblica veneta. Francesco Sforza vedeva che i Veneziani erano i pi? potenti ad invadere e conquistare questo ducato, ch'egli aveva in mente di far suo, sebbene le circostanze non gli fossero per anco favorevoli a segno di palesarlo. Le forze dei Veneti gi? si trovavano nel milanese prima che il duca morisse. Il che accennai nel capitolo antecedente. E come pochi mesi prima s'erano essi presentati sotto le mura di Milano, e avevano devastato il monte di Brianza, cos? v'era ragionevole motivo per cui i Milanesi temessero l'imminente pericolo. Appena venti giorni erano trascorsi dopo la morte di Filippo Maria, che la repubblica milanese dovette eleggere un comandante capace di opporsi alle forze venete e salvarla; e questa scelta cadde nel conte Francesco Sforza, dichiarato capitano delle nostre armate. I denari dei Milanesi erano necessari per mantenere un corpo numeroso di soldati, e ai Milanesi era necessario un gran capitano, la cui mente e valore, opportunamente dirigendo la forza, li preservassero dall'invasione dei Veneti. Questi bisogni vicendevolmente unirono da principio lo Sforza e i repubblicani nascenti, se pure il nome di repubblica poteva convenire a una illegale adunanza, che governava senza autorit? e senza principii.
Anco un'altra legge ho riscontrata in quei tempi, la quale merita d'essere ricordata, perch? ci fa conoscere alcuni ripieghi politici, i quali volgarmente si credono d'invenzione di questi ultimi tempi, non erano punto sconosciuti negli Stati d'Italia alla met? del secolo decimoquinto, cio? le pubbliche lotterie. Nel capitolo nono accennai come sino dall'anno 1240 s'era posta in uso da noi la circolazione della carta in luogo del denaro, e a tal proposito si facessero leggi assai opportune; ora dall'editto del 9 gennaio 1448 verr? assicurato il lettore dell'antichit? delle lotterie, ossia tontine, di quei tributi spontanei in somma ai quali si adescano i cittadini colla lusinga di arricchirli. Colle note potr? il lettore dalla sorgente istessa conoscere da quai principii fosse regolato quel governo, a qual grado fosse la coltura, a quale elevazione si trovasse la politica; n? sulla asserzione mera dello storico dovr? persuadersi della infelicit? di quei tempi.
Agnese del Maino s'era ricoverata nella rocca di Pavia, dove ella ebbe influenza bastante per rendere preponderante il partito di coloro che scelsero per loro principe il conte Francesco genero di lei. Se il conte avesse accettata questa sovranit? mentre era allo stipendio de' Milanesi, senza l'assenso loro, avrebbe mancato al dovere. Pavia era, ed ? una parte dello Stato di Milano vicina ed importante. Il conte Francesco per? fece conoscere che, attesa l'antica avversione, non sarebbe stato mai possibile di ottenere una sincera sommessione di Pavia ai Milanesi, che frattanto ella si offriva al duca di Savoia, ovvero ai Veneziani; e sarebbe stata impresa difficile lo sloggiarli da quella citt? munita, e pericoloso il lasciarveli: che non era possibile sbrattare il Po dalle navi venete, e sgombrarne lo Stato esposto alle invasioni, se non possedendo Pavia, ove trovavansi gli attrezzi per quella navigazione. Insomma persuase che l'interesse di Milano era dover Pavia cadere piuttosto nelle sue mani che di alcun altro principe. Per tal modo, coll'assenso dei Milanesi, il conte Francesco divent? signore di Pavia; e cos? due citt? principali del ducato, Cremona e Pavia, una per dote, l'altra per dedizione, furono del conte Francesco.
Non s? tosto ebbe il conte acquistata Pavia, che s'innoltr? colle sue armi sotto Piacenza, occupata da' Veneziani, e se ne impadron? il giorno 16 dicembre 1447. Cos?, appena trascorsi quattro mesi dalla morte del duca, il conte s'era gi? reso padrone del corso del Po; padronanza la quale indirettamente lo rendeva arbitro di Milano, che non ha altro sale per i bisogni della vita, se non di mare, che conseguentemente deve navigare il Po. Frattanto i Francesi, che stavano al presidio di Asti, tentarono di occupare Alessandria e Tortona; ma vennero rispinti da Bartolomeo Coleoni, spedito loro incontro dal conte Francesco. Cos?, al terminare dell'anno in cui era morto Filippo Maria, il conte possedeva gi? una importante porzione del ducato.
