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Read Ebook: Storia di Milano vol. 3 by Verri Pietro

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Ebook has 677 lines and 103734 words, and 14 pages

STORIA DI MILANO

DEL CONTE

PIETRO VERRI

COLLA CONTINUAZIONE

MILANO PRESSO IL LIBRAIO ERNESTO OLIVA Contrada de' Due Muri, N. 1044 1850

Frattanto che il crudele Lautrec inferociva in Milano, l'armata de' confederati s'accost? alla citt?. Io, come sempre, cos? al presente tralascio di annoiare il lettore colla esatta descrizione delle mosse e dei minuti avvenimenti marziali. Pare che gli scrittori prendono un piacer singolare ad internarsi colle descrizioni in siffatte carneficine, e nelle gloriose scelleraggini della guerra. La filosofia c'insegna a non abituarci a mirare con insensibilit? simili sciagure; e forse il bene dell'umanit? suggerirebbe di non consecrarle alla gloria, ma di punirle col silenzio degli storici. L'armata de' collegati s'impadron? di Milano il giorno 19 di novembre 1521. Vi entrarono Prospero Colonna, il cardinale dei Medici, il marchese di Mantova, <>. Molte case vennero saccheggiate dagli Spagnuoli col pretesto che fossevi roba de' Francesi. Venne proclamato duca Francesco II Sforza, e Girolamo Morone vi comparve governatore in nome di lui. Lautrec lasci? nel castello di Milano un presidio francese, sotto il comando del capitano Mascaron, di nascita guascone. Cremona pure conserv? nel castello i francesi sotto il comando di Janot d'Herbonville; Como, Pavia, Lodi, Alessandria, Piacenza e Parma vennero tosto in potere della lega. Appena Leon X ebbe la nuova d'essersi occupate dalle armi pontificie le citt? di Parma e di Piacenza, e d'essere in potere della lega lo Stato di Milano, e proclamato lo Sforza, ch'ei mor? improvvisamente, all'et? di quarantaquattro anni, il giorno 1.? di dicembre 1521, non senza sospetto di veleno, per cui venne carcerato Barnab? Malaspina, suo cameriere, deputato a dargli da bere. La morte del sommo pontefice, che aveva somma influenza negli affari appena innoltrati, cagion? non lieve inquietudine negli animi.

Carlo V, per dare al re di Francia di che occuparsi nel suo regno, senza pensare al Milanese, sped? un corpo d'armati oltre i Pirenei. S'impadron? di Fonterabia, che si arrese al contestabile di Castiglia Inigo Velasco. Il comando di quell'armata venne in apparenza affidato al duca Carlo di Courbon, e, secondo il trattato, dovevano occuparsi For?t Beajolis, Bourbonnois, Auvergne ed altri feudi del duca, il quale voleva rapidamente marciare a Lione, e cos? di slancio occupare la Francia meridionale, promessagli da Carlo V, confidandosi molto nel cuore de' suoi sudditi, sdegnati contro l'ingiustizia del re, ed affezionati a lui ed alla sua casa. Ma Carlo V temeva ch'egli, poich? avesse ottenuto l'intento, non si accomodasse col re. Pescara eragli a fianco, e ne attravers? l'idea. Si progett? di occupare le fortezze poste alle spiagge, acciocch? l'armata per mare avesse la sussistenza, la quale sarebbe stata in pericolo di esserle intercetta, qualora avesse dovuto passar per le gole dei Pirenei. Si pose l'assedio a Marsiglia. Il re di Francia, animato dall'ammiraglio Bonnivet, si dispose a portare in persona la guerra nel milanese. Questo colpo, che sembrava ardito ed inconseguente, nacque da uno di quei segreti di Stato, i quali rare volte si indovinano dal pubblico, perch? non sono parti di una sublime politica, alla quale soglionsi attribuire forse con troppa generosit? tutte le risoluzioni de' gabinetti; e rare volte trovansi scrittori informati o coraggiosi a segno di pubblicarli. Il segreto di questa risoluzione ci vien palesato dallo storico Brantome nella vita dell'ammiraglio Bonnivet. Bonnivet fece venire al re la smania di vedere la signora Clerici, la pi? bella donna d'Italia, la quale esso ammiraglio aveva conosciuta ed amata in Milano prima che ne partissero i Francesi.

In mezzo a tai felici successi per? i Tedeschi presidiati in Pavia, mancando di paghe, si mostravano malcontenti; fecero quanto potevano i Pavesi radunando denaro per acquietarli. Il Leyva fece battere l'argenteria sua in forma di denaro, stampandovi il nome proprio; ma non bastavano questi sforzi a formare una somma corrispondente al loro credito. Il giorno 22 di novembre tumultuarono a segno di minacciare che avrebbero aperte le porte al nemico. Il comandante di questi Tedeschi aveva nome Arzanes, ed era l'autore principale di tal emozione. Il vicer? Lannoy, informato di tal pericolo, raccolse a stento tremila ducati d'oro; tant'era la penuria in cui trovavasi l'armata; e per fargli entrare in Pavia si serv? dell'opera di due semplici fantaccini spagnuoli, i quali cucirono nella sottoveste questa somma, e comparvero al campo francese come disertori, ed ivi, c?lto il momento d'una uscita che fecero gli assediati, s'immischiarono nella zuffa, e nel ritirarsi che fecero i cesariani, con essi entrarono in Pavia, e consegnarono il denaro al Leyva. La fede, l'onore, il nobile sentimento di questi due uomini mi ha fatto bramare di sapere i loro nomi; ma in varii scritti da me esaminati ho trovata bens? la virtuosa azione, ma non i due nomi che meritavano luogo nella memoria de' posteri. Con questo sebben tenue soccorso, distribuito come un pegno del maggiore che aspettavasi per una sovvenzione dei Genovesi, si calmarono gli animi; e pienamente poscia venne ristabilita la tranquillit? colla morte dell'Azarnes, procuratagli, come sembra, dal Leyva, insidiosamente e per veleno. I costumi de' tempi si conoscono dai fatti non solo, ma dal modo ancora col quale gli storici li raccontano. Senza verun sentimento di ribrezzo un tale attentato del Leyva si descrive come un rimedio prudentemente adoperato da lui.

Era impaziente il re d'impadronirsi di Pavia, e lo doveva essere, perch? frattanto s'andavano accrescendo le forze de' cesariani, siccome vedremo. Non giovando gli assalti, essendo delusa e riparata l'azione dell'artiglieria, reso vano il progetto di deviare il Tesino, allontanata la speranza di ottenere colla fame una citt? di cui il presidio colle frequenti scorrerie, per lo pi? fortunate, riportava nuovi soccorsi, pens? a vincere corrompendo il comandante. Questa avventura sar? da me riferita colle parole del Tegio. <>. Malgrado per? l'industria e il valore degli assediati i viveri erano assai pochi in Pavia. Si vendevano alle macellerie carni di cavalli e d'asini. Una gallina si vendeva per un ducato d'oro, le uova si vendevano venticinque soldi l'uno. Mancava il burro, non v'era lardo n? olio; di che Tegio minutamente c'informa. Tutto soffrivasi da'cittadini per?, anzi che ubbidire nuovamente al dominio di un re che Lautrec aveva reso odiosissimo. In mezzo alla pubblica miseria Matteo Beccaria, il giorno 12 dicembre 1524, insult? l'umanit?, dando un convito magnifico agli ufficiali del presidio. Il Tegio lo racconta come una magnificenza nel modo seguente. <>. Oggid? si conosce meglio la virt?, e meglio s'imparano i doveri sociali. Un pazzo che facesse altrettanto, avrebbe la esecrazione pubblica, e l'autore che lo riferisse non lo farebbe certamente con lode.

