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Read Ebook: Niccolò Machiavelli e i suoi tempi vol. I by Villari Pasquale

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Ebook has 897 lines and 219559 words, and 18 pages

PASQUALE VILLARI

NICCOL? MACHIAVELLI E I SUOI TEMPI

ILLUSTRATI CON NUOVI DOCUMENTI

VOLUME I

ULRICO HOEPLI EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA MILANO 1912

PROPRIET? LETTERARIA

AVVERTENZA

Nel dare alle stampe la terza edizione di questa mia opera, debbo solo dire al lettore, che ho cercato di tener conto delle pubblicazioni fatte, in questi ultimi anni, intorno al Machiavelli.

Firenze, ottobre 1911.

AVVERTENZA

PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

Nel presentare al lettore una nuova edizione di questo libro, non ho bisogno di aggiungere molte parole. Mi basta dir solamente, che l'ho riveduto con quella maggiore diligenza che ho saputo, correggendo gli errori di cui mi sono avvisto, tenendo conto di tutte le osservazioni che mi furono fatte dai critici, e dei nuovi scritti che vennero alla luce sul Machiavelli. Sento per? il dovere di ringraziar sinceramente i miei amici professor Cesare Paoli e cav. Alessandro Gherardi. Il primo di essi mi ha aiutato rileggendo tutte le bozze di stampa, il secondo, facendo per me nell'Archivio fiorentino i moltissimi riscontri di cui l'ho continuamente pregato.

Firenze, 1895.

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Si ? scritto e si scrive tanto sul Machiavelli, che nel pubblicare una nuova biografia di lui, mi par necessaria qualche spiegazione.

Certo non mancarono scrittori autorevoli, i quali intrapresero un esame imparziale e razionale delle opere del Machiavelli; ma essi ci dettero quasi sempre opuscoli storici o dissertazioni critiche, non vere e proprie biografie. Occupati nell'esame filosofico delle dottrine, si fermarono troppo poco ad esaminare i tempi ed il carattere dell'autore, o ne parlarono solo, come se ogni disputa si potesse comporre dicendo, che il Machiavelli ebbe la sua indole dal secolo in cui visse, e che fedelmente ritrasse nei propr? scritti. Ma in un secolo v'? luogo per molti uomini, molte idee, viz? e virt? diverse; n? possono i tempi per s? soli spiegare tutto ci? che ? opera, creazione personale del genio. Lo studio di essi ? tuttavia sempre necessario a chi vuol conoscere e giudicare le dottrine di un pensatore, massime quando si tratta d'un uomo come il Machiavelli, che tanto ricevette dalla societ? in cui nacque, e tanta parte di s? pose ne' suoi libri. Ma io non voglio qui prendere in esame i biografi ed i critici, dei quali dovr? parlare altrove, assai spesso citandoli e valendomi delle loro opere. Il mio scopo ? ora solamente di dichiarare che non intendo essere n? l'apologista, n? l'accusatore del Segretario fiorentino. Mi accinsi a studiarne la vita, i tempi e gli scritti, per tentare di conoscerlo e descriverlo quale fu veramente, con tutti i suoi meriti e demeriti, i suoi viz? e le sue virt?.

Quando nel 1512, dopo la battaglia di Ravenna, i Medici tornarono a Firenze, la libert? fu spenta, ed il Machiavelli, uscito d'ufficio, ricadde nell'oscurit? della vita privata. La sua biografia allora muta aspetto, dovendosi ridurre quasi esclusivamente all'esame delle opere che scrisse, ed al racconto degli avvenimenti in mezzo ai quali le compose. Ma tutto ci? former? il soggetto del secondo volume, il quale, mi duole di doverlo dire, si far? aspettare pi? lungamente che non vorrei, essendo ancora lontano dal suo compimento. Avrei certo preferito di ritardare la stampa fino a quando avessi potuto dare alla luce tutta l'opera. Ma nei lunghi anni nei quali andavo continuando i miei stud?, vidi pubblicar di continuo non solamente nuove dissertazioni e biografie del Machiavelli, ma anche documenti spesso da me gi? trovati e copiati, ed altri lavori gi? s'annunziano ora; sicch?, arrivato alla fine di questo primo volume, deliberai di darlo alla luce, senza pi? aspettare. ? questa del resto un'usanza divenuta ormai cos? generale, che spero di non dover esser biasimato, se anch'io me ne giovo.