I repubblicani, o, per nominarli con maggior propriet?, gli oligarchi milanesi conoscevano la loro situazione e il pericolo imminente di ricadere sotto la dominazione d'un uomo solo, cosa generalmente detestata; per ci? si rivolse secretamente a fare proposizioni di accomodamento coi Veneziani: anzi si progett? una confederazione fra le due repubbliche per la difesa reciproca della loro libert? e signorie, offerendo a' Veneziani il dominio di Lodi, oltre quei di Bergamo e Brescia, che le armi venete avevano gi? conquistato sotto il regno dell'ultimo duca. Niente poteva accadere di peggio per attraversare la fortuna del conte. Quindi i partigiani di lui che trovavansi in Milano, mossero la plebe, rappresentando che non v'era pi? sicurezza se a venti miglia di Milano si collocavano i Veneziani; che quanto meno ce lo saremmo aspettato, una sorpresa rendeva Milano suddita di San Marco e citt? provinciale e squallida; che non v'era pi? una sola notte tranquilla pe' Milanesi, se una cos? vergognosa cessione si facesse. La plebaglia, mossa da ci?, andava per le strade urlando: guerra, guerra contro de' Veneziani! e cos? vennero forzati gli usurpatori del governo, i capitani e difensori a lasciarne ogni pensiero in disparte. Frattanto il conte Francesco, sempre vittorioso, con molti e piccoli fatti d'arme avendo fatto sloggiare i Veneti dalle rive del Po, stava risoluto di movere sotto Brescia, e toglierla ai Veneti, che da ventidue anni la possedevano per conquista fattane dal Carmagnola, siccome vedemmo nel capitolo precedente. Presa una volta Brescia, non potevano pi? i Veneziani conservare Bergamo n? Lodi, n? altra parte delle loro conquiste. I nostri repubblicani allora cominciarono pi? che mai a temere, forse pi? de' nemici, il loro capitano generale; il quale se riusciva, come era probabile, di rendersi padrone di Brescia, l'avrebbe acquistata per se medesimo, siccome aveva fatto di Piacenza; e per tal modo cerchiando Milano, l'avrebbe costretta, non che a rendersi, a impetrare la di lui dominazione. Si spedirono adunque ordini al conte comandandogli che non altrimenti s'innoltrasse a Brescia, ma si portasse a Caravaggio e facesse sloggiare i Veneti da quel borgo. Il conte ubbid?. Nella sua armata eravi il Piccinino, generale emulo e nemico del conte: le operazioni militari o s'eseguirono lentamente, ovvero venivano attraversate: si lasciava penuriare il campo dello Sforza d'ogni sorta di foraggi e di viveri: l'armata veneziana che stavagli di fronte, era dodicimila e cinquecento cavalli, oltre i fantaccini. Con tanti disavvantaggi egli venne a una giornata, che rese memorabile il 14 settembre 1448; poich? nei contorni di Mozzanica, venne il conte colto dai Veneziani talmente all'improvviso, che nemmeno ebbe tempo di armarsi compiutamente; onde si pose a comandare e diresse l'azione mancandogli i bracciali. L'insidiosa emulazione fu quella che rese inoperosi i drappelli di osservazione che egli aveva postati verso del nemico, il quale perci? pot? cadere con sorpresa sull'armata del conte. V'erano, siccome dissi, il Piccinino ed altri sotto i di lui ordini, generale di cattivo animo. Il conte, mezzo disarmato, espose pi? volte s? stesso al pi? forte della mischia, riconducendo i fuggitivi all'attacco, animando colla voce e coll'esempio i soldati; insomma tanto gloriosa fu quella giornata pel conte Francesco, che interamente disfece i Veneti, e tanto furono i prigionieri che ei fece, che fu costretto a congedargli per mancanza di vettovaglia. Vennero portate in Milano con una specie di trionfo le insegne di San Marco tolte ai nemici; e Luigi Bosso e Pietro Cotta, che erano al campo dello Sforza commissari, entrarono in Milano colle medesime, conducendo i pi? illustri prigionieri, fra i quali un Dandolo ed un Rangone.