AVVERTIMENTO

POSTO IN CALCE DEL TERZO VOLUME DELL'EDIZIONE DI MILANO DEL 1824

Il canonico teologo Frisi, editore del secondo volume in-4, stampato nel 1798, fece alla fine di questo capitolo la seguente osservazione.

Per rendere maggiormente interessante questa Storia patria, si prosegue questo terzo ed ultimo volume colla continuazione del barone Custodi, che arriver? fino alla morte dell'imperatore Giuseppe II, valendosi del lavoro del canonico Frisi e degli altri materiali raccolti.

CONTINUAZIONE

DEL BARONE PIETRO CUSTODI

PREFAZIONE DEL CONTINUATORE

Nella seguente esposizione intorno all'opera del conte Verri e al merito di essa, e di quanto si ? fatto dal canonico Frisi e da me per proseguirla, sar? possibilmente breve, e per tal modo con minor noia de' lettori riuscir? pi? presto a sdebitarmi.

<>.

<<1515. Mor? Tristano Calco, n? pot? condurre a fine la Storia di Milano. Il conte Giulini ? morto pure a messo il suo lavoro. Sarebbe uno sproposito insigne se io pure facessi questa cattiva creanza di abbandonare a mezzo i miei cortesi lettori. Per servir bene la nobilt? loro bisogna passeggiare pi? che non faccio; mangiare pi? sobriamente di quello che non soglio; lasciar andare il mondo comodamente col suo moto: e allora staremo bravamente sani e saldi, ricordandoci che nostro padre ? morto di ottantotto anni, e nostro avo di novantadue. Esempi imitabili veramente!>>

Condusse il conte Verri il suo lavoro con sobria erudizione, con fina critica e con moderata filosofia, quale si conveniva alla condizione dell'illustre autore, e allo scopo da lui propostosi di ammaestrare dilettando. Sprezz? le assurde e magnifiche favole delle origini municipali, oggetto di comune ridicolo, compensato e reso muto in ciascun municipio dal pericolo di un eguale ricambio; svolse dalle tenebre de' primi e de' bassi tempi le istituzioni, le sorti, i costumi che diedero luogo allo sviluppamento della successiva nostra civilt?, talvolta nei fatti peggiore della prisca barbarie; chiar? la prepotenza dei pochi a rendere sottomessa la massa della nazione, e la reazione di questa, resa forte per l'industria, il commercio, l'unione, per ristabilire l'egualit? delle condizioni, siccome ? il voto della natura nella egualit? della specie. Dimostr? le vicende del clero, prima favoreggiato dai popoli come mediatore di pace, di concordia, di consolazione; poi accarezzato dai sovrani come strumento per abbassare l'orgoglio e contenere il soverchiar de' magnati; quindi costituitosi difensore dei popoli contro le pretese e le vessazioni del partito imperiale; reso in s?guito audace per l'acquistato ascendente; giunto a riclamare per s? maggiori prerogative di quelle contrastate ai nobili e agl'imperatori; e infine, nella lotta tra esso e i sovrani d'accordo coi popoli, sceso a moderare l'esorbitanza delle sue pretese, e a limitarsi per gradi ad una preminenza di considerazione, che sola gli ? dovuta. Narr? come lo Stato di Milano, primo tra gli altri d'Italia, al pari di essi, per la libera scelta, per i compri voti, per l'aperta forza, pass? alla piena obbedienza di coloro che, a riguardo de' propri meriti e della dignit? del casato, erano stati promossi ai consigli ed alla direzione delle forze del comune; come i popoli furono per lungo tempo zimbello dell'ambizione, de' raggiri e de' tradimenti de' loro nuovi tiranni; e come questi furono successivamente con giusta vicenda traditi e sottomessi da tiranni maggiori, e per ultimo tutti assorbiti nel vortice delle grandi monarchie, che avrebbero pur recato ai popoli la pace da tanto tempo sospirata, se non avessero scelta l'Italia a teatro delle loro interminabili querele, non che de' capricci e della rapacit? de' loro generali e governatori. Era entrato l'illustre autore a svolgere gli accidenti di quest'infausto periodo della nostra storia, quando, sorpreso dalla morte, fu causa che al canonico Frisi e a me toccasse l'incarico di un proseguimento, ingrato e difficile per il soggetto, e assai pi? pericoloso per il confronto.

L'opera da me impiegata fu di due maniere. Per l'epoca dal 1525 al 1565, intorno alla quale esisteva la stampa del Frisi, mi circoscrissi a ristabilire nella loro integrit? le parti spettanti al Verri col confronto delle minute da lui lasciateci; e dove mi trovai mancante di questa scorta, ridussi il testo alla dicitura che mi ? sembrata pi? naturale e conveniente, seguendo l'ordinario lume della critica, che facilmente mi ha insegnato a distinguere lo stile stemperato e da predica, ed a sostituirgli quello di una spontanea e compendiosa narrazione. Il confronto che voglia farsi tra la stampa frisiana e la mia, ne mostrer? la somma differenza. Il togliere, l'aggiungere, il mutare fu opera di lunga lena e di gran noia, e quel ristauro import? una fatica assai maggiore, che non sarebbesi usata nel fare di nuovo. E il fu ancora di pi?, attesa la fedelt? propostami di conservare scrupolosamente il testo del Verri, e perfino qualche trascuratezza di lingua, riflettendo che l'emendare questi n?i nel solo terzo volume avrebbe recato difformit? in confronto degli altri; e sono altronde macchie lievissime nel nostro storico presso qualunque lettore che nelle storie richieda, come principal merito, pensieri, nervo, stile, e non badi che per ultimo alle parole.

Se le accennate ed altre ommissioni furono volontarie, di altre diverse hanno debito le circostanze; ma sarebbe ora superflua cura il farne discorso. Chiuder? quindi desiderando che, nell'accingersi a giudicarmi, di due cose siano avvertiti i miei lettori: l'una, che loro si presenta l'opera di un novizio in questa parte di studi; l'altra, che vogliano disporsi ad una moderata aspettazione dal lato dell'importanza de' fatti che ho avuto a narrare, i quali non avrei potuto rendere pi? copiosi e interessanti, se non imitando il comune difetto degli scrittori di storie particolari, coll'innestare nel mio lavoro i fatti della storia generale.

CONTINUAZIONE

Ho procurato d'indagare come mai il duca Francesco Sforza, principe che non mancava di valore, s'accontentasse di starsene quasi ozioso nel Cremonese, mentre si disponeva il gran fatto d'armi che doveva decidere del destino dello Stato suo. L'armata cesarea era comandata dal vicer? di Napoli don Carlo Lannoy: ivi trovavasi il duca di Bourbon, ivi il famoso don Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara, ivi il marchese del Vasto; ed il duca Sforza, che alla Bicocca e ad Abbiategrasso aveva superati coraggiosamente i nemici, ora erasi limitato a sgombrare il fiume Po da ogni comunicazione co' Francesi. Non mi ? accaduto di trovare che alcuno degli scrittori avesse la medesima curiosit?. Quindi o convien supporre che gl'imperiali per gelosia e per sospetto non lo bramassero, ovvero ch'egli non vedesse di sua convenienza il trovarsi in un esercito, nei suoi Stati, senta averne il comando, e senza nemmeno avere il titolo di generale al servigio di cesare.

