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Read Ebook: Storia di Milano vol. 2 by Verri Pietro

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Ebook has 292 lines and 118359 words, and 6 pages

Il duca Galeazzo amava la pubblica magnificenza, e a tal fine comand? che si lastricassero le vie di Milano: <>, dice il Corio. Francesco di lui padre le fece riattare. Sar? stata una saggia provvidenza quella di lastricarle solidamente: ma tal riforme di lusso si fanno giudiziosamente e per gradi. La pompa del duca si pales? singolarmente nel maestoso viaggio ch'ei fece colla duchessa a Firenze l'anno 1471. Condusse egli un tal corredo, che oggid? nessuno de' monarchi d'Europa penserebbe nemmeno a simile teatrale rappresentazione. Il Corio ce la descrive minutamente; ed io la racconter?, perch? simili oggetti danno idea del modo di pensare di quei tempi. I principali feudatari del duca ed i consiglieri gli fecero corte, accompagnandolo nel viaggio con vestiti carichi d'oro e d'argento; ciascun di essi aveva un buon numero di domestici splendidamente ornati. Gli stipendiari ducali tutti erano coperti di velluto. Quaranta camerieri erano decorati con superbe collane d'oro. Altri camerieri aveano gli abiti ricamati. Gli staffieri del duca avevano la livrea di seta, ornata d'argento. Cinquanta corsieri con selle di drappo d'oro e stalle dorate; cento uomini di armi, ciascuno con tale magnificenza, come se fosse capitano; cinquecento soldati a piedi, scelti; cento mule coperte di ricchissimi drappi d'oro ricamati; cinquanta paggi pomposamente vestiti; dodici carri coperti di superbi drappi di oro e d'argento; duemila altri cavalli e duecento muli coperti uniformemente di damasco per l'equipaggio de' cortigiani. Tutta questa strabocchevole pompa andava in seguito del duca; ed acciocch? non rimanesse nulla da bramare, v'erano persino cinquecento paia di cani da caccia, v'erano sparvieri, falconi, trombettieri, musici, istrioni. Tale fu il fasto di quel memorando viaggio, che doveva recare incomodo ed ai sudditi del viaggiatore, ed agli ospiti. Questa superba comitiva nell'accostarsi a Firenze venne accolta con somma festa e onore da quel senato. I nobili e i primari della citt? si affacciarono i primi: indi molte compagnie di giovani in varie foggie uscirono ad incontrare il duca; poi comparvero le matrone; poi le giovani pulcelle, <>, dice il Corio. Indi, accostandosi alla citt?, ricevettero gli ossequi de' magistrati, finalmente gli accolse il senato, che present? al duca le chiavi della citt?. Entr? il duca con una sorta di trionfo, e venne collocato nel palazzo di Pietro dei Medici, figlio di Cosimo. Non accadde altra cosa degna d'essere raccontata; basti osservare che non poteva verun altro monarca essere onorato di pi? di quello che furono Galeazzo e la Bona in Firenze. Da Firenze passarono questi principi a Lucca; ore pure vennero accolti con somma pompa: anzi vollero i Lucchesi perfino aprire una nuova porta nelle mura della loro citt?, onde trasmettere ai tempi a venire memoria di questo magnifico ingresso. Da Genova poi ritornarono Galeazzo e la Bona a Milano. Oggid?, che i sovrani hanno nelle mani il potere per mezzo della milizia stabilmente stipendiata, non si curano pi? di abbagliare i popoli.

Le circostanze della morte del duca Galeazzo Maria Sforza ci sono minutamente trasmesse dagli scrittori di quel tempo; e siccome sono feconde nelle loro conseguenze, io non le ometter?. Gli storici di quel tempo ci hanno lasciata memoria degli auguri sinistri pe' quali credettero presagita la sciagura di quel sovrano. Mentre il duca Galeazzo Maria trovavasi in Abbiategrasso, comparve una cometa, e questo ? il primo infausto presagio. Il secondo fu che in Milano il fuoco prese nella stanza in cui egli soleva abitare. Ci? inteso, Galeazzo quasi pi? non voleva riveder Milano; pure vi s'incammin?, e mentre da Abbiategrasso cavalcava verso la citt?, tre corvi lentamente passarongli sul capo gracchiando, il che cagionogli tanto ribrezzo, che, poste le mani sull'arcione, rimase fermo; poi volle superarsi, e proseguendo venne a Milano. Cos? allora si pensava; e tali pusillanimit? cadevano anche in uomini di coraggio militare, come era il duca. Conciossiach? l'uomo ardisce di affrontare un pericolo conosciuto, e cimentarsi contro altri uomini; ma contro potenze invisibili ed invulnerabili il sentimento delle proprie forze lo abbandona. Ai soli progressi della ragione siamo debitori noi viventi della superiorit? nostra. Per lei siamo liberati da una inesauribile sorgente d'inquietudini; per lei finalmente sappiamo che la nebbia impenetrabile entro cui sta celato il nostro avvenire, ? un benefizio della Divinit?; e sappiamo per lei che la sommissione rispettosa ai decreti della Provvidenza, ? il pi? saggio ed utile sentimento dell'uomo.

V'erano due supremi consigli. Quello di Stato si radunava nel castello avanti al sovrano o la tutrice; quello di giustizia si radunava nella corte ducale di Milano. Lodovico e Sforza, fratelli del defunto duca, immediatamente dalla Francia, ove tenevali rilegati il fratello Galeazzo, volarono a Milano; lusingandosi, come zii del duca, di prendere le redini del comando. Simonetta li destin? con onore a presedere al consiglio supremo di giustizia. Fremevano vedendosi cos? delusi; ma il marchese di Mantova e il legato pontificio, venuti per ufficio alla corte di Milano, tentarono di calmare i loro animi; e rest? concluso che si pagassero ogni anno dodicimila e cinquecento ducati a ciascuno degli zii del duca, e che si assegnasse a ciascuno un palazzo in Milano, e cos? uscissero dal castello. I fratelli del duca Galeazzo, zii del vivente, erano cinque, cio? Sforza, Filippo, Lodovico, Ascanio e Ottaviano.