Questa vittoria di Mozzanica dava sempre maggior motivo di temere lo Sforza; e il Piccinino, generale di credito, nemico del conte, cercava di accrescere il popolar timore, fors'anco sulla speranza di acquistare per s? medesimo poi quella sovranit? che ora faceva comparire esosa ed esecranda. Giorgio Lampugnano era, fra i pi? accreditati Milanesi, quegli che non si stancava di tenere animata la plebe contro del conte, rammentando i mali sofferti sotto i duchi, le gravezze imposte da' principi, le violenze esercitate dai cortigiani e favoriti. Ricordava la demolizione del castello di Milano, come un motivo per cui il conte avrebbe esercitata la vendetta su quanti vi ebbero parte; anzi come una cagione di nuovi aggravi, obbligandoci a riedificarlo con dispendio e scorno, ponendoci in bocca il freno, dopo che ci avesse fatti sudare nella fucina a formarlo. Proponeva il conte l'impresa di Brescia, la quale, dopo un tal fatto, era senza difesa, e cos? ripigliare ai Veneti quella parte del ducato che s'erano presa; ma non lo vollero i capitani e difensori della libert?. Tutte le proposizioni dello Sforza erano contraddette; i soccorsi d'ogni specie ritardati; le militari disposizioni attraversate. Il Piccinino primeggiava. Carlo Gonzaga aveva in Milano un poderoso partito, ed adocchiava il trono. Con Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, primarii fautori della libert?, si univa Vitaliano Borromeo, signore di somma significazione, perch?, oltre la grandiosa opulenza del casato, possedeva in dominio quasi tutte le fortezze del lago Maggiore. Questi tre rivali partiti si univano contro l'imminente fortuna del conte; il quale, posto in tale condizione, ascolt? le proposizioni della repubblica veneta, e segretamente stipul? un trattato per cui egli si obblig? a restituire, non solamente quel che aveva invaso nel Bresciano e Bergamasco, ma Crema e il suo contado ai Veneziani; e che i Veneziani, in compenso, a fine di ottenere al conte il dominio di tutte le altre citt? che aveva possedute Filippo Maria, gli avrebbero stipendiati quattromila cavalli e duemila fanti, sborsandogli tredicimila fiorini d'oro al mese, sin tanto ch'egli non si fosse impadronito di Milano. Poich? il trattato fu concluso, il conte lo pubblic? nel suo esercito. S? tosto che i Milanesi ebbero notizia di tale accordo, concluso fra il conte Sforza e i Veneziani, spedirono al di lui campo alcuni primarii cittadini, cercando con modi rispettosi di giustificare le cose passate, anzi offrendo ogni soddisfazione, salva sempre la repubblica. Ma il conte aveva gi? presa palesemente la sua determinazione; e, senza mistero espose ad essi le ragioni ch'egli asseriva competere e a Bianca Maria, di lui moglie, e a s? medesimo e a' figli suoi, per la successione nel dominio di Filippo Maria, suo suocero: s? essere determinato a farle valere ad ogni costo. Che se i Milanesi, deposta la chimerica pretensione di erigersi in repubblica, di buon grado riconoscevano lui per sovrano, egli avrebbe avuta cura della salvezza e felicit? di ciascuno; che se all'incontro si fossero ostinati a sostenere una illusione di libert?, che, in sostanza, era una rovinosa oligarchia, doveano attribuire a loro stessi i mali che avrebbero sofferti, obbligandolo, suo malgrado, ad usare contro di essi la forza. Furono con tal risposta congedati i legali Giacomo Cusano, Giorgio Lampugnano e Pietro Cotta; e, mentre con tristezza s'incamminavano a recare questo poco favorevole riscontro alla loro patria, vennero dileggiati non solo, ma insultati e svaligiati dalla licenza militare di alcuni soldati sforzeschi. Intese ci? con isdegno il conte, e, prontamente rintracciati i malvagi soldati, convinti del delitto, immantinente furono impiccati; la roba al momento venne spedita ai legati, a' quali di pi? aggiunse il conte altri regali, per riparare quanto poteva il danno sofferto da essi. La nobile generosit? del conte Francesco sorprese i legati.
I Veneziani spedirono le loro truppe a servire come ausiliarie al conte. La repubblica fiorentina, poich? vide svelato il mistero, e apertamente inalberate le pretensioni del conte, inviogli i suoi legati, promettendogli amicizia. Il conte Francesco, reso per tal modo sicuro dalla parte di Venezia, immediatamente si mosse a circondare sempre pi? Milano. Da Pavia spinse le forze al castello d'Abbiategrasso, e lo costrinse ben tosto alla resa. ? memorabile il fatto che, mentre il conte Francesco conteneva i suoi, vietando loro il sacco della terra, a tradimento dalle mura vennegli scoppiata un'archibugiata. Gli Sforzeschi correvano per vendicarsi. Il conte illeso, placidamente imped? che si facesse male a veruno. Fattosi padrone d'Abbiategrasso, prese a sviare l'acqua del Naviglio, e per tal modo rese inoperosi i mulini di Milano. S'innoltr? a Novara, e se ne impadron?. I Tortonesi spontaneamente si diedero al conte. Vigevano pure spontaneamente lo volle per suo sovrano, discacciando i Savoiardi che l'occupavano; Alessandria fece lo stesso; Parma si assoggett?. Mentre le cose erano a tal segno, i Milanesi scelsero per loro comandante Carlo Gonzaga. Allora il Piccinino, che forse aveva adocchiata la signoria di Milano, vedendosi preferito il marchese Gonzaga, anzi che servire sotto di lui, pass? ad offrirsi al conte Francesco Sforza. Egli era stato sempre, siccome dissi, emulo non solo, ma nemico e atroce nemico del conte; ci? nondimeno il conte lo accett? per suo generale, e gli accord? un onorevole stipendio. Due uomini volgarmente zelanti, certo Barile e certo Frasco, andavano animando il conte perch? lo facesse uccidere, o per lo meno lo imprigionasse come irreconciliabile nemico, che, per necessit?, simulava in quel momento, e che poi, al primo lampo di speranza di nuocergli, se gli avrebbe nuovamente avventato contro. Il conte Francesco rispose loro che vorrebbe piuttosto morire, anzi che violare la fede verso chi s'era abbandonato al suo potere. Infatti il Piccinino desert? poi con tremila cavalli e mille fanti; ma il tradimento non produsse altro effetto, che una macchia di pi? alla di lui fama, e un contraposto sempre pi? glorioso pel conte Francesco.
Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, grandi fautori dapprincipio per la libert?, s'erano cambiati ed erano diventati fautori del conte Sforza, o fosse ci? accaduto perch? l'esperienza gli avesse convinti della impossibilit? di adattare stabilmente alla nazione degradata un politico sistema, o fosse che la fortuna militare e le virt? grandi del conte, e le speranze sotto la sovranit? di lui avessero mutate le loro opinioni. Carlo Gonzaga, che, sotto nome di capitano della repubblica, era animato dalla probabile ambizione di cingere la corona ducale di Milano, considerava i due primari partigiani dello Sforza come i primi nemici da spegnere. Intercettaronsi delle lettere in cifra, che Lampugnano e Bosso scrivevano al conte Francesco; s'interpretarono; si conobbe la trama di aprirgli le porte della citt?, e si destin? di consegnarli come ribelli al supplizio. La difficolt? consisteva nel trovare il modo per riuscirvi; poich? i magistrati non avevano forze tali da contenere questi nobili, e si ricorse alla insidia. Si elessero il Lampugnano e il Bosso come oratori di Milano all'imperatore, per implorare il suo aiuto nelle angustie nelle quali la citt? era posta. Essi cercavano di procrastinare la partenza per essere mal sicure le strade; ma Carlo Gonzaga seppe s? bene fingere, che, apprestata loro una buona scorta di armati, vennero indotti a portarsi a Como, dove assicurogli che sarebbesi sborzata loro una conveniente somma di danaro per inoltrarsi nella Germania e fare la commissione. Adescati cos?, caddero nell'insidia. Usciti appena dalla citt?, furono costretti dai soldati del Gonzaga a passare a Monza, ove Giorgio Lampugnano venne subito decapitato, e la sua testa, portata a Milano, fu esposta al pubblico. Indi, a forza di torture, Teodoro Bosso in Monza fu costretto a nominare i complici, a' quali tutti fu troncata la testa alla piazza dei Mercanti, e furono Giacomo Bosso, Ambrogio Crivello, Giovanni Caimo, Marco Stampa, Giobbe Ombrello e Florio da Castelnovato. Vitaliano Burromeo, il di cui nome pure trovavasi fra i proscritti, pot? uscire dalla citt? e salvarsi.
In mezzo alle vicende e alle angustie della citt? stavasene in Milano la vedova duchessa, sposa un tempo di Filippo Maria, la quale, cogliendo l'opportunit?, sparse la speranza che il duca di Savoia, di lui padre, venisse a dare soccorso ai Milanesi. Infatti il duca Lodovico di Savoia si affacci? a Novara per discacciarne gli Sforzeschi, ma con esito infelice. Il Piccinino, allorch? vide comparire questo nuovo nemico al conte Sforza, abbandonollo, seco traendo, siccome vedemmo, tremila cavalli e mille fanti, e alcune terre occup?, sorprendendone gli Sforzeschi. Il conte allora sped? un suo inviato a Milano a fine di persuadere i rettori a non avventurare una citt? bella, grande e ricca alla inevitabile sciagura d'un assalto; ma l'inviato non pot? parlare se non a quei capi che non volevano abbandonare la loro chimerica sovranit?. Il marchese Gonzaga, vedendo per? le forze del conte, la posizione decisiva di lui, che possedeva quasi tutte le citt? del contorno, l'ascendente del valor suo e della scienza militare, pens? ai casi propri, e a trarre qualche profitto dalla conciliazione, prima che la necessit? lo costringesse a perdere la carica di capitano dei Milanesi senza verun compenso. Tratt? col conte Francesco; e fu convenuto ch'egli passerebbe allo stipendio del conte.