Ed ora non mi resta che un'ultima parola. Assai spesso chi scrive un libro ha, nello scegliere il soggetto, un segreto pensiero che lo muove. Io sono stato mosso principalmente dal pensiero, che il Rinascimento italiano, di cui il Machiavelli fu certo uno dei pi? illustri rappresentanti, ? il tempo in cui il nostro spirito nazionale ebbe la sua ultima manifestazione, la sua ultima forma veramente originali. Segu? poi un lungo sonno, da cui appena ci siamo svegliati. Lo studio d'un tale periodo storico pu? quindi, se non m'inganno, riuscire a noi doppiamente utile, facendoci non solo conoscere una parte assai splendida della nostra antica cultura, ma dandoci ancora pi? d'una spiegazione cos? dei viz?, contro i quali combattiamo oggi, come delle virt? che ci aiutarono a risorgere. E la lezione potr? essere ancora pi? utile, se lo storico non dimenticher?, che il suo ufficio non ? di bandire precetti di politica o di morale, ma solo di sforzarsi a far rivivere il passato, dal quale ? venuto il presente, che da esso riceve lume ed ammaestramento continuo anche per l'avvenire. Un tale pensiero in ogni modo ? quello che pi? volte m'infuse lena e mi di? coraggio, mantenendo in me sempre viva la fede che, pure restando lontano dal mondo e chiuso fra i libri, io non dimenticavo il debito che tutti noi, ciascuno secondo le sue forze, oggi pi? che mai, abbiamo verso la patria.

Firenze, 1877.

INTRODUZIONE

IL RINASCIMENTO

? difficile trovare nella storia dell'Europa moderna un periodo che abbia l'importanza di quello cui suol darsi, nella storia italiana, il nome di Rinascimento. Posto fra il cadere del Medio Evo ed il costituirsi delle societ? moderne, pu? dirsi che gi? cominci con Dante Alighieri, il quale nelle sue opere immortali ci lasci? la sintesi d'una et? che muore, e ci annunzi? il sorgere d'un'?ra novella. Questa, che ? appunto il Rinascimento, s'inizi? davvero con Francesco Petrarca e con gli eruditi, fin? con Martino Lutero e la Riforma, la quale alter? profondamente la storia anche dei popoli che restarono cattolici, e port? di l? dalle Alpi il centro di gravit? della cultura europea. Durante il periodo di cui ragioniamo, vedesi in Italia una rapida trasformazione sociale, una grandissima operosit? intellettuale. Da per tutto tradizioni, forme, istituzioni antiche, che crollano dinanzi alle nuove che sorgono. La scolastica cede il luogo alla filosofia, il principio d'autorit? cade innanzi alla libera ragione ed al libero esame, che s'avanzano. Comincia lo studio delle scienze naturali: con Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci si danno i primi passi alla ricerca del metodo sperimentale; progrediscono il commercio e l'industria; si moltiplicano i viaggi, e Cristoforo Colombo scopre l'America. La stampa, trovata in Germania, diviene subito un'industria italiana. L'erudizione classica si diffonde per tutto, e l'uso della lingua latina, che sembra, per qualche tempo, tornata la lingua universale dei popoli civili, pone l'Italia in stretta relazione con l'Europa, che l'accetta a guida e maestra del sapere. Si creano la scienza politica e l'arte della guerra; la cronaca cede il luogo alla storia civile del Guicciardini e del Machiavelli; la cultura antica rinasce, ed il poema cavalleresco sorge in mezzo ad altre ed altre nuove forme di componimenti letterar?. Il Brunelleschi crea un'architettura nuova, Donatello fa risorgere la scultura, Masaccio ed una miriade di pittori toscani ed umbri apparecchiano, collo studio della natura, la via a Raffaello ed a Michelangelo. Il mondo sembra rinnovarsi e ringiovanirsi, illuminato dal sole della cultura italiana.