Genova si ribell?. Dodicimila uomini vennero spediti per sottometterla. Se ne confid? il comando a Lodovico ed Ottaviano, fors'anco per allontanarli. L'impresa riusc? bene, poich?, malgrado la vigorosa resistenza de' Genovesi, gli sforzeschi se ne impadronirono; e il giorno 9 di maggio 1477 resero i Genovesi nuovamente omaggio al duca, ritornarono a Milano Lodovico ed Ottaviano colla benemerenza di tale vittoria. Simonetta teneva l'occhio sopra di essi. Venne imprigionato un confidente di questi due principi, da cui seppe le trame che ordivano contro lo Stato. I due fratelli pretesero che il loro confidente venisse liberato; e ci? non ottenendo, posero mani all'armi, e sollevarono pi? di seimila persone in Milano. La duchessa e Simonetta stavansene nel castello; e in esso, dalla parte esterna, fecero entrare tutte le genti d'armi vicino a Milano, il che bast? per far deporre le spade. Ottaviano non volle fidarsi del promesso perdono, e se ne fugg?; e, giunto a Spino, vicino a Lodi, temendo di essere arrestato, si avventur? a passar l'Adda, e vi si affog? cadendo da cavallo, il che avvenne l'anno 1477. Egli aveva 18 anni; il di lui cadavere si ritrov? poi, e venne tumulato in Duomo. Simonetta fece formare un processo della sedizione, e risult? che gli zii del duca aveano tramato di togliergli lo Stato. Indi vennero relegati, Sforza, duca di Bari, nel regno di Napoli, Lodovico a Pisa ed Ascanio a Perugia.

Come poi venisse abbandonato a cos? indegno destino un ministro tanto illibato ed illustre, ce lo dice il Corio; cio? per la fazione de' nemici, i quali giunsero a prendere le armi contra lo stesso Lodovico, avendo alla testa Federico marchese di Mantova, Guglielmo marchese di Monferrato, Giovanni Bentivoglio ed altri illustri personaggi, i quali obbligarono Lodovico a far imprigionare il Simonetta, che, malgrado la protezione e gli uffici di altri principi, venne abbandonato alla vendetta de' nemici che gli avea conciliati la passata fortuna, e fors'anco la stessa sua virt?.

Poco tard? a verificarsi il rimanente del vaticinio del Simonetta. Il favorito della duchessa Trassino, accecato, siccome avviene alle anime basse, dalla prospera fortuna, mancando ai riguardi ch'egli dovea verso Lodovico, venne scacciato nel 1481, e port? seco a Venezia un tesoro di gioie e di denaro. La duchessa si avvil? talmente, che rinunzi? a Lodovico la tutela con un atto solenne, sperando con ci? di rimaner libera, ed uscendo dallo Stato rivedere il favorito: ma il primo uso che Lodovico fece del potere confidatogli, fu d'impedirle l'uscita dello Stato, e ad Abbiategrasso venne arrestata. Cos? Antonio Trassino, senza saperlo, fu quegli per cui la casa Sforza poi perdette lo Stato: i Francesi occuparono il ducato, gl'Imperiali gli scacciarono; e si form? un nuovo ordine di cose per tutta l'Italia, come in appresso vedremo. Le debolezze di una donna, e la bella figura di uno scalco fecero maggior rivoluzione nel destino d'Italia, di quello che non avrebbe fatto un gran monarca od un conquistatore.

L'Italia si pose in armi l'anno 1482, e per due anni ne sopport? i mali. Il re di Napoli Ferdinando e i Fiorentini erano collegati cogli Spagnuoli. I Veneziani, il Papa e i Genovesi erano riuniti nel contrario partito. Il Papa abbandon? poscia i Veneziani e si un? agli sforzeschi. Non nuoce punto l'ignoranza di questi minuti avvenimenti guerreschi; anzi la scienza di essi ? atta soltanto a caricare confusamente la memoria, a scapito degli avvenimenti degni della nostra attenzione. V'era in Milano un partito contrario a Lodovico il Moro; alcuni per compassione della duchessa Bona, altri per avversione al carattere ambizioso di Lodovico, altri per vendicare le ceneri del virtuoso Simonetta, altri infine per la naturale lusinga di viver meglio. Venne cospirato di togliere dal mondo Lodovico Sforza; e fu concertato che il giorno 7 di dicembre l'anno 1485, venendo egli, secondo il costume, alla chiesa di Sant'Ambrogio, quivi fosse trucidato. Il colpo and? a vuoto; atteso ch'egli vi fu bens?, ma entrovvi per una porta alla quale non eranvi le insidie. Se ci? non accadeva, egli spirava trafitto come il fratello, come il duca Giovanni Maria, come Giuliano, fratello di Lorenzo de' Medici. Non credo che i Gentili abusassero a tal segno de' sacri tempii.