I Milanesi, attorniati dallo Sforza, gi? padrone di Cremona, Parma, Piacenza, Pavia, Novara, Vigevano, e de' borghi e terre ancora pi? vicine, vedendosi abbandonati dal Gonzaga; non potendosi fidare sul Piccinino; nessuna speranza loro rimanendo nel duca di Savoia; in mezzo ai disordini, al saccheggio, alla licenza popolare; devastati, oppressi dai propri magistrati, non avendo un uomo solo di qualche merito nelle cariche, usurpate da' pi? violenti, e da cui meno conosceva l'arte di reggere una citt?, e meno forse degli altri si curava della felicit? della patria; in tale misero stato si pens? da alcuni a conciliare la repubblica veneta colla nascente repubblica di Milano: il che, sebbene recentemente si foss'ella collegata col conte, non manc?, del suo effetto. Stava domiciliato in Venezia Arrigo Panigarola, milanese, avendovi casa di negozio: costui venne incaricato d'invocare il senato veneto, amatore della libert? in favore della patria. Fu ammesso il Panigarola a trattare. Egli con eloquenza mosse gli animi, descrivendo lo stato a cui erano ridotti i Milanesi, non per altro, se non perch? ricusavano essi un giogo ingiusto e illegale, e volevano reggersi da s? con una libera costituzione. Turpe cosa, diss'egli, che i Veneziani, illustri difensori della libert?, si colleghino con un usurpatore, per porre i ceppi agli italiani, loro confratelli. Assicur? che se la repubblica cessava di far loro guerra, se stendeva una mano adiutrice a questa nascente repubblica, dopo un tal beneficio, i Milanesi avrebbero amalo e venerato i Veneziani come loro padri e dei tutelari; che da una generazione all'altra ne sarebbe passata ai secoli la divozione e la gratitudine. Il discorso del Panigarola commosse gli animi, ma pi? ancora erano commosse le menti del senato dalle lettere che andava scrivendo il nobil uomo Marcello, il quale, per commissione della repubblica, stava al fianco del conte. Testimonio della prudenza e del grand'animo del conte Sforza, ammiratore della imperturbabile fermezza di lui negli avvenimenti prosperi e avversi, vedendo la benevolenza somma che avevano per lui i soldati, non meno che i suoi sudditi, colpito continuamente dalla superiorit? dei talenti suoi nel mestiere dell'armi, andava esso Marcello colle sue lettere intimorendo il senato, parendogli facil cosa che, poich? lo Sforza avesse acquistato Milano, pensasse poi a riunire le membra del ducato, e ricuperando Brescia, Vicenza e fors'anche Padova, ritornasse ad occupare quanto settantadue anni prima era soggetto al conte di Virt?, primo duca. Queste circostanze produssero l'effetto che: primieramente, i Veneziani trascurarono di spedire i convenuti soccorsi al conte, e gli stipendiari loro, che servivano nell'armata di lui, cambiando costume, pi? non volevano concorrere od esporsi: indi, senz'altro abbandonarono il campo. Non faceva mestieri di tanto, perch? il conte s'avvedesse del cambiamento de' Veneziani; i quali, per mezzo di Pasquale Malipiero, fecergli noto avere la loro repubblica fatta la pace coi Milanesi. Le condizioni erano, che tutto lo spazio compreso fra l'Adda, il Ticino e il Po rimanesse della repubblica di Milano, trattane Pavia, che si sarebbe lasciata al conte; e il rimanente dello Stato posseduto dal duca Filippo Maria passasse al conte Francesco Sforza. I Veneziani poi, oltre Brescia, Bergamo e Crema, rimanevano padroni di Treviglio, Caravaggio, Rivolta e altre terre del ducato.
La carestia fece nascere un generale disordine. Non vi era pi? chi volesse ubbidire. Quei che si erano arrogate le magistrature e il comando della citt?, erano considerati come buffoni del popolo. Il consiglio generale era stato composto da essi, scegliendo maliziosamente ad arte uomini inetti o del partito. Per dare apparenza al popolo che si vegliava al bene della citt?, i rettori fecero radunare il consiglio generale nella demolita chiesa di Santa Maria della Scala. Pietro Cotta e Cristoforo Pagani erano sulla strada in quel contorno: cominciarono questi a mormorare cogli astanti sulla spensierata condotta de' rettori e sulla dappoccaggine de' consiglieri. A misura che passavano i cittadini, si trattenevano; e cominci? a formarsi un'unione di popolari malcontenti. Ben tosto corse il grido per i quartieri della citt?, come vicino alla Scala vi fosse unione di malcontenti, e da ogni parte concorsero nuovi popolari, in modo che i rettori e consiglieri si trovavano assai inquieti. Laonde spedirono Lampugnino da Birago, loro collega, per aringare il popolo, e, colle buone, pacificarlo, promettendo ogni bene. Ma Lampugnino ebbe pena a salvarsi. Comparve il capitano di giustizia Domenico da Pesaro, scortato da buon numero di cavalleria, e facendo mostrare al popolo i capestri; ma il popolo li pose tutti in fuga. La moltitudine de' malcontenti si cre? due capi: Gasparo da Vimercato e il soprannominato Pietro Cotta. Altri signori spalleggiarono i malcontenti, come Giovanni Stampa, Francesco da Trivulzio, Cristoforo Pagano suddetto, Marchionne da Marliano. Vi fu del