Ai sovradetti indebolimenti dell'armata francese aggiungasi che Sant'Angelo sul Lambro era presidiato da ottocento francesi, sotto il comando di Pirro Gonzaga, e da ducento cavalieri. Fu preso d'assalto; e il marchese di Pescara fu il secondo che ascese le mura, ed ebbe l'abito forato da due archibugiate; la guarnigione uscinne disarmata, coll'obbligo di non servire per un mese. Casal Maggiore era occupato da' Francesi sotto il comando di Giovanni Lodovico Pallavicino, che lo presidiava con duemila fanti e quattrocento cavalli. Alessandro Bentivoglio, alla testa d'un corpo d'Italiani fece, con un fatto d'armi, prigioniero il Pallavicino, caduto da cavallo, e disperse affatto il presidio francese. Prima che si avanzasse l'armata cesarea a Pavia, conveniva assicurarsi le spalle e non lasciar dietro i Francesi in que' luoghi, d'onde difficoltavano le provvisioni. Se i Francesi avessero avuta la stessa precauzione, non si sarebbero innoltrati a Pavia, lasciando presidiata Alessandria da Gaspare del Maino, il quale, siccome ho accennato poc'anzi, batt? e disarm? un corpo di duemila soldati, che erano in marcia venendo dalla Francia per unirsi al re. Oltre a questi primi danni, cio? al distacco del principe Stuardo di Scozia, spedito verso Napoli, alla perdita di due presidii di Sant'Angelo e Casal Maggiore, alla perdita di duemila sorpresi verso Alessandria, un nuovo accidente sventurato accadde al re e forse pi? gravoso, cio? che quattromila soldati grigioni, che erano al di lui stipendio, se ne partirono quasi improvvisamente. Giovanni Giacomo Medici, che s'era reso signore del castello di Musso, con insidie s'era altres? reso padrone di Chiavenna, citt? importante dei Grigioni. Per la qual cosa con lettere della loro repubblica vennero immediatamente chiamati i Grigioni in soccorso della patria, sotto pena di infamia e di confisca. Cos? l'esercito francese si ridusse di numero quasi uguale al cesareo.

Il re faceva prodigi di valore, e si riconosceva da un manto di tela d'argento , e dal cimiero fregiato di copiose e lunghe piume. Di sua mano egli uccise Castriotto, marchese di Sant'Angelo, ultimo discendente dagli antichi re d'Albania, che contava per suo avo paterno Scanderbeg. Il re si batt? lungamente con un gentiluomo della Franca Contea, per nome Andelot, e lo fer? nella faccia. Il marchese di Pescara con mille e cinquecento archibugieri baschi piomb? sulla gendarmeria del re. Costoro, scaricato l'archibugio, con mirabile disinvoltura si nascondevano, caricavano, e ritornavano a ferire. Il re, per coglierli, dilat? i suoi gendarmi; e gli archibugieri, penetrati e sparsi per entro, in meno d'un'ora rovinarono il corpo invincibile della gendarmeria francese. La Tremouille cadde ferito nel cranio e nel cuore. Il gran scudiere Sanseverino cadde moribondo. Guglielmo di Bellai Langey, vedendolo cadere, scese dal cavallo per dargli soccorso: <>. Luigi d'Ars, il conte di Tournon caddero morti. Il conte di Tonnerre appena pot? essere riconosciuto fra i morti, tante erano le ferite della sua faccia! Il barone di Trans stavasene all'ala sinistra sotto il comando del duca d'Alen?on, assai malcontento di dover trovarsi nella inazione. Il figlio suo unico era nel corpo del re, e, dopo d'aver combattuto ed esaurite le sue forze, si ritir? presso del padre. Il barone di Trans gli chiese dove fosse il re: <>, rispose, ansante e grondante di sudore il figlio. <>. Il figlio Trans s'ingolfa fra i combattenti, s'accosta al re, e per un colpo d'archibugio cade a' suoi piedi.

Il duca Carlo d'Alen?on, primo principe del sangue, in vece di porgere soccorso al re, si ritir? colla sua ala di cinquecento cavalieri, <>. Tagli? il ponte di legno che poco di sotto a Pavia era fabbricato a San Lanfranco, acciocch? non l'inseguissero i cesarei. Perci? molti francesi, ivi giunti sulla speranza di passarvi sicuri all'altra sponda, dovettero avventurarsi ai gorghi del fiume e sommergervisi; poi vi erano a forza spinti dai fuggitivi, che colla fiducia stessa correvano sulle loro traccie, e vi si affogavano. Gli Svizzeri, vedendo scoperto il loro fianco sinistro per la ritirata del duca, e credendosi a tradimento sacrificati all'odio dei Tedeschi di Frandsperg e Sith, che marciavano loro incontro, non vi fu pi? modo di tenerli. Diespach disperatamente si scagli? solo a farsi uccidere dai soldati di Frandsperg. Abbandonato il re a pochi, perirono intorno di lui il maresciallo di Chaumont, d'Amboise, Estore di Bourbon, il visconte di Lavedan, Francesco conte di Lambesc, fratello del duca di Lorena e del conte di Guise, ed una moltitudine di valorosi cavalieri. Il Bastardo di Savoia, gran maestro di Francia, vi mor?. Il maresciallo di Foix, col braccio fracassato e mortalmente ferito, galoppava furiosamente per rinvenire l'ammiraglio Bonivet, al quale attribuiva il disastro, per traforarlo col braccio che gli rimaneva, e morire contento d'aver vendicato la Francia; ma perdette tanto sangue, che cadde, e fu portato a Pavia, dove mor? nella casa della contessa di Scaldasole. Bonivet, vedendo perduta ogni speranza, si scagli? quasi inerme fra i lanschinetti del duca di Borbone, e si fece uccidere. Il duca di Borbone bramava di far prigioniere Bonivet, e vedendolo steso morto esclam?: <>

Il re, tenuto sempre di vista onde farlo prigione, rimase solo in faccia de' nemici, avendo un parapetto di morti avanti di s?. Raggiunto in un prato paludoso da un colpo di fucile, gli cadde finalmente sotto il cavallo. Egli aveva due ferite in una gamba. Caduto che fu, venne attorniato da un nembo di soldati tedeschi e spagnuoli; se lo disputavano. Il re, ferito come era anche in fronte, combattendo a piedi, si difendeva colla mazza di ferro. Per buona sorte sopraggiunse il Lannoy, al quale egli si arrese prigioniero; e fu opportuno il di lui arrivo, poich? altrimenti correva pericolo il re di essere fatto in pezzi, tanta era la voglia che ciascuno aveva di possedere un tal prigioniero. Due cavalieri spagnuoli, Giacomo ossia Diego d'Avila, e Giovanni Urbieta Biscaino, conosciuto chi egli era, lo aiutarono a salire a cavallo; ma il d'Avila gli tolse la spada e l'Urbieta la collana del toson d'oro. Il re rimase spogliato di quanto aveva di prezioso. La di lui sopraveste fu squarciata in cento parti, e i pennacchi dell'elmetto reale furono spaccati in minimi frammenti, gloriandosi ciascuno di portare una memoria di cos? illustre presa. Don Carlo Lannoy, smontato da cavallo, baci? rispettosamente la mano al re inginocchiandosi; altrettanto fecero i primi signori che ivi sopraggiunsero. Questa memorabile battaglia non dur? due ore; e rimasero in essa estinti novemila del campo francese. I feriti e prigionieri furono, oltre il re di Francia, Enrico d'Albret, re di Navarra, il gran Bastardo di Savoia, il principe di Lorena, l'Ambricourt, Bonavalle, San Paolo, Galeazzo e Bernab? Visconti, Federico Gonzaga da Bozzolo, Girolamo Aleandro, vescovo di Brindisi e nunzio del papa, e varii altri signori. Degli imperiali solo mille e cinquecento rimasero morti con due soli capitani di conto, cio? don Ugo di Cardona e Ferrante Castrioto, marchese di Sant'Angelo.