Poste a convivere insieme le due principesse, cio? la duchessa Isabella e la principessa Beatrice, duchessa di Bari, nacquero de' dissapori. Isabella, come moglie del duca regnante, pretendeva d'essere sola sovrana; e che Beatrice fosse considerata suddita. Isabella era figlia di un re. Beatrice, moglie del tutore del duca, considerava la duchessa come la pupilla. L'avo d'Isabella era Ferdinando nato da illegittima unione. Le meschine vicende della casa di Aragona nel regno di Napoli erano argomenti di cronologia contraposti all'illustre sangue estense. Il fatto di tai domestici partiti fu che Lodovico il Moro si rese padrone dell'erario, e pass? a disporre il tutto da s?. Promoveva alle cariche, faceva le grazie, appena lasciava al nipote il nome di duca. Il duca Giovanni Galeazzo e la duchessa Isabella scarsamente erano alimentati e penuriavano d'ogni cosa, sebbene fosse gi? feconda la duchessa d'un bambino, nato in febbraio 1491. Posta in tale angustia la Isabella, trov? modo di renderne informato Alfonso, di lei padre. Il re di Napoli sped? a Lodovico il Moro i suoi oratori, i quali, con somme lodi innalzando quanto come tutore aveva fatto, conclusero chiedendogli che abbandonasse il governo dello Stato al duca Giovanni Galeazzo, che gi? contava il vigesimo terzo anno dell'et? sua. Lodovico tratt? con onorificenza gli oratori del re Ferdinando, avo della duchessa; ma sul proposito di rinunziare al governo non di? risposta alcuna.

Stacchiamo lo sguardo, almen per poco, dai tristi avvenimenti della politica, e rimiriamo oggetti pi? ameni, cio? i progressi che la coltura fece presso di noi sotto il governo di Lodovico il Moro. Lodovico dapprincipio fabbric? il vastissimo claustro del Lazzaretto secondo l'uso di quei tempi; ma in appresso egli pose all'architettura per maestro il Bramante da Urbino, alla pittura Leonardo da Vinci. Questi grandi uomini erano cari a Lodovico. Sotto la scuola di quest'ultimo si formarono Polidoro da Caravaggio, Cesaro da Sesto, Bernardo Luino, Paolo Lomazzi, Antonio Boltrasio ed altri, dai quali ebbe vita ed onore la scuola milanese. L'architettura era ne' primi anni sotto Lodovico resa elegante bens?, ma conservava capricciosi ornamenti, siccome scorgevasi nella facciata della casa de' signori conti Marliani. Poi s'innalz? il magnifico tempio della Madonna di San Celso; si eresse la facciata del palazzo arcivescovile; si fabbric? il chiostro, veramente nobile e grandioso, dell'imperial monastero di Sant'Ambrogio; e cos? si esposero allo sguardo pubblico modelli di bella architettura. Lodovico grandiosamente stipendiava gli abili artisti e gli uomini d'ingegno; accordava loro piena immunit? da ogni carico; animava i progressi della coltura. Demetrio Calcondita, Giorgio Merula, Alessandro Minuziano, Giulio Emilio erano fra noi gli illustri letterati protetti e beneficati dal Moro. Bartolomeo Calco, segretario di Stato ed uomo colto, per secondare il genio del suo principe, institu? le scuole pubbliche, le quali sino ai giorni nostri ne portano il nome. Tommaso Grassi eresse e dott? altre scuole per gratuita istituzione della giovent?; e queste pure conservano il nome del loro fondatore. Tommaso Piatti, che sommamente era in favore presso Lodovico, institu? pubbliche cattedre di astronomia, geometria, logica, lingua greca ed aritmetica. Con tali beneficenze pubbliche si otteneva l'amicizia di Lodovico; il che certamente fa sommo onore alla memoria di lui. Non ? dunque da meravigliarsi se di que' tempi le belle lettere venissero in fiore, e se da quella scuola uscissero poi Girolamo Morone, di cui accader? in breve ch'io parli, Andrea Alciato e Girolamo Cardano. Scrivevano allora la storia patria Tristano Calco, memorabile per l'elegante suo stile latino, e per la molta accuratezza; Bernardino Corio, inelegante scrittore bens?, e creduto compilatore delle antiche favole, ma accurato e fedele espositore delle cose de' tempi pi? vicini. Allora la poesia, la musica, tutte le belle arti ebbero vita e onore. Il cavaliere Gaspare Visconti in quella et? scriveva rime degne di leggersi. Ecco quasi per saggio tre sonetti di lui fra i molti che ho esaminati. Il primo, singolarmente nei due quaderni, mi pare assai robusto e poetico.

<

Fuor del pensiero ho l'amoroso chiodo, Che poco meno a morir mi sospinse; E il volto che nel petto amor mi pinse, L? dentro ? casso, e senza affanni or godo. Ringrazio il cielo, il qual m'ha liberato Dalla cieca prigion, piena d'orrore, Dove gran tempo vissi disperato. E quando a s? pur mi rivolgi amore, Me leghi a un cuor che sia fedele e grato, Ch'io servir? per fino all'ultim'ore>>.

<>.

D'un altro genere, men elevato s?, ma pregevole per la facilit?, ? il sonetto seguente ch'ei scrisse a messer Antoniotto Fregoso, da cui veniva avvisato che una indiscreta vecchia non cessava d'infamarlo. Cos? rispose:

<>

Dal fine d'un sonetto ch'egli scrisse alla Beatrice d'Este, si conosce qual ascendente quella principessa avesse sull'animo di Lodovico:

<>.

<>.

Il Corio ci descrive l'urbanit?, l'opulenza, il raffinamento e il lusso della corte di Lodovico, prima che sventuratamente promovesse l'invasione dei Francesi. Spettacoli, giostre, tornei, occupavano l'ozio felice di que' tempi, ne' quali quel signore compariva il pi? rispettato principe d'Italia. L'ambasciator veneto Ermolao Barbaro, spettatore di que' tornei, compose i seguenti versi conservatici dal Corio:

Frutto di questa universale coltura promossa dal duca e dalla giudiziosa scelta ch'egli sapeva fare degli uomini di merito, fu la riunione del canale della Martesana con l'altro antico cavato del Tesino. Lionardo da Vinci, siccome ho accennato al capitolo decimosettimo, con sei sostegni super? la differenza del livello di circa tredici braccia, e rese la navigazione comunicante dal Tesino all'Adda. <>. Cos? dice il sullodato Paolo Frisi.