sangue sparso; vennero espulsi i magistrati, occupato il palazzo, e distrutta l'organizzazione civile; se ne form? una tumultuariamente. I primarii cittadini, il giorno seguente, si radunarono nella stessa chiesa della Scala per deliberare qual partito si dovesse prendere. Alcuni volevano rimaner liberi e non ubbidire a verun principe. Altri, conoscendo l'impossibilit? di formare una repubblica in mezzo a tanti e s? appassionati partiti, in una citt? nella quale le voci di patria e di ben pubblico non bastavano ad ammorzare le private mire, volevano un principe. Tutti per? concordemente ricusavano i Veneziani. Si proponeva dagli uni il papa; da altri il re Alfonso; altri suggeriva il duca di Savoia; Gasparo da Vimercato propose il conte Francese Sforza. Egli nel suo discorso fece vedere che la fame minacciava a giorni la morte; che n? il papa n? il re Alfonso n? il duca di Savoia avevano mezzi per salvarci al momento, come chiedeva l'urgente necessit?; che non rimaneva altro partito da scegliere che o i Veneziani o il conte. Sudditi de' Veneziani, non potevamo aspettarci se non che il destino d'una citt? secondaria e provinciale, sotto una dominazione che avrebbe temuta la nostra prosperit?. Sotto del conte, valoroso, umano, benefico, nostro concittadino per la moglie, non dovevamo aspettarci un signore, ma un padre saggio, provvido, amoroso, da cui sarebbe posto rimedio a' nostri mali. Il partito per il conte prevalse per acclamazione, e si sped? tosto ad avvisarlo. Due mesi prima che la citt? si rendesse allo Sforza, si pubblic? in Milano un proclama col premio di diecimila zecchini a chi avesse ammazzato il conte Sforza, o mortalmente ferito. Cos? gl'imbecilli nostri legislatori si mostravano insensibili alla virt?, ignoranti della ragion delle genti, indegni per ogni modo di comandare agli uomini. Il conte Francesco Sforza teneva in tanta disciplina le sue truppe che viet? loro di non offendere per niun modo le terre o le persone de' Milanesi, come si scorge dagli archivi di citt?. Ma i nostri capitani e difensori, l'istesse armi che avean rivolte contro dello Sforza le adoperavano ancora verso altri. Leggesi ne' registri di citt? la taglia di duemila ducati d'oro a chi condurr? a Milano Antonio e Ugolino fratelli Crivelli, i quali avevan ceduta la fortezza di Pizzighettone al conte Sforza. Leggesi la taglia di mille ducati a chi consegner? Francesco Borro, che aveva ceduta allo Sforza la fortezza di Lodi.
Era circondata la citt? di Milano dai soldati dello Sforza, e custodita con tanta esattezza che egli era impossibile di vere alimento veruno. Un moggio di grano si vendeva a venti zecchini. S'eran vendute pubblicamente e mangiate le carni dei cavalli, degli asini, de' cani, de' gatti e persino de' sorci. Morivano sulle pubbliche strade alcuni cittadini di fame. In queste estremit?, cio? tre giorni prima che Francesco Sforza diventasse padrone di Milano, i capitani e difensori della libert? pubblicarono un editto per la pudicizia e morigeratezza pubblica.
Non voleva il nuovo duca sgomentare i sudditi dominando sopra di essi con un potere illimitato, n? che essi lo considerassero come un dispotico conquistatore. Sarebbe stato troppo repentino il passaggio dalla licenza alla servit?, e questo violento cambiamento avrebbe potuto facilmente cagionar poi de' pentimenti e de' moti nel popolo, nel qual caso un principe vi perde sempre, quand'anche giunga colla forza a reprimere ed a punire. Ci? conosceva ottimamente il saggio duca; e perci? volle che alla nuova dominazione di lui servisse di base un contratto, e che i sudditi lo considerassero sovrano e non despota. Questa prudente politica diresse il solenne contratto di dedizione, celebrato il giorno 3 di marzo 1450, nella villa del conte Giovanni Corio in Vimercato, essendone rogato il notaio Damiano Marliano; in vigore del qual atto venne concordato che le gabelle sarebbero state moderato, riducendosi la macina a soldi 12, il dazio del vino a soldi 4, e stabilendosi che non s'imporrebbero in avvenire nuove gabelle, anzi si abolirebbe quella del fieno; che il nuovo duca avrebbe fatto residenza in Milano, almeno per due terze parti dell'anno; che i tribunali avrebbero sempre in Milano la loro sede; che il prezzo del sale sarebbe stato lire tre per ogni staio, che non si sarebbe imposto verun carico straordinario, eccetto quello di somministrar carri e guastatori per gli usi militari; che il solo podest? di Milano sarebbe stato forestiere, ma tutti gli altri uffici sarebbero confidati a' Milanesi; e alla vacanza di ogni carica la citt? avrebbe presentata la nomina di sei, fra i quali il duca avrebbe fatto la scelta, salvo per? l'arbitrio a lui, in casi speciali, di scegliere anche altrimenti; che il duca avrebbe mantenuta la fede ai creditori di Filippo Maria; che si osserverebbero gli statuti civili e criminali e quei de' mercanti; che non si sarebbero impetrati privilegi dal papa n? dall'imperatore senza il beneplacito del duca; che i soldati a piedi, a cavallo, saccomanni, uomini