Esso aveva ora ottenuto la tanto sospirata indipendenza, e non doveva contare che sulle proprie forze; nelle sue guerre coi vicini non v'era pi? da sperare o temere che s'interponesse un'autorit? superiore. Era quindi necessario estendere il proprio territorio, e rendersi pi? forte, specialmente se, volgendo intorno lo sguardo, si osservava che in tutta Europa s'andavano formando i grandi Stati e le monarchie militari. Ma la costituzione politica del Comune era tale, che ogni estensione del suo territorio faceva sorgere pericoli nuovi e cos? gravi che ne mettevano a repentaglio l'esistenza. Poteva dirsi giunta per esso un'ora funesta, nella quale ci? che pi? gli era necessario, pi? lo minacciava. Il Comune medievale non conosceva il governo rappresentativo, ma solo il governo diretto de' suoi liberi cittadini, i quali era perci? necessario ridurre ad un numero assai ristretto, se non si voleva cadere nell'anarchia. Il diritto di cittadinanza era quindi un privilegio concesso solo ad alcuni di coloro che abitavano dentro la cerchia delle mura. Firenze, che era la repubblica pi? democratica dell'Italia, e che nel 1494 ebbe la sua pi? libera costituzione, contava allora circa 90,000 abitanti, di cui solo 3200 erano veri e propr? cittadini. Neppure i Ciompi, nel loro incomposto tumulto, avevano preteso di dare la cittadinanza a tutti. E quanto al contado, pareva gi? molto l'avere abolito la servit?; a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiamarlo a parte del governo.

Sempre la confusion delle persone Principio fu del mal della Cittade.

Ed il Petrarca, che sognava anch'egli l'antico Impero, ed era tanto entusiasta di Cola di Rienzo, raccomandava che, nel riordinare la repubblica romana, se ne affidasse il governo ai soli cittadini, escludendone come stranieri gli abitanti del Lazio, ed anche gli Orsini ed i Colonna, perch?, sebbene romani, discendevano, secondo lui, da stranieri.

Quando adunque il Comune ingrandiva il suo territorio, sottomettendo un altro Comune, questo, anche se governato con mitezza, si trovava d'un tratto escluso da ogni vita politica, ed i suoi principali cittadini se ne andavano esuli e raminghi per il mondo. Vedere un Pisano, un Pistoiese nei Consigli della repubblica fiorentina, sarebbe stato allora come il vedere oggi un cittadino di Parigi o Berlino sedere fra i deputati del Parlamento italiano. Si preferiva quindi cadere sotto una monarchia, perch? in essa almeno tutti i sudditi erano nelle medesime condizioni, ed agli uffic? pubblici poteva ogni abitante, di qualunque provincia, partecipare. Il Guicciardini infatti osservava al Machiavelli, quando questi immaginava una grande repubblica italiana, che ci? sarebbe stato tutto a vantaggio d'una sola citt?, ed a rovina delle altre; perch? la repubblica non concede il benefizio della sua libert? <> la monarchia invece <> E non v'era spavento che potesse uguagliare quello provato dalle repubbliche italiane, quando Venezia, che pur governava i sudditi suoi con maggiore libert?, volgendosi alla terraferma, sembr? aspirare al dominio della Penisola. Avrebbero preferito non solo la monarchia, ma ancora lo straniero, che poteva lasciar qualche locale indipendenza, cosa allora non sperabile in Italia da una repubblica. Cosimo dei Medici, quando aiut? Francesco Sforza a divenir signore di Milano, salv?, secondo il Guicciardini, la libert? di tutta Italia, che sarebbe altrimenti caduta sotto Venezia. E Niccol? Machiavelli, che pur sospirava cos? spesso la repubblica, in tutte le sue lettere d'ufficio, in tutte le sue legazioni, parla sempre di Venezia come del maggior nemico che avesse la libert? d'Italia.