Gian Giacomo Trivulzi, che da alcuni anni era esule dalla patria, entr? in Milano come generalissimo dell'armata francese il giorno 6 di settembre, quattro giorni dopo che il duca l'aveva abbandonata. Egli si port? solennemente al Duomo a ringraziare l'Arbitro delle cose, di un avvenimento gloriosissimo per esso lui. Tre giorni dopo l'armata francese venne in Milano; e furono collocate le truppe a San Francesco, a Sant'Ambrogio, all'Incoronata. La licenza militare de' giovani soldati francesi era somma in ogni genere; e il Trivulzio pens? di contenerla con fermo rigore nella disciplina. Il Corio ci racconta che per un pane violentemente rapito, due soldati guasconi vennero tosto appiccati a due piante fuori della porta Ticinese; che un altro francese, per aver rubata una gallina, venne immediatamente appeso; che al Pontevetro sul momento venne appeso un francese che aveva rubato un mantello; e che ivi pure, senza riguardo n? indugio, fu fatto appiccare un cavalier francese, monsieur Valgis, che aveva poste le mani violentemente sopra di una zitella. Ci? serviva ad impedire quei disordini che avevan reso odioso il nome francese nel regno di Napoli quattr'anni prima; e serviva pure a conciliare la benevolenza de' nazionali verso del comandante. Ma il posseder Milano, mentre una fortezza, quale era il castello, era presidiata validamente dagli sforzeschi, era un pericolo anzi che un vantaggio. Una vigorosa uscita degli sforzeschi poteva essere funesta ai Francesi sparsi ne' conventi. Pens? dunque il Trivulzio di corrompere Bernardino da Corte, castellano, giacch? la strada di un formale assedio doveva esser lunga, di evento dubbioso, di molto dispendio e diminuzione delle forze francesi. Il vilissimo Bernardino da Corte, senza nemmeno aspettare un apparente assedio cominciato, pattu? il prezzo del suo tradimento, e si divisero le ricchezze depositate nel castello fra il Trivulzio, il Corte e varii altri complici. Il Corio ci racconta che tal novella arrivasse all'orecchio dell'infelice duca mentre egli cavalcava fra i Grigioni prima di giungere nel Tirolo; ma siccome il tradimento si esegu? e manifest? il giorno diecisette di settembre del 1499, cio? quattordici giorni dopo che Lodovico era gi? partito da Como, mi pare pi? verisimile la cronaca del Grumello che dice: <>.

Frattanto Lodovico il Moro non avea omessa cosa alcuna affine di accelerare il suo ritorno nella patria. Vero ? che nell'avversa fortuna quel principe non seppe mostrare quel vigor d'animo e quella serenit? di mente, che solo possono farci reggere fralle sventure e superarle. Egli da Inspruck sped? Ambrogio Bugiardo per Bari, e Martino Casale per Pesaro, colle istruzioni a ciascuno di portarsi a Costantinopoli. Questa commissione In data a due, e per vie separate, acciocch? uno almeno potesse eseguirla. Voleva che a di lui nome animassero il Turco a passare nell'Italia ed aiutarlo a ricuperare Genova, promettendo di unirglisi per far la guerra ai Veneziani. Parrebbe incredibile questo partito, se il Corio non ci avesse stampate le istruzioni dalle quali furono accompagnati que' due ministri. Ma la protezione dell'imperatore procur? allo Sforza soccorsi pi? reali e solleciti; essendosi per ordine suo radunato un valente corpo di Svizzeri e di Tedeschi. Questi l'aspettavano ne' confini; e trovandosi, siccome accennai, diminuite le forze dei Francesi, pel corpo di milizia spedito all'impresa d'Imola sotto il comando dell'Allegre, riusc? facil cosa al duca di nuovamente presentarsi, e le inquietudini del popolo ne furono opportuna occasione. Messer Sanseverino comandava quattromila fanti svizzeri. All'accostarsi di questi, il Trivulzio abbandon? Milano. Il giorno 4 di febbraio 1500 il duca Lodovico rientr? in Milano per porta Nuova, cinque mesi e due giorni dopo che l'ebbe abbandonata. Tutti i corpi politici gli andarono incontro. Mentre il duca Lodovico passava verso la Scala, dove oggid? ? il teatro, venne avvisato che i Francesi, padroni del castello, facevano una sortita; il che alquanto lo sconcert?. Nulladimeno vi si pose ordine, ed egli prosegu? l'intrapreso cammino al Duomo, d'onde pass? ad alloggiare nella corte, su cui l'artiglieria del castello, sebbene operasse, non pot? far danno, per esserne premuniti i tetti. Un giorno solo rimase Lodovico in Milano: egli pass? a Pavia, lasciando al governo di Milano il cardinale Ascanio suo fratello.