d'armi sarebbero partiti dalla citt?, dovendo essa restare immune dall'alloggiamento militare, eccettuati i contestabili alle porte; il duca per? in casi speciali potr? deviare da questa regola. Questi sono i pi? importanti articoli del solenne contratto: indi il nuovo duca fece il pubblico ingresso dalla porta Ticinese, il giorno 25 di marzo 1450. Il nuovo duca era colla sua sposa Bianca Maria e col primogenito Galeazzo Maria. Un numero grande di matrone andarongli incontro pomposamente. Gli oratori delle citt? suddite, i nobili milanesi tutti sfoggiarono per rendere magnifico quell'ingresso. Erasi preparato un maestoso carro e un baldacchino; ma un tal fasto non piacque a Francesco Sforza, che amava la gloria e non le apparenze teatrali; e, ricusandolo, disse: ch'egli in quell'ingresso s'incamminava al tempio per rendere omaggio al padrone dell'universo, avanti del quale gli uomini sono tutti eguali. Cavalc? egli adunque. La folla immensa del popolo, i ricchi arredi de' nobili, la magnifica parata degli uomini d'armi che precedevano, tutti coperti d'usberghi lucidissimi, il lusso de' loro illustri condottieri, tutto ci? form? uno spettacolo sorprendente. La cerimonia si fece al Duomo, ove smontato, il duca si pose una candida sopraveste: indi colle solennit? de' sacri riti la duchessa e il duca vennero ornati col manto ducale fra gli applausi e i viva del popolo. Poi dagli eletti di ciascun quartiere ricevette il giuramento di fedelt?. Essi a lui consegnarono lo scettro, la spada, il vessillo, il sigillo ducale e le chiavi della citt?. Fatto ci?, il duca fece proclamare conte di Pavia il primogenito Galeazzo. Terminossi per tal modo la funzione in Duomo, seguendosi il rito de' duchi antecessori. Indi per cinque giorni volle il duca che la citt? vivesse in mezzo alle feste ed alle allegrie. Danze, giostre, tornei di varie sorta, musica, spettacoli teatrali, lautissimi pranzi, tutto venne cos? giudiziosamente distribuito e con tal previdenza ed ordine eseguito, che si mostr? il duca la delizia della buona societ? e l'anima dei divertimenti. Egli cre? molti cavalieri, scegliendo quei che pi? meritavano quest'onore, e tutti li regal? nobilmente. Insomma Francesco Sforza, invincibile alla testa di un'armata, si mostr? il pi? giudizioso direttore delle feste, come si fece conoscere il principe pi? umano, giusto e benefico, reggendo in pace lo Stato.
Il papa Nicol? V, i Fiorentini, i Genovesi, i Lucchesi, gli Anconitani, i Sanesi, e varii altri Stati e principi d'Italia spedirono tosto i loro ministri per una onorevole ricognizione al nuovo duca. Il primo pensiero di questo principe fu di rialzare il castello di porta Giovia, demolito due anni prima, siccome dissi. Questa fortezza, fabbricata da Galeazzo II, era necessaria per la sicurezza del duca, il quale in una citt? piena di partiti, recentemente riscaldata dal nome di libert?, rendeva sempre pericolosa la residenza del nuovo principe, sprovveduto infatti di legali fondamenti per succedere nel ducato. Ma nemmeno conveniva alla prudente accortezza del nuovo signore di palesare la inquietudine sua, n? di lasciar conoscere al popolo apertamente una tale diffidenza; essendo cosa naturale alla moltitudine il non accorgersi delle forze proprie, se non pel timore altrui. Propose egli adunque alla citt?, come ostinandosi tuttavia i Veneziani nella guerra contro di lui e contro lo Stato, trovandosi Milano allora mal difesa dalle mura della circonvallazione, non convenendo di acquartierare l'armata nella citt?, resa esente dall'alloggio militare, non eravi modo alcuno di preservare la metropoli dai pericoli d'un assalto, se non ricoverando in luogo munito e forte un corpo di armati, in guisa da allontanare il nemico da simili tentativi. Propose quindi alla deliberazione della citt? medesima il determinare, se dovesse per tutela di lei riedificarsi il castello, assicurando nel tempo medesimo la citt? che vi sarebbe stato collocato per castellano non mai altri che un nobile milanese per tutti i tempi avvenire. Questa moderazione di cercare l'assenso per una cosa ch'egli avrebbe potuto da s? medesimo fare immediatamente; le maniere umanissime e nobilissime del duca; tante virt? militari e civili riunite in questo grand'uomo impegnarono i primari cittadini ad ottenergli la pubblica acclamazione per rialzare la demolita fortezza. Si fecero le adunanze del popolo in ciascuna parrocchia per deliberare su tale inchiesta. La storia ci ha conservato un discorso tenuto in tale occasione da Giorgio Piatto allora celebre giureconsulto. Egli era nell'adunanza della parrocchia di San Giorgio al Palazzo. Questi parl? cos?: <
Ma Genova, siccome dissi, fu di mestieri sottometterla colle armi comandate dallo stesso Gaspare Vimercato che introdusse lo Sforza in Milano e fu nella spedizione di Francia. I Genovesi, assoggettati, spedirono a Milano ventiquattro oratori, accompagnati da pi? di dugento loro cittadini, e il duca accolse onorevolmente l'omaggio loro, spesandoli e alloggiandoli signorilmente.