Questa pericolosissima sciagura del Morone ebbe origine dallo sdegno per le esorbitanti vessazioni con cui l'armata imperiale smungeva lo Stato di Milano. Francesco Sforza non aveva che il nome di duca, sebbene l'imperatore avesse preso le armi per lui. L'imperatore avea posto un tributo di centomila ducati sul milanese, indi chieste somme esorbitanti allo Sforza per l'investitura. Inoltre il duca, vedendo vessati sopramodo i suoi sudditi dall'esercito cesareo, avea fatto un accordo col marchese di Pescara di pagargli altri centomila ducati, con che, represse tutte le estorsioni, si prendesse egli la cura di provvedere l'esercito di viveri e di stipendi.

Durante questo carteggio tra il papa e Carlo V, i Veneziani, comandati dal duca d'Urbino, presero Lodi per sorpresa, e con segreta intelligenza di Lodovico Vistarini, stipendiato cesareo, che trad? il suo padrone. I Pontificii a tale annunzio passarono il Po a Piacenza e si unirono coi Veneti; e tutti di concerto posero il campo a Marignano. Frattanto i cittadini milanesi, spogliati delle armi e costretti ad alloggiare nelle loro case i soldati, che ne depredavano a man salva ogni cosa, furono ridotti a tali estremi, che non rimaneva altro rimedio, fuorch? <>. In Milano non vi era che penuria e desolazione; e la fuga stessa non era sufficiente presidio, poich? gli Spagnuoli diroccavano le case dei cittadini che altrove ricoveravansi. Riusc? tuttavia di conforto ai Milanesi l'impensata spedizione da Madrid del duca di Borbone con centomila ducati per le paghe dell'esercito, sembrando loro che tale sussidio potesse mitigare in parte tante gravezze ed acerbit?. Egli avea la promessa dall'imperatore di essere investito nel ducato di Milano, qualora ne scacciasse lo Sforza. Il Borbone, che sotto Francesco I dieci anni innanzi era stato governatore di Milano, venne accolto come un padre dai Milanesi, che da lui solo speravano la cessazione de' mali enormi cui erano sottoposti. Il Guicciardini reca per esteso le supplicazioni fattegli dai principali cittadini milanesi, ai quali il duca rispose commiserando la loro infelicit?; ma aggiunse che il solo mezzo di tenere in freno i soldati era quello di pagarli; che non bastando il danaro che avea seco recato per soddisfare gli stipendi arretrati, gli abbisognavano ancora diecimila ducati, paga d'un mese, mediante la qual somma avrebbe fatta uscire dalla citt? tutta la soldatesca. Con molto stento si radun? questa somma dai Milanesi, e il duca, nel riceverla, promise di far uscire dalla citt? i soldati, aggiungendo che <>. Si consider? dal volgo come una punizione celeste la morte che Borbone incontr? poi nello scalare le mura di Roma nel 1527, perch? non fu leale alla fatta promessa. Guicciardini conviene che il duca di Borbone diede le disposizioni perch? fosse tolto l'alloggiamento militare dalla citt?; <

Intanto il duca Francesco II trovavasi a mal partito, mancando omai di viveri nel suo castello. Quindi fece uscire ducento uomini di notte, i quali attraversarono, dove meno era custodito, il passo, e quasi tutti giunsero all'armata de' collegati, rappresentando loro la estremit? alla quale era ridotta la guarnigione, alleggeritasi anche a tal fine con questa diminuzione. S'avanzarono verso Milano i collegati, e posero il quartiere al Paradiso, di contro a porta Romana. Dopo tre giorni Giovanni Medici si present? alla porta, e co' cannoni cominci? a tentare di atterrarla e farsi adito. I cesarei invece spalancarono la porta. Questo fatto sorprese gli aggressori, i quali, temendo insidia, non osarono di entrare; all'opposto uscirono i cesarei e fecero piegare il Medici co' suoi; per lo che l'indomani tornarono i collegati a scostarsi ed a ristabilire il campo a Marignano, aspettando il soccorso degli Svizzeri che stava per mandare la Francia. Sicch? l'infelice Francesco Sforza, mancando totalmente di viveri, de' quali appena era rimasta la provvisione di un sol giorno, si trov? costretto ai 24 luglio di rendere il castello di Milano per capitolazione, salva la vita, la libert? e la roba sua e di buon numero di nobili che quivi avevano voluto correre la fortuna del loro principe. Nella capitolazione erasi convenuto che la citt? di Como si lasciasse allo Sforza con trentamila annui ducati, infino a che cesare avesse conosciute e giudicate le accuse fatte alla fedelt? del duca; ma ceduto ch'ebbe il castello, se gli manc? dai cesarei alla promessa. Il duca Francesco pass? nel campo degli alleati, indi a Lodi, nella quale citt?, cedutagli dai Collegati, ratific? per istrumento pubblico la lega italica stabilita nel congresso di Cugnac. Breve fu la dimora dello Sforza in Lodi, mentre giunti finalmente a Marignano quattordicimila svizzeri assoldati dalla Francia in soccorso degli alleati, non fu loro difficile, dopo diversi attacchi e vigorose ripulse, di costringere Cremona alla resa. Questa segu? ai 25 settembre del 1526, coll'uscir libero il presidio, a patto che per un anno non guerreggiasse nella Lombardia. Cremona fu pure dai Collegati consegnata al duca Francesco Sforza. Alla nuova dell'arrivo del rinforzo svizzero a Marignano, con che l'esercito della lega si accrebbe a pi? di trentamila fanti, oltre la cavalleria, parimenti superiore di numero alla cesarea, le forze imperiali, limitate a cinquemila spagnuoli, quattromila tedeschi e circa seicento cavalieri, si accamparono fuori di Milano, onde star meglio in guardia contro un nemico tre volte pi? poderoso e una citt? male affetta.