Lodovico il Moro stette per due settimane a Pavia per ivi radunare le sue soldatesche, le quali s'andavano ogni d? aumentando, merc? gli Svizzeri e Tedeschi che scendevano dalle Alpi e si ponevano allo stipendio di lui. Milano frattanto era inquietata dalle scorrerie che tentavano i Francesi acquartierati nel castello, malgrado la custodia del cardinale Ascanio; volavano di tempo in tempo le palle sulla citt?: avvenimento che cinquant'anni prima avea preveduto il buon Giorgio Piatto. Il duca, avendo pi? di sedicimila svizzeri, mille corazzieri tedeschi e molta cavalleria italiana, forz'era che tentasse qualche azione. Egli mancava di denaro, n? potea lungamente mantenere al suo stipendio quest'armata. I Francesi dell'Allegre da Imola ritornarono per unirsi ai compagni. Dalla Francia era spedito nuovo rinforzo sotto il comando del duca della Tremouille; non v'era speranza pel Moro, se non nella rapidit? di approfittare dell'occasione favorevole. Dispose adunque d'impadronirsi di Vigevano, e da Pavia partitosi ai 20 di febbraio 1500, il giorno 25 se ne rese padrone. Per animare i suoi egli aveva loro promesso il saccheggio di quella citt?, e gli Svizzeri avevano raddoppiati con tal mercede i loro sforzi. Ma il duca amava quel luogo, e non ebbe cuore di vedere eseguita la rovina di que' cittadini. Fece distribuire a ciascun soldato un ducato d'oro, di che rimasero tutti assai malcontenti. Poi Lodovico Sforza co' suoi si inoltr? verso Mortara, otto miglia distante da Vigevano, e colloc? le tende in faccia del Trivulzio. I Francesi erano alquanto sbigottiti dai prosperi eventi dello Sforza; gli sforzeschi per questi medesimi erano animosi. Francesco Sanseverino, uomo che avea un nome nella milizia, animava il duca a cogliere l'occasione e venire tosto a giornata, prima che un nuovo corpo di Svizzeri e il duca de la Tremouille rendessero formidabile il nemico; ma il duca, sempre incerto e mancante di energia, rispondeva esser meglio il vincere temporeggiando, che tentare l'incerta fortuna di una battaglia; la qual massima non poteva essere pi? fuori di luogo che in bocca di un principe gli Stati di cui sieno occupati da un nemico potente, e che non avea per liberarsene altro mezzo che una momentanea armata, senza un erario con cui tenerla quanto occorresse allo stipendio; giacch? il cardinale Ascanio, per raccogliere danaro, era ridotto a far coniare moneta cogli argenti delle chiese di Chiaravalle, del Duomo, di Sant'Eustorgio, di San Francesco e di San Marco. Ma il duca Lodovico non aveva ereditati i talenti militari del duca Francesco suo padre. Egli era un principe colto bens?, ma non un eroe; principe di vaste idee anzi che di grandi e solide, snervato dall'avversa fortuna, privato della duchessa, abbandonato a consigli vacillanti. Avrebbe dovuto cimentarsi coll'armata francese; ma invece lev? le tende e trasport? il suo campo sotto Novara, che era in poter de' Francesi sotto il comando del conte di Musocco, figlio del maresciallo Trivulzio. Il duca promise il sacco di Novara; il che era in que' tempi un diritto militare, allorch? per assalto e senza capitolazione veniva presa una citt?. Alcuni cittadini novaresi segretamente intrapresero a concertare col Moro per introdurlo nella citt?. Novara era assai ben munita, n? facil cosa era l'impadronirsene. La prima condizione che i cittadini vollero, fu quella di aver salve le cose loro. Il duca, contentissimo per s? inaspettato mezzo, che spianava ogni ostacolo, a tal condizione ader?, e cos? entrarono gli sforzeschi in Novara, sicch? a stento pot? appena per la porta opposta correre a salvamento quel presidio. Ci? accadde il giorno 20 di marzo 1500. I soldati si posero a saccheggiare a norma della parola datane loro dal duca; ma egli nuovamente lo proib?; il che sempre pi? alien? da lui l'animo di quell'armata, composta di soldati che non aveano legame veruno col duca; gente collettizia, radunata allora allora per la speranza di far bottino, e che vedevasi delusa e quasi schernita dal duca, malgrado la sua parola, e malgrado anche i loro diritti militari.

Mentre i Francesi riunivano al ducato di Milano, Brescia, Bergamo e Como, l'imperatore possedeva Verona, Vicenza e Padova; e il papa s'era reso padrone di Ravenna, Cervia, Imola, Faenza, Forl?, Rimini e Cesena. Ma, come accadde sempre alle forze collegate, che i separati interessi de' soci le scompongono ben tosto, cos? riusc? ai Veneziani di riprendere Padova. Poco dopo, segretamente il papa fece la pace co' Veneziani, ed ottenne la signoria delle citt? che aveva conquistate nella Romagna, con di pi? il patto che la repubblica non mai occupasse Ferrara. Cos? mancando il papa di fede alla Lega, questa cess?, e ciascuno si rivolse a provvedere a' casi suoi.

Poich? Giulio II ebbe mancato di fede al re di Francia, staccandosi dalla lega ed unendosi coi Veneziani, movendo gli Svizzeri, ed accostandosi agli Spagnuoli, alcuni cardinali, o partitanti della Francia, o malcontenti per la vita assai pi? militare che ecclesiastica del sommo pontefice, si radunarono in Pisa, ove si andava formando un concilio per deporlo, e dichiarar vacante la Santa Sede. In Pisa non si credendo eglino bastevolmente sicuri, passarono alcuni cardinali a Milano colla idea di quivi congregare il concilio. Come fossero accolti, lo scrive il Guicciardini. <>. Il cardinale Santa Croce, spagnuolo, era uno dei primi autori di tale scisma. I nostri ecclesiastici, immediatamente dopo la loro venuta, cessarono di celebrare le sacre funzioni, considerando come soggetta all'interdetto la terra ove abitavano questi prelati. Il governo comand? loro di continuare nel solito ministero, ed il Prato ci avvisa che i monaci Benedettini, Cisterciensi e Lateranesi, per non aver voluto ubbidire, ebbero i militari posti ad alloggiare sulle loro terre. Il giorno 4 gennaio 1512 si radun? nel Duomo questo concilio. Il cardinale di Santa Croce cant? la messa pontificale: il cardinale Sanseverino ed un altro cardinal francese servivano da diacono e suddiacono; v'erano altri due cardinali assistenti, e ventisette colle mitre bianche in testa, altri vescovi, ed altri abbati. Trattossi di portare giudizio su papa Giulio; ed eravi per notaio, che scriveva gli atti del concilio, un messer Ambrogio Bolfraffo. Tenne varie sessioni questo concilio, ed in una del giorno 21 d'aprile venne dichiarato il sommo pontefice sospeso dalla sua dignit? papale. Di tutto ci? fa menzione il Prato.