N? soltanto co' Veneti, co' Savoiardi, colla Lega e co' Genovesi fu costretto a guerreggiare per mezzo de' suoi generali il nuovo duca; ma ben anco nel regno di Napoli, come ausiliario di Renato d'Angi?, mantenne le sue schiere. Renato pretendeva quel regno come figlio adottivo della regina Giovanna II, ed aveva seduto sul trono di Napoli, come re, sintanto che il pi? fortunato di lui, Alfonso d'Aragona, ne lo scacci?, e si pose in suo luogo. Venne a Milano il re Renato, e lo accolsero il duca e la duchessa Bianca Maria colla dovuta magnificenza. Egli condusse una squadra di francesi, i quali si unirono cogli sforzeschi. Il padre della duchessa, diciotto anni prima aveva pure in Milano alloggiato il re Alfonso d'Aragona, rivale di lui; ma Alfonso vi dimor? come prigioniero, Renato come amico ed alleato. Le avventure poi del regno di Napoli terminarono facendo lo Sforza la pace col re Alfonso; e questa pace fu convalidata con due nodi di parentela. Alfonso duca di Calabria, nipote del re Alfonso e figlio di Ferdinando, spos? la principessa Ippolita, figlia del duca Francesco; e la principessa Leonora, figlia pure di Ferdinando, fu data in moglie a Sforza Maria, terzogenito del duca.
Quando uno Stato, anche vasto, sia accozzato insieme con male arti, con sorprese, con insidie, con tradimento, al morire del sovrano cessa il timore ne' sudditi e ne' vicini; e per poco che il successore sia debole o mancante d'artificio, si scompone, siccome avvenne della signoria che radun? il primo duca Giovanni Galeazzo. Ma quando per lo contrario la dominazione s'acquisti col valore personale, e si innalzi colla generosit? della virt? del sovrano, e siavi stato tempo bastante per imprimere nel cuore degli uomini la riverenza e l'amore che l'eroismo fa nascere, ancora dopo spento l'eroe, l'ammirazione e l'affezione dei popoli aiutano il figlio, come parte viva di lui, e malgrado i difetti e la poca somiglianza che egli abbia col padre, lo coprono colla di lui gloria. Cos? accadde al nuovo duca Galeazzo Maria, il quale poco imit? il magnanimo suo padre. Uno de' primi fatti di Galeazzo lo svela. La duchessa Bianca Maria, di lui madre, si era sempre dimostrata ottima moglie, ottima madre, donna di senno, di cuore e di mente non comune. Il duca Francesco perci? l'aveva onorata ed amata sommamente. Galeazzo doveva doppiamente il ducato di Milano a lei, e per nascita, e per l'accorgimento col quale aveva dirette le cose alla morte del duca Francesco; giacch?, qualora non vi fosse stata alla testa della signoria una donna del merito di lei, difficilmente Galeazzo Sforza, assente, avrebbe trovata aperta la via del trono, dove pot? placidamente collocarsi. La Bianca Maria co' saggi consigli e colla autorit? regolava lo Stato unitamente al duca, quasi come correggente. L'ambizione, la seduzione di consiglieri malvagi fecero nascere la gelosia del comando; indi la visibile freddezza, finalmente la discordia palese tra il figlio ed una madre tanto benemerita. La vedova duchessa prefer? la pace e il riposo ad ogni altra cosa, e divis? di portarsi a Cremona, citt? sua, perch? recata da lei in dote, siccome vedemmo; ed ivi, lontana dalle contese, passare il rimanente de' giorni suoi, non avendo ella allora che quarantadue anni. Abbandon? la corte burrascosa di Milano; ma a Marignano con breve malattia termin? di vivere il giorno 23 ottobre 1468; e il Corio a tal passo soggiugne: <
Il duca Galeazzo amava la pubblica magnificenza, e a tal fine comand? che si lastricassero le vie di Milano: <
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