Part? adunque da Milano il Borbone verso la met? di gennaio del 1527, e and? ad unirsi verso Piacenza coi tedeschi di Giorgio Frandsperg, seco conducendo cinquecento uomini d'arme, molti cavalli leggieri, quattro o cinquemila spagnuoli, e circa duemila fanti italiani; i quali, uniti co' tredici o quattordicimila fanti del Frandsperg, formarono un potentissimo esercito; e d'accordo si proposero, come fecero, d'inoltrarsi a Firenze ed a Roma, depredando e saccheggiando per via tutte le citt? e luoghi del loro passaggio. Il Frandsperg si ammal? in cammino, e fu trasportato a Ferrara per farsi curare. Chi il disse col? morto d'apoplessia nel mese di marzo 1527, fu indotto in errore, mentre trovansi lettere di questo capitano dei tedeschi, in data di Milano, delli 25 luglio dell'anno seguente. Il Borbone, costante nel suo proponimento, messosi alla testa di tutta quell'armata, attravers? rapidamente gli Appennini, e s'incammin? verso Firenze. La qual citt? trovando egli, fuor d'ogni suo avviso, ben munita e pronta alla difesa, avendo l'armata della lega vicina, neppur tent? di accostarvisi. Giunto sotto Roma, il duca sped? un araldo chiedendo al papa che mandassegli alcuno per concertare seco le condizioni della pace. Ma nemmeno si permise che l'araldo entrasse in citt?: tanto credevansi il papa e i Romani sicuri, perch? i cesarei, senza artiglieria e mancanti di tutto, non potevano fare assedio n? persistere, essendo vicino e pronto al soccorso l'esercito confederato. Questa estremit? di miseria de' cesarei fu appunto motivo della presa di Roma, poich? la tentarono con sommo impeto, da disperati.

Appena il duca di Borbone fu alle mura di Roma, che fu ai 5 di maggio, fece apprestar le scale, ed egli alla testa, spinse l'intiero esercito ad entrar per forza dalle mura pi? basse nella citt?; ma ferito in un fianco da un'archibugiata, rimase estinto nella fresca et? di trentott'anni. Il principe Filiberto di Oranges gli subentr? nel comando, e diresse il sacco di Roma, che dur? pi? settimane. Il duca d? Borbone, <>. Giunto a Carlo V la nuova del sacco di Roma, ordin? pubbliche preghiere in tutta la Spagna per la liberazione del sommo pontefice, assediato in castel Sant'Angelo dalla sua armata. Forse queste dimostrazioni non furono una ipocrisia, come taluno ha creduto; ipocrisia che non avrebbe fatto altro effetto, se non quello di macchiare la gloria di Carlo V, degradandolo alla furberia d'un meschino e debole principe. Probabilmente n? Carlo V comand? quest'impresa, n? se ne compiacque; poich? l'insulto all'inerme sacerdozio non poteva ascriversi ai fasti della gloria, e Carlo imperatore troppo la conosceva e l'amava. Che che ne sia, il papa, per liberarsi, fu costretto a sottoscrivere nel mese di giugno una capitolazione imperiosa e gravosissima col principe d'Orange e co' principali offiziali, oltre al pagare fra tre mesi all'armata quattrocentomila ducati.

Mentre il duca di Borbone aveva condotte a Roma le principali forze di cesare, e che stavasene il Leyva a Milano con pochi armati, i Veneziani s'inoltrarono, lo Sforza uscissene dal Cremonese, e si pens? di cogliere il momento per discacciare l'imperiale potenza dall'Italia. Anche il re cristianissimo a tempo assai opportuno, cio? verso la fine di luglio, mand? in Italia Odetto di Fois, signore di Lautrec, con mille uomini di armi e ventiseimila fanti. Pass? questi le Alpi con apparenza di liberare il papa; ma si trattenne in Lombardia, prese Alessandria e Vigevano e si impadron? della Lomellina. Genova pure ritorn? ai Francesi, che ne affidarono il comando al maresciallo Teodoro Trivulzio. Tutte le altre fortezze erano rimesse nelle mani di Francesco Sforza, perch? i Veneziani e gli altri collegati non avrebbero tollerato che rimanessero in potere dei Francesi. Lautrec pose l'assedio a Pavia. Il conte Lodovico Barbiano di Belgioioso la difendeva con diecisette bandiere d'italiani, ma non complete, e tutte non formavano pi? di mille combattenti. Lautrec batteva la parte pi? forte, cio? il castello, affine di prendere tutto in un sol colpo. I cittadini pavesi odiavano i francesi, e combattevano come soldati. Respinsero tre assalti con gloria, e nove insegne tolsero ai nemici. Il conte Lodovico ne rese informato il comandante supremo don Antonio Leyva, che governava Milano, <>. Si impadronirono pertanto i Francesi di Pavia il giorno 5 di ottobre del 1527; e a pretesto di espiar essi la precedente disfatta e la presa del loro re, la citt? fu crudelmente posta a sacco, e poco manc? che non rimanesse affatto distrutta. Il Lautrec il 18 ottobre abbandon? Pavia rovinata, lasciando Milano bloccata e mancante di viveri, s'avvi? a Piacenza, dove aggiunti alla lega i duchi di Ferrara e di Mantova, prosegu? la sua marcia alla v?lta di Napoli. Giovandosi il Leyva della partenza di Lautrec, usc? da Milano, respinse alcuni corpi nemici e s'impossess? di Novara, scacciandone il presidio sforzesco coll'aiuto di Filippo Torniello.

L'unico vantaggio che risult? da questi alternanti successi furono le trattative di pace intraprese tra l'imperatore Carlo V e Francesco I re di Francia. Ma s? bella speranza si dilegu? quasi appena mostratasi; tantoch? nel giorno 25 di gennaio del 1528 gli ambasciatori della Francia stimarono in nome della lega nuova guerra all'imperatore, e si riapr? pi? terribile che mai questo marziale teatro, specialmente ad esterminio della misera Lombardia. L'imperatore, vedendo il re di Francia mancare francamente alle promesse e ai giuramenti, prese il ministro francese da solo a solo in Granata, e dissegli: <>. Questa commissione di? luogo alla missione di due famose lettere tra i due sovrani, che ci furono conservate dallo storico Sepulveda.

Sentivano pi? che mai i Milanesi il flagello della fame, essendo impedita la comunicazione con Lodi e con altre citt? e terre dello Stato, quando Gian Giacomo de' Medici, guadagnato da Antonio de Leyva, che gli consent? di fare la conquista di Lecco, abbandon? il partito francese e si colleg? cogl'imperiali: solite incostanze degl'avventurieri di que' tempi. In benemerenza di che, radunata in quelle parti gran copia di grano, lo sped? in soccorso del milanese. Questo sussidio pose in grado Antonio de Leyva nel mese di maggio di occupare Abbiategrasso, e di riacquistare Pavia, presidiata, ? vero, da' Veneziani per Francesco Sforza, ma quasi vuota d'abitatori. Col? s'inoltrarono gl'imperiali sotto il comando del conte Lodovico di Belgioioso con alcune bandiere tedesche, ed il giorno 25 se ne impadronirono senza contrasto. Pavia, quantunque gi? esausta, non and? immune da un nuovo saccheggio. Nel seguente mese mosse dalla Germania in rinforzo degl'imperiali il duca di Brunswich con quattordicimila tedeschi, destinati pel regno di Napoli, dove era pur giunto da Roma, dopo una permanenza di dieci mesi, il principe di Orange coll'avanzo del suo esercito, ridotto, per la pestilenza, a soli dodicimila combattenti. Il duca di Brunswich, saccheggiati i territori di Brescia e di Bergamo, ed entrato nel milanese, si pose all'assedio di Lodi, presidiato da Gian Paolo Sforza, fratello naturale del duca di Milano. Egli era stato persuaso dal Leyva a trattenersi nel milanese per sgombrare i collegati da alcune fortezze che loro rimanevano; il che fa conoscere che veramente i generali di Carlo V operavano con molta indipendenza. In una monarchia vasta non pu? a meno che ci? non accada, e nell'impero romano ne sono mille esempi. Brunswich e i suoi si dileguarono tosto, assaliti da una specie di peste, detta male mazzucco, che in meno di otto giorni fece di essi una orrenda strage, cosicch? il residuo di quell'armata continu? sollecitamente la via del suo destino. Ma intanto la visita del Brunswich aiut? a consumare i sussidii di vettovaglie che aveva dapprima ricevuti Antonio de Leyva, il quale non avendo pi? mezzi onde pascere le sue truppe, n? sapendo pi? come smungere le borse degl'infelici milanesi, trov? l'espediente di proibire, sotto pena della vita e della confisca de' beni, che niuno potesse tener farina ne far pane in casa; quindi impose una rigorosa ed esorbitante gabella in tutto lo Stato sul pane venale. Queste vessazioni sono cos? narrate dal Guicciardini: <>.