Dopo ch'ebbe di volo sottomesse le citt? di Bergamo e Brescia, il duca di Nemours Gastone di Foix pass? per Milano; indi rapidamente marci? a Ravenna. ? celebre la battaglia che vi si di? il 11 d'aprile, che in quell'anno fu il giorno di Pasqua, cio? quaranta giorni dopo la presa di Brescia; ed ? notissima non meno la morte che vi trov? Gastone, dopo di avere riportata una compiuta vittoria; n? appartiene alla storia ch'io mi son limitato a scrivere, la precisa narrazione di tai fatti. Marc'Antonio Colonna comandava nella citt? di Ravenna; il vicer? di Napoli Pietro di Navarra aveva il comando degli Spagnuoli; sotto di lui serviva Fabrizio Colonna. I collegati pontificii erano millesettecento uomini di armi e quattordicimila fanti. Usarono allora i pontificii de' carri falcati. I Francesi avevano, sotto il comando del duca di Nemours, il marchese di Ferrara e il cardinale Sanseverino. Oltre il duca di Foix, che vi fu ucciso, rimasero sul campo il signor d'Allegre con suo figlio, il signor Molard, sei capitani tedeschi, il capitano Maugiron, il barone di Grammont, e pi? di duecento gentiluomini di nascita distinta. Se tale sciagura non veniva a rovesciare tutt'i disegni de' Francesi, il papa Giulio II correva rischio grande di perdere lo Stato, e di ubbidire al sinodo tenutosi in Milano. Ma una giornata cambi? totalmente l'aspetto degli affari, e il languente comando de' Francesi pass? nelle mani del signor De la Palisse, che pu? essere collocato nella serie de' governatori di Milano, ed ? il sesto. La spoglia del duca di Nemours venne trasportata a Milano e sospesa entro di un sarcofago di piombo fra una colonna e l'altra nel Duomo, siccome eranlo i duchi di Milano. La cassa venne coperta come lo erano le altre pure, con uno strato magnifico di broccato soprarizzo, dice il Prato: eranvi ricamati i gigli d'oro; pendeva la spada pontificia col fodero d'oro acquistata a Ravenna; v'erano collocati all'intorno il vessillo del papa e quindici altre bandiere prese in quella battaglia. Ma lo spirito feroce di partito e la superstizione non lasciarono tranquille le ceneri di questo giovine eroe; gli Svizzeri, i quali, come or ora vedremo, s'impadronirono in breve di Milano, entrati nel Duomo, sormontandosi l'un l'altro, scomposero, rovesciarono quel monumento, e le spoglie vennero disperse. Cambiatasi poi nuovamente la fortuna, e ritornati i Francesi, fu innalzato un mausoleo magnifico di marmo alla memoria di questo principe, e collocato nella chiesa delle monache di Santa Marta. Di questo mausoleo ora non ne rimane che la statua, sotto della quale si legge l'iscrizione seguente:

I bassirilievi che adornavano la tomba, vennero, non saprei per qual destino, rotti e divisi; alcuni se ne veggono nella deliziosa villa di Castellazzo, altri sono presso alcuni privati. Sempre pi? si conosce che un buon libro ? il solo monumento durevole, col quale un uomo sia sicuro di tramandare ai secoli venturi la memoria di s? medesimo: i marmi, gli edifizi, le pubbliche fondazioni, tutto si scompone e disperde; ma Orazio aveva ragione di scrivere, ch'egli s'innalzava un monumento co' versi suoi pi? durevole de' bronzi.

Massimiliano Sforza dall'et? di nove anni sino al vigesimoprimo era stato esule dalla patria e ricoverato sotto la protezione dell'imperator Massimiliano, suo cugino. Egli, scortato dal cardinale di Sion e dagli Svizzeri, entr? solennemente in Milano il giorno 29 dicembre 1512. L'ingresso si fece al solito da porta Ticinese con pi? di cento gentiluomini che lo precedevano, usciti ad incontrarlo con un abito uniforme, composto dei colori medesimi che il duca aveva scelti per sue livree, cio? pavonazzo, giallo e bianco. I gentiluomini per?, oltre l'essere vestiti di seta, erano altres? ricamati d'oro; per lo che non si potevano confondere coi domestici del duca. Il duca cavalcava vestito di raso bianco trinato d'oro; portavangli il baldacchino i dottori di collegio. Cesare Sforza, fratello naturale del duca, portava immediatamente avanti di esso la spada ducale sguainata. Lo seguitavano il vescovo Valese cardinale di Sion, e i legati del re de' Romani, del re di Spagna e di altri sovrani. Non mancarono a tal funzione i soliti archi trionfali. Egli finalmente and? a risedere nella corte ducale; giacch? il castello, nel quale solevano alloggiare i duchi, era in potere de' Francesi. Il potere ducale Massimiliano lo ricevette dagli Svizzeri; e, come dice Guicciardini. <>.

Non sar? discaro a' miei lettori, s'io sottopongo al loro sguardo lo specchio delle spese fisse che si facevano sotto il duca Massimiliano dall'erario ducale. Questo prezioso aneddoto, siccome molt'altri, fu da me tratto dall'insigne collezione poc'anzi ricordata.