Fra queste condizioni e queste convinzioni, era impossibile sperare che il Comune potesse, formando una forte repubblica, riunire l'Italia. Si poteva sperare in una confederazione o in una monarchia; ma la prima supponeva gi? un governo centrale diverso da quello dei Comuni, nel quale la citt? non fosse pi? lo Stato, e aveva contro di s? i papi ed i re di Napoli. La monarchia, invece, trovava contro di s?, da un lato l'antico amore di libert?, che aveva reso gloriosa l'Italia, e da un altro i papi, che, messi nel centro della Penisola, troppo deboli per poterla riunire, abbastanza forti per impedire che altri la riunisse, di tanto in tanto chiamavano gli stranieri, i quali venivano a sovvertire ogni cosa. Per tutte queste ragioni il Comune, che aveva formato l'antica forza e grandezza d'Italia, sopravvisse come a s? stesso, in presenza dei nuovi problemi sociali, che sorgevano ad ogni pi? sospinto; fra i mille pericoli, che scaturivano come dal suo proprio seno.

Esso aveva proclamato la libert? e l'uguaglianza; era quindi naturale che il basso popolo, il quale trovavasi escluso dal governo, dopo avere coi ricchi mercanti combattuto e vinto il feudalismo, non potesse rimanere contento. N? gli abitanti del contado, che pure erano colle armi chiamati a difendere la patria, tolleravano pi? di buon animo d'essere esclusi da ogni ufficio pubblico, da ogni diritto di cittadinanza. E quando il territorio si estendeva, e nuove citt? venivano conquistate, la moltitudine degli oppressi cresceva, e le passioni s'infiammavano, perch? la sproporzione fra il piccolo numero dei governanti e quello sempre maggiore dei governati aumentava, ed ogni equilibrio riusciva affatto impossibile. Un abile tiranno, che fosse sorto allora, avrebbe trovato in suo appoggio la moltitudine infinita degli scontenti, ai quali sarebbe apparso come un liberatore o almeno come un vendicatore.

Se poi dalle condizioni politiche volgiamo lo sguardo alle sociali, osserveremo una trasformazione non meno grave, n? meno pericolosa. I Comuni del Medio Evo, chi li guarda da lontano, appariscono gi? come un piccolo Stato, nel senso moderno della parola; ma erano invece un agglomerato di mille associazioni diverse: Arti maggiori ed Arti minori, Societ? delle torri, Consorterie, Leghe, ordinate tutte come altrettante repubbliche, con le loro assemblee, statuti, tribunali, ambasciatori. Esse erano qualche volta pi? forti dello stesso governo centrale, di cui facevano le veci, quando, fra le continue rivoluzioni, questo si trovava come momentaneamente soppresso, il che di tanto in tanto avveniva. Si direbbe quasi che la forza del Comune fosse tutta nelle associazioni, che lo dividevano e lo governavano. I cittadini erano ad esse cos? tenacemente legati, che spesso sembravano combattere a difesa della repubblica, solo perch? tutelava l'esistenza dell'associazione cui essi appartenevano, ed impediva che venisse oppressa dalle altre.

Il Medio Evo ? stato perci? a giusta ragione chiamato un'et? di consorterie e di caste. Il numero e la variet? grande di esse produssero una variet? infinita di caratteri e di passioni, ignota al mondo antico; ma l'indipendenza dell'uomo moderno non era anche nata, perch? l'individuo restava come assorbito nella casta, in cui e per cui viveva. Infatti, per lunghissimo tempo la storia italiana ci tace quasi del tutto i nomi dei politici, dei soldati, degli artisti e dei poeti, che fondarono e difesero i Comuni; crearono le istituzioni, le lettere, le arti. Sono Guelfi e Ghibellini, Arti maggiori e minori, poeti vaganti, maestri comacini, sempre associazioni o partiti, non mai individui. Le stesse grandi figure dei papi e degl'imperatori ricevono la loro importanza, meno dal proprio carattere personale, che dal sistema e dalla istituzione cui appartengono e che rappresentano.