Mentre le cose nel milanese erano giunte a questo estremo, e i Francesi facevano progressi nel regno di Napoli, il Lautrec mor? col? di malattia il 7 agosto del 1528. Gli successe monsignor di Vaudemont, che presto egli pure mor?, e rimase a comandare l'armata francese nel regno il marchese di Saluzzo, dove per i cesarei comandava il principe d'Orange. Ma dopo tante speranze di conquistare quel regno, le forze galliche, diradate prima dalla pestilenza, furono annichilate vicino ad Aversa il 28 agosto; tutta l'armata si rese a discrezione, ed i soldati vennero lasciati in libert? con un giubbone ed un bastone bianco in mano. Frattanto un altro corpo di francesi, comandati dal conte di San Pol, entra in Lombardia, prende Sant'Angelo, Marignano, Vigevano, ricupera Pavia, e si presenta a Milano. Ma il pericolo di perder Genova fece s? che i Francesi col? celeremente si trasferissero. Genova, coll'aiuto dell'immortale Andrea Doria, scosse ogni giogo straniero, e soppresse lo spirito di fazione in guisa che non vi rimase pi? dopo quell'epoca vestigio alcuno de' Guelfi e Ghibellini, n? degli Adorni e dei Fregosi. Si riconciliarono le famiglie, si form? un sistema politico, cio? un determinato corpo presso di cui risiedesse la sovranit?, si stabil? il numero delle cariche e l'autorit? di ciascuna e il metodo delle elezioni. Tutto ci? fu per opera di Andrea Doria che ricus? ogni carica. Da quel punto Genova divent? libera e repubblica, e i Francesi la perdettero per sempre. Il conte di San Pol, di ritorno dalla infausta spedizione di Genova, ridusse il Leyva alle sole citt? di Milano e Como; il rimanente non era pi? dell'imperatore. Leyva coglie il momento in cui il conte di San Pol coi Francesi era a Landriano, avendo staccato una parte de' suoi; lo batte, lo prende prigioniere coll'artiglieria e tutte le bagaglie; i Francesi furono totalmente disfatti. Il Leyva era tormentato dalla podagra, ed era portato sopra una sedia da quattro uomini.

Disposte cos? le cose a diffondere la sospirata pace per tutte le contrade d'Italia, fu trascelta la citt? di Bologna, dove Carlo V avesse a ricevere di mano del pontefice la corona imperiale. Verso la met? d'agosto navig? egli da Barcellona a Genova con mille cavalli e novemila fanti, condotti seco per mare su ventotto galee, sessanta barche e molti altri navigli. Il papa sped? col? tre cardinali legati, Alessandro Farnese, che poi fu suo successore nel papato, Francesco Quignone, spagnuolo, e Ippolito Medici. Cesare, pochi giorni dopo, pass? a Piacenza. Antonio de Leyva vi fu ben accolto dal suo sovrano, n? gli fu difficile di ottenere l'assenso di riprender Pavia; cosa che gli premeva assaissimo per suo privato interesse. Ritornato in s?guito il Leyva al governo del milanese, guid? le sue genti alla conquista di Pavia, che presto riebbe e senza sangue, atteso che Annibale Picenardo, comandante di quella citt?, disperando di poterla difendere dall'aggressione de' cesariani, la cedette loro senza grande resistenza.

Prima di conchiudere questo capitolo, giova di riferire il seguente fatto, narrato dal Grumello, e che potrebbe servire di argomento per una tragedia. Un mercante, nativo di Casale Monferrato, chiamato Scapardone, da povero divent? padrone di pi? di centomila scudi. Allora lo scudo era mezza doppia, e anche da ci? si vede qual messe si raccoglieva allora nel commercio. Mor? questo ricco mercante, lasciando un'unica sua figlia erede. Questa era una giovine molto bella e ancora pi? gentile, graziosa e amabile. Fu maritata in Milano al signor Ermes Visconti, nobilissimo e ricchissimo, che la lasci? giovine e vedova senza successione. Spos? poi un savoiardo, monsieur di Celan, uomo degno e benestante; ed essa, dopo qualche tempo, fugg? dal marito e port? seco gioie e denari. Si rec? a Pavia, e abit? in casa di Ascanio Lonate, suo parente, ed era in Pavia corteggiata da ogni ceto di persone. Pass? indi a Milano. Il signor di Massino, che era venuto dalla Spagna col duca di Borbone, amava madama di Celan; il conte di Gaiazzo era pure nel novero dei suoi adoratori, e quest'ultimo era preferito; per lo che sdegnato, il Massino la abbandon?, n? si conteneva di sparlare di lei. Ella, di ci? informata, determin? di vendicarsi colla di lui morte, e anim? il Gaiazzo a meritarsi sempre pi? l'amor suo coll'eseguirla. L'amante non si oppose, temporeggi?, lasciava sperare, ma non volle eseguire il delitto. La Celan, doppiamente sdegnata, cerc? di mettere la bellezza a prezzo di un omicidio, e don Pedro de Cardono, figlio del conte Collinsan, giovine valente, accett? il crudel partito, e uccise Massino. Il duca di Borbone volle che non rimanesse impunito l'atroce fatto. Madama di Celan fu imprigionata nel castello, regolarmente processata e conosciuta rea; una sera il capitano di giustizia and? in castello con un sacerdote e due monache, le annunzi? la morte; essa chiese se con denari si potesse salvarla, e le fu risposto che tutto l'oro del mondo non lo poteva. Le fu troncata la testa sul rivellino del castello, indi nella chiesa di San Francesco stette esposta, e pareva che fosse viva. Svegli? molta compassione.

Valse finalmente a calmare le ire e l'animosit? del Leyva contro lo Sforza la munificenza di cesare, che gli assegn? in feudo la citt? di Pavia e la contea di Monza, colla dipendenza dal duca Francesco II; donazione confermata in appresso dallo Sforza con diploma segnato in Vigevano il 6 febbraio 1531.