Le rendite poi del duca a quel tempo veggonsi nel codice medesimo ascendenti a scudi d'oro del sole 499,660, soldi 64, denari 8. Ora computati gli scudi del sole come erano, una mezza doppia, e i ducati in valore di un gigliato, apparisce che il duca aveva ogni anno una spesa eccedente di pi? di ventiquattromila ducati, quand'anche nelle spese di capriccio ei non avesse ecceduto.

Dopo la battaglia di Marignano il duca si ricover? nel castello di Milano con bastante presidio. Il cardinale di Sion prese seco il duca di Bari Francesco, e lo condusse alla corte imperiale, dove era stato educato, riserbandolo a tempi migliori pel caso che Massimiliano rimanesse in potere de' Francesi, che il cardinale odiava irreconciliabilmente. Gli avanzi di Marignano si ricoverarono nelle loro montagne svizzere, e cos? il Milanese rimase sgombrato ed aperto al dominio del re, tranne i castelli di Milano e di Cremona. Si vociferava non per tanto della disposizione di cinquanta altri mila Svizzeri a venire in soccorso del duca. Era recente la memoria di quanto aveva saputo fare Giulio II; e non era da fidarsi di Leone X, che gli era succeduto nel sommo sacerdozio. Un regolare assedio al castello di Milano, ben provveduto di viveri e di munizioni, portava molti mesi di tempo, ne' quali i maneggi della politica potevano annientare i vantaggi dal valore e dal sangue francese ottenuti nella recente segnalatissima vittoria. Voleva la ragione di Stato che il re offerisse a Massimiliano Sforza i compensi che egli aveva saputo chiedere, purch? cedesse il castello di Milano, rinunziasse alle pretensioni sul ducato, e riconoscesse il re Francesco per duca di Milano. Girolamo Morone, che stavasene nel castello col duca, fu mediatore di quest'accordo. Massimiliano Sforza rinunci? al re di Francia il ducato di Milano, gli consegn? il castello, pass? a terminar da privato i suoi giorni nella Francia con trentaseimila scudi di pensione, che assegnogli il re, il quale, oltre a ci?, s'obblig? di pagargli i debiti. Al Morone il re promise di farlo senatore e regio auditore. Il giorno 8 di ottobre del 1515 venne ceduto il castello ai Francesi; e non erano ancora compiuti i due anni da che n'erano usciti. E cos? termin? la sovranit? di Massimiliano Sforza, il quale per poco pi? di tre anni rappresent? la figura dell'ottavo duca di Milano; principe che venne definito assai bene dal Gaillard nella vita di Francesco I re di Francia colle seguenti parole: <>. Egli pass? nella Francia, dove sette anni prima era morto Lodovico suo padre; vi camp? quindici anni, essendo poi morto a Parigi il giorno 10 di giugno del 1530. Il re Francesco I volle mantener la promessa data per Girolamo Morone, il quale forse s'aspettava d'essere fatto senatore del senato di Milano: ma il re temeva il talento di quest'uomo, e non doveva dimenticare che Francesco Sforza era salvo: perci? lo destin? a risedere nel parlamento della provincia di Bresse, la quale forma una porzione del regno di Francia fralla Borgogna, la Franca Contea, la Savoia e il Viennese: alla quale onorevole destinazione mostr? di ubbidire il Moroni, e fingendo d'incamminarsi al nuovo suo destino, strada facendo, svi? e ricoverossi nel Modonese.

Nel tempo stesso in cui si assicur? il re di Massimiliano Sforza, e s'impadron? delle fortezze del Milanese, mosse colla maggiore sollecitudine i suoi maneggi per concertarsi col papa Leone X, detto prima il cardinal Giovanni de' Medici, che combatt? a Ravenna contro dei Francesi. Sommamente stava a cuore al pontefice rassicurare alla sua casa in Firenze quella sovranit? che effettivamente godeva, sebbene sotto apparenza di repubblica, e sempre per s? medesima precaria. Il re si fece garante di mantenere il governo di Firenze nel sistema in cui si trovava. La citt? di Bologna, e per la sua grandezza e per la situazione vantaggiosa, premeva al papa di possederla assai pi? di quello che dovessero interessarlo Parma e Piacenza. I Francesi avevano mantenuti i Bentivogli nella signoria di quella citt?, anche cogli ultimi fatti del duca di Nemours, che ne aveva discacciati i pontificii, i quali l'assediavano. Il re si mostr? disposto ad abbandonare i Bentivogli, e guarentire Bologna alla Santa Sede. In compenso il papa doveva riconoscere il re come sovrano del ducato di Milano e restituirgli Parma e Piacenza, come due citt? dipendenti dal ducato. Cos? venne concertato ed il trattato venne sottoscritto in Viterbo il giorno 13 di ottobre 1515.