La moralit? del Medio Evo era fondata principalmente sugli stretti vincoli della famiglia e della casta cui si apparteneva. Di questi vincoli le leggi e le consuetudini erano state in mille modi gelose custodi: mantenevano la eredit? nelle famiglie; impedivano che i matrimon? la portassero fuori del Comune; rendevano difficilissimi quelli fra persone non solo di diverso Comune, ma di diverso partito o consorteria. Di qui una grande comunanza d'interessi, le affezioni tenaci e i forti sacrifiz? nel seno della casta, le gelosie e spesso gli od?, le vendette contro i vicini. A poco a poco tutto questo scomparve per le riforme politiche, che spezzarono i vecchi legami, per la cresciuta uguaglianza, pel continuo prevalere del diritto romano imperiale, che rendeva la donna meno sottoposta alla tutela de' suoi. E nel medesimo modo in cui il Comune s'era a un tratto trovato abbandonato a s? stesso, per la cessata supremazia dell'Imperatore e del Papa, il cittadino, sciolto da ogni vincolo, si trov? isolato e costretto a fare assegnamento sulle sole sue forze. Esso quindi non poteva pi? sentire l'antico interesse nel destino de' suoi vicini, che non s'occupavano pi? di lui; il suo avvenire, il suo stato nel mondo dipendeva unicamente dalle sue qualit? individuali. Cos? si vide, in un medesimo tempo, l'egoismo impadronirsi rapidamente degli animi, e la personalit? umana svolgersi sotto forme sempre pi? varie e nuove. Non solo si moltiplicano ora i nomi degl'individui, e ambiziosi capi di parte sorgono per tutto; ma le guerre intestine dei Comuni sembrano mutarsi in guerre personali; le citt? si dividono secondo i nomi dei pi? potenti e turbolenti; le famiglie stesse si scindono e si lacerano, perch? gli uomini non sanno sottostare pi? a nessun vincolo. I pregiudizi, le tradizioni, le virt? e i viz? del Medio Evo scompariscono affatto, per dar luogo ad un'altra societ?, ad altri uomini.

Chi osserva ora la doppia mutazione che han subita le nostre repubbliche, s'accorge come da un lato, secondo che esse ingrandivano il proprio territorio, divenivano internamente pi? deboli, e sentivano sempre maggiore bisogno d'un governo centrale pi? forte e pi? uguale verso tutti; e come da un altro lato, secondo che le consorterie si scioglievano, aumentava il numero degli ambiziosi e degli audaci, i quali non avevano altro scopo, che d'essere primi e soli a comandare. Queste ambizioni, manifestandosi nel tempo appunto in cui il Comune era portato naturalmente verso la forma monarchica, costituivano un pericolo gravissimo; e cos?, come v'era stato un giorno nel quale si videro in Italia sorgere per tutto i Comuni, era adesso giunta l'ora in cui si vedevano per tutto sorgere i tiranni.

Il tiranno italiano per?, con molti vizi, aveva una propria originalit? di carattere, una vera importanza storica. A lui non era necessario discendere di nobile o potente famiglia, e neppure essere primogenito della sua casa. Un mercante, un bastardo, un venturiero qualunque potevano comandare un esercito, fare una rivoluzione, divenire tiranni, se avevano l'audacia e l'arte necessarie a riuscire. Le storie ci raccontano, a questo proposito, strane avventure, ed i novellieri italiani, che s? fedelmente descrivono i costumi del tempo, ridono spesso d'uomini da nulla, i quali si ponevano in mente di farsi tiranni, come quel calzolaio che, invece di fare scarpe, voleva, secondo narra il Sacchetti, <>

In s? misero stato di cose, non bastavano il coraggio personale, il valor militare e una coscienza senza rimorsi; bisognava avere anche una grande accortezza, una fine astuzia, una profonda conoscenza degli uomini e delle cose, sopra tutto un perfetto dominio delle proprie passioni. Bisognava studiare i fenomeni sociali come si studiano i fenomeni della natura, non avere alcuna illusione, fondarsi solo sulla realt? delle cose. Bisognava conoscere a fondo il proprio Stato e gli uomini in mezzo ai quali si viveva, per poterli dominare; trovare la nuova forma di governo; riordinare, in mezzo alle rovine del passato