Terminato il congresso di Bologna, il duca Francesco Sforza si restitu? pure ne' suoi Stati, donde in settembre si rec? a Venezia per alcune pratiche tendenti a conservare il beneficio della pace; ma ben tosto ritorn?. Rivoltosi alla interiore sistemazione dello Stato, di? nuova forma al senato, elesse abili magistrati, e soprattutto un abilissimo capitano di giustizia, Giovanni Battista Speziano, per opera del quale i malviventi sgombrarono le strade, e divenne sicuro il trasporto delle derrate; il che anche contribu? a ricondurre l'abbondanza. Ma tale era la spopolazione delle terre che dice il Burigozzo, <>. Ci? si conferma dal Bugati, dicendo che que' <>

Sul principio del 1531 riusc? al duca Francesco Sforza, mediante il raddoppiamento delle imposizioni, di pagare a cesare la convenuta prima annata di quattrocentomila ducati per cui gli vennero consegnati il castello di Milano e quello di Como. Ma quasi non bastassero all'oppressione de' sudditi gli sforzi che avea dovuto fare il duca per approntare quel primo gravosissimo sborso, sopraggiunse la guerra della Valtellina, della quale fu cagione l'occupazione di Chiavenna fatta da Gian Giacomo Medici, di gi? padrone di Musso e di Lecco. Perci? lo Sforza fu necessitato di ricorrere a nuovi aggravii; onde, come attesta il Burigozzo, il giorno 20 giugno <>. Questa nuova gabella eccit? una tale turbolenza nella plebe di Cremona, che, impugnatesi le armi, furon uccisi molti di quelli che presedevano al governo della citt?. Accorsero a tempo in sussidio del castellano Paolo Lonato alcune truppe spedite da Milano, le quali sedarono il tumulto, e col supplizio di cinque dei pi? sediziosi l'ammutinamento ebbe fine. Ma non cos? presto cedette il Medici alle sue usurpazioni, mentre pot? resistere valorosamente per pi? mesi; e finalmente dopo l'uccisione di Gabriele suo fratello, e di Luigi Borserio, che comandava le sue navi armate, ottenne ancora dal debole duca il perdono di tutti i trascorsi, trentacinquemila scudi d'oro in compenso delle fortezze che andava a cedere, e la concessione di un feudo di non minor reddito di scudi mille: ed ebbe poi Marignano col titolo di marchese. Dopo quest'accordo, il Medici, nel mese di marzo 1532, si ritir? nel Vercellese. Il castello di Musso, ricovero ed asilo del prepotente Medici, fu demolito.

Le nozze del nostro duca erano desiderate, per opposti interessi, da tutti i membri della lega: dai principi italiani, perch? il ducato non ricadesse al fisco imperiale, come avrebbe dovuto per i patti dell'investitura quando fosse morto il duca senza successione maschile; da Carlo V per rendersi pi? dipendente lo Sforza, e per isventare i disegni del re di Francia, in cui scorgeva non per anco deposto il pensiero di appropriarsi quello Stato. Parve a cesare opportuno a tal uopo li matrimonio di Cristina o Cristierna, figlia del re Cristierno II di Danimarca e di Elisabetta d'Austria, e perci? nipote di Carlo V, fratello di Elisabetta. Le nozze appena proposte, furono conchiuse; e il conte Massimiliano Stampa fu spedito da Francesco Sforza a Brusselles ad isposare in suo nome la principessa Cristina. Nella primavera dell'anno seguente la sposa reale si pose in viaggio alla volta di Milano; e la citt?, bench? ridotta a grande inopia, fece ogni sforzo per manifestare con magnificenza di apparati la comandata allegrezza. La duchessa Cristina fece il suo solenne ingresso in Milano nella domenica, giorno 3 di maggio, e non nel mese d'aprile, come scrisse il Muratori. Ne riporter? la descrizione del Burigozzo, che ne fu testimonio. <>. Giunta la principessa al castello, le venne stentatamente incontro il duca sposo, che appena reggevasi col bastone in piedi, aspetto poco gradevole per una giovane di quindici anni. Il successivo silenzio de' nostri cronisti, soliti a tener registro de' pi? minuti fatti, ci lascia congetturare abbastanza l'infelicit? di queste nozze.

Al conte Massimiliano Stampa, castellano del castello di Milano, fu dato l'incarico delle disposizioni per le solenni esequie del defunto duca Francesco; e a cagione degli apparati da farsi nella metropolitana fu mestieri il differirle sino al 19 di novembre stesso. Intanto il cadavero dello Sforza, chiuso in una cassa coperta di velluto nero, fu di notte trasportato dal castello al Duomo, coll'accompagnamento di tutto il clero metropolitano, e riposto in luogo appartato finch? fossero celebrati i solenni suffragi; dopo de' quali il di lui sarcofago, ornato alla ducale, venne collocato nella metropolitana suddetta nel sito dov'era quello di Gastone di Foix, vale a dire fra i pensili avelli de' duchi suoi predecessori. Per dare un'idea dei costumi di quei tempi anche nelle pompe funebri, penso che non sar? discaro il leggere qui l'esatta descrizione del funebre trasporto del duca Francesco Sforza, stesa dal nostro Burigozzo. <<1535, a d? 19 novembre, furon fatte le exequie di sua excellentia, e furono fatte a questo modo. Prima la strata fu dal castello al Domo per la strata dritta, zo? dalla contr? del Majno a Santo Nazaro Pietra Santa, e verso Santa Maria Segreta, e al Cordusco insino alla Doana, e poi dalla Dovana al Domo. Questo ? quanto alla strata: seguita l'hordene. Prima numero grande de croci de legno, poi mille poveri, tutti con el capuzino negro e la torgia in mane, con uno ducal pento in carte, attacado alla torgia, e andavano a dui a dui, poi li frati prima de Santo Ieronimo, poi li altri ordeni de frati secondo el suo ordene, et al fin de questi venne la fameia de tutta la corte, quali erano vestiti de negro, el numero de quali fu grando, e questi tali avevano mantello negro. Poi seguit? le abazie con le canoniche de Milano. Finido questi, venne li offiziali de sua excellentia, zo? li grandi con el capuzo in testa, e tutti havevano le veste longhe a terra, cosa grande da vedere, el numero de quali fu grandissimo, et tutti andavano a dui a dui. Poi venne la ecclesia del Domo, zo? li vegioni e le vegione, poi li capellani, poi li mazachonisi, di poi li sacristani, poi li signori Ordenarii, e poi li lectori, e qui finisce la gierexia. Poi seguit? un giovinetto gentilhomo, tutto vestito de voluto negro, et haveva una spada bellissima aposata alla sua spalla. Dredo a questo un altro giovinetto, vestito simile al primo e lui e il cavallo, et haveva un bastono in mano tutto indorato. Poi seguit? li cortesani de sua excellentia, quali tutti, con le veste negra a terra, con la gran coda e el capuzo in testa, tutti a dui a dui, el numero de quali fu assai. All'ultimo di questi venne la sua guardia de Lanzinechi, vestiti de negro, tutti in zupon, con le sue alebarde in spalla. Poi qui li era la mula di sua excellentia, tutta coperta de veluto negro a terra con li stafferi, come se propriamente li fosse stato sua excellentia, ma non li era se non la mula v?ta. Poi seguit? la guardia de cavalli legeri a piedi, per? con le sue zanette in spalla, e questi tali havevano uno manto negro in dosso. Da poi seguita el corpo de sua excellentia, ma non per? che fosse el suo corpo, perch? non fu possibile poterlo conservare insina a tanto, e per questo fu fatta una imagine a sua similitudine; e quello fu fatto a tale effetto, era vestito de brocato d'oro rizzo, soprarizzo, lungo a terra, fodrato di pelle di gran valore, haveva uno saio de veluto cremero, un saion de raso cremexi, un paro de calze de scarlato, con le scarpe de veluto cremexi, con una bacchetta in mane, et haveva la baretta duchale in testa, qual baretta era bizara, e fu portata la sua persona quatada de brocato sotto el balduchino de tela d'oro, e questo balduchino, s? ancora sua excellentia, fu portata dalli dottori dell'una e l'altra legge. Da poi questo venno li condizionati signori. Prima el signor Joan Paolo Sforza suo fratello, el signor Antonio de Leiva, li signori ambasciatori s? de Veneziani, s? delle altre signorie, poi uno numero grande de altri signori, che numerare non se potevano, pur tutti questi tali con le veste a terra negre, et a questo modo fu finito le esequie de sua excellentia>>. Il capitano generale Antonio de Leyva prese il possesso dello Stato di Milano, in nome dell'imperatore.