Frattanto per? l'ostinatissimo cardinal di Sion moveva ogni mezzo alla corte imperiale per determinare cesare a scendere nell'Italia. Varii Milanesi, avversi alla dominazion francese, dimoravano negli Svizzeri, e procuravano di promovere gl'interessi della casa Sforza, tuttora intatti nella persona del duca di Bari Francesco, il quale non aveva abdicato, come aveva fatto il maggior fratello Massimiliano, la ragione sua alla successione nel ducato di Milano. La fiera risposta data dal re alla intimazione imperiale, sembrava che obbligasse quell'augusto a prendere il partito suggerito dal cardinale. Cos? appunto segu?, e nel 1516 l'imperatore Massimiliano scese in persona dal Trentino alla testa di sedicimila lanschinetti, quattordicimila Svizzeri, e un nerbo poderoso di cavalleria. Il maresciallo di Lautrec abbandon? Brescia, ch'ei teneva bloccata. I Francesi, vedendo l'imperatore che si accostava per impadronirsi di Milano, n? potendo difendere i borghi, presero il partito terribile di porvi il fuoco. Furano inceneriti i sobborghi di porta Romana, porta Tosa e porta Orientale. L'imperatore, il giorno 3 di aprile 1516, minacci? un assalto a Milano, ne intim? la resa, vantossi di voler rinnovare la memoria di Federico Barbarossa; ma il contestabile di Bourbon prese s? bene le sue misure temporeggiando, che l'imperatore, mancando di denaro, gli Svizzeri minacciarono di abbandonarlo. Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, informato di ci? e della inquietudine che ne provava l'imperatore, scrisse al colonnello Staffer, comandante degli Svizzeri imperiali, una lettera da cui risultava un concerto di tradire Massimiliano cesare e consegnarlo al contestabile; e questa carta venne confidata ad uno, il quale appostatamente si lasci? prendere. Poich? ebbe letto un tal foglio, l'imperatore talmente gli prest? fede, che, sotto apparenza di andare a prender denaro a Trento, se ne part?; e la sua armata, mancando di comandante, e, ci? che per essa era ancora peggio, di danaro, si sband? a saccheggiare Lodi e Sant'Angelo, e da' Francesi venne poi discacciata. Cos? termin? con poca gloria una impresa incominciata in guisa di doversene aspettare tutt'altro fine. Brescia fu da' Francesi tolta agl'imperiali. I Francesi operavano come ausiliari de' Veneziani; ma non ci fu modo di prendere Verona, difesa valorosamente da Marc'Antonio Colonna, degno nipote di Prospero. Lautrec la assediava. I Veneziani, collo sborso di centomila scudi, ottennero dall'imperatore che abbandonasse Verona; e fra l'imperatore, i Veneziani e i Francesi venne segnata la pace. Cos? i Veneziani riacquistarono la terra-ferma. Si fece la pace fra il re e gli Svizzeri. Si accord? un perdono generale, acciocch? tutt'i Milanesi che avevano preso partito contro della Francia, ed erano esuli e confiscati, ritornassero pacificamente ne' loro diritti nella patria. Si impose una tassa straordinaria per pagare le somme promesse agli Svizzeri; ed il maresciallo Trivulzio obbligava i cittadini ricchi ad imprestar danaro al regio erario, carcerandoli se ricusavano. Tali conseguenze portava la mancanza di un catastro, sul quale ripartire i carichi delle terre. I nostri vecchi credevano che quella oscurit? fosse un bene; quasi che meglio fosse un tributo arbitrariamente estorto colla forza militare, esercitata odiosamente sopra alcuni cittadini pi? accreditati, anzi che un proporzionato riparto sulle facolt? di ciascuno; e, quasi che la influenza che la difficolt? di riscuoterlo pu? avere onde evitarlo, sia paragonabile col disordine di tal forma di riscossione, inevitabile quando le urgenze pubbliche lo esigono.

FINE DEL TOMO SECONDO.

INDICE DI QUESTO TOMO

NOTE:

Cassone ecc. Agli uomini, cos? fossero prudenti! Matteo Visconti, vicario e rettore, o sia capitano, al podest?, ai sapienti ed anziani, ai consiglieri, ai consoli, al consiglio, al comune della citt? di Milano, e a Galeazzo, Luchino, ec.

E per questo tu, Matteo Visconti, e voi altri come sopra nominati, se non vi emenderete delle predette cose, scomunichiamo in perpetuo, anatematizziamo, e priviamo di qualunque commercio umano, della ecclesiastica sepoltura e dei sacri ordini.

Corio all'anno 1314.

Di pessimi delitti e di eresia, bench? non fosse colpevole.

Villani, Ughelli e Buonincontro Morigia.

Tom. X, pag. 547.

Tanto perch? il giudizio o la punizione del reato di sacrilegio spettano al foro ecclesiastico, quanto ancora perch?, nella vacanza dell'Imperio, come ancora al presente si riconosce vacante, a noi ed alla apostolica sede appartiene il reprimere l'ardire di questi facinorosi che nell'Imperio si trovano, il togliere di mezzo l'oppressione, e l'amministrare la giustizia agli offesi ed agli oppressi.

Il profano ed empio autore di grandi sceleratezze e di delitti, Matteo Visconti di Milano, rabbioso devastatore delle parti della Lombardia, ec.

Ughelli, col. 206.

Fece portare il vessillo della Chiesa sopra il tetto della casa, e col? fu proclamato che qualunque uomo o donna seguitare volesse quel vessillo, affine di distrugger? il detto Matteo e i di lui fautori, libero e mondo sarebbe tanto da colpa quanto da pena.

Pronunziando sentenza di scomunica, coi tesori della Chiesa aperti, e da qualunque parte arruolando soldati agli stipendi contra il predetto signor Matteo e i suoi seguaci e quelli della sua stirpe fino al quarto grado.

Edizione in quarto. Milano, 1771, pag. 29.

All'anno 1332.

Certamente consta che i censori della fede, nel condannare per titolo di eresia alcuni Ghibellini, indotti furono oltremodo dallo spirito di partito.

Trovato abbiamo essere iniquamente fatti i processi e le sentenze suddette, per certe ragioni legittime e giuste che in essi abbiamo ravvisate, e col consiglio del fratelli nostri e coll'autorit? apostolica, dichiariamo iniquamente fatti e nulli ed irriti gli stessi processi e i giudizi, fatti e pronunziati dai prefati arcivescovo, Pasio, Giordano, Onesto e Barnaba, e da ciascuno di essi intorno alle predette cose, in comunione o separatamente, contra i predetti Giovanni e Luchino e tutte le cose che sono seguite in forza di que' giudizi o per cagione di quelli.

Che gli altri tutti in probit? superava.

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