Circa questo tempo ebbero origine o incremento varie religiose instituzioni nella nostra citt?. Certo frate Bono di Cremona, dopo di avere introdotte le orazioni dalle Quarant'Ore, diede principio allo stabilimento del ricovero delle donne convertite, detto di Santa Valeria, col mezzo di questue da lui fatte. Dipoi l'autorit? pubblica se ne inger? improvvidamente, e si ha memoria di un decreto del senato dell'anno 1561, prescrivente che, se una convertita di Santa Valeria fuggisse, ovvero tentasse di fuggire, dovesse quella essere bollata in fronte con un ferro infuocato. Cominciarono pure a farsi maggiormente conoscere i nuovi Cherici regolari, instituiti verso il 1526, e che dal ricovero di San Barnaba, stato loro concesso nel 1538, si dissero poi Barnabiti; ed inoltre una nuova associazione di zitelle, che si chiamavano Dimesse, e furon dette in s?guito le Angeliche. Il Burigozzo cos? ne scrive: <>. Infatti la contessa di Guastalla Lodovica Torella benefic? largamente i Barnabiti, fece fabbricare colla spesa di ottantamila scudi d'oro l'insigne monastero di San Paolo per le sue Dimesse, che cominciarono ad abitarvi nel 1535, e diciotto anni dopo si ridussero a clausura con disgusto della fondatrice; e successivamente fond?, nel 1542, il monastero del Crocifisso per le Convertite, e nel 1557 il collegio per l'educazione di nobili povere fanciulle, detto della Guastalla, dallo stato di questo nome ch'essa avea ereditato dal suo padre Achille Torello, e che vendette al principe don Ferrante Gonzaga per convertirne il prezzo in siffatte pie beneficenze.

Dopo la morte del duca Francesco II Sforza, Giovanni Paolo Sforza, marchese di Caravaggio, figlio naturale del duca Lodovico e fratello del duca defunto, consigliato da molti amici, cavalc? per le poste alla volta di Roma, affine di impegnare il papa presso cesare ed ottenerne il ducato di Milano. Il diritto di successione avea in esso minori ostacoli di quello che alleg? in suo favore il primo Sforza, di essere cio? marito di una figlia naturale di Filippo Maria Visconti. Ma il marchese di Caravaggio era in tutto sfornito dell'alto presidio della gloria militare di Francesco Sforza. Ben ? vero che gl'interessi del pontefice, de' Veneziani e de' Toscani consigliavano di dar opera che il ducato di Milano non cadesse nel dominio di cesare, gi? sovrano del regno di Napoli e di tant'altra parte del mondo. La Francia avrebbe forse appoggiata una tal successione, disperando di avere per s? il milanese; <

Fin dal 1543 avea il sovrano approvate due instituzioni non meno utili al regio erario, che al buon ordine dell'amministrazione; e in conseguenza profittevoli ai contribuenti. Fu la prima l'erezione della congregazione dello Stato, composta del vicario di Provvisione della citt? di Milano e dei rappresentanti, ossia oratori e sindaci delle altre citt? del ducato. Questa magistratura avea l'incarico di presiedere allo stabilimento delle imposizioni, e di curare l'interesse de' pubblici, e non fu abolita che dopo duecentoquarantatre anni, nel 1786. L'altro non meno vantaggioso provvedimento fu l'ordine dato dall'imperatore Carlo V, con dispaccio 13 marzo 1543, per la riforma dell'estimo, base dei carichi generali e straordinari, la quale per? ebbe duopo di successivi eccitamenti; e tanti furono gli ostacoli suscitati da chi avvantaggiavasi dell'ineguaglianza de' carichi, che il nuovo estimo ha potuto appena essere pubblicato nell'anno 1599.

Il 13 dicembre 1545 si aperse il concilio di Trento, che dur? diciotto anni, essendo terminato nel 1563.

La tanto sospirata pace non fu di alcun sollievo allo Stato di Milano, mentre non cessavano le eccessive contribuzioni imposte dal marchese del Vasto, per le quali innoltrarono i Milanesi fino al trono le loro doglianze. Il marchese corse per giustificarsi in Ispagna, ma ebbe ordine di tosto restituirsi in Italia per subire il sindacato della sua condotta. Logorato per? da un'interna febbre, appena fu giunto a Vigevano, vi mor? verso gli ultimi giorni di marzo, dopo un governo di nove anni. Gli succedette don Ferrante Gonzaga, vicer? di Sicilia e zio del duca di Mantova. Fu questi un signore colto e buono, attentissimo al suo ufficio, di facili maniere. Egli fece costruire le nuove mura che tuttora circondano l? citt?, e che furono terminate nel 1555.

I Milanesi, pressoch? oppressi dalle imposizioni straordinarie occorrenti per il comandato ristauro delle fortezze ed altri apparecchi di difesa, ebbero occasione di rallegramento a un tempo e di maggiori dispendi per la notizia avuta che il loro principe don Filippo era partito dalla Spagna onde recarsi a visitare i suoi Stati d'Italia. Il governatore Gonzaga si accinse tosto alle disposizioni per il solenne suo ricevimento. Form? parte di queste l'abbellimento della citt?. Allora si vide ampliata la piazza maggiore colla demolizione dell'antica e cadente chiesa di Santa Tecla; si videro riattate le strade, atterrate le logge, i veroni, i palchi e tetti che ingombravano Milano, e impedivano la vista delle contrade. In tale occasione, dice il Bugati, <>. Dopo ventidue giorni di navigazione, don Filippo d'Austria, duca di Milano, sbarc? in Genova il 22 novembre, e in principio del successivo mese fece la sua solenne entrata nella nostra citt?. Maravigliose e veramente reali furono per l'invenzione, la variet? e la magnificenza le feste date al real principe. Egli part? da Milano il giorno 8 gennaio 1849, e, passando per Cremona, Mantova e Trento, s'incammin? verso Brusselles, dove trovavasi l'imperatore suo padre.

? nella natura de' popoli l'attribuire al ministro presente la colpa delle soverchie imposizioni, o comandate dal lontano padrone, o rese necessarie dalle difficolt? de' tempi. Perci? i Milanesi si associarono al castellano Giovanni de Luna, ch'era mosso da altri fini di rivalit? e di ambizione, e di concerto con esso innoltrarono al sovrano forti rimostranze contro il governo del Gonzaga. Fu questi chiamato in Ispagna a giustificarsi, e durante la di lui assenza furono severamente sindacati in Milano tutti gli atti della sua amministrazione. Venne dichiarato innocente, ebbe dall'imperatore premii e distinzioni; ma non fu repristinato nel suo governo. Egli si ritir? a menare vita privata in Mantova, e pass? poscia a Brusselles, dove mor? il 15 novembre del 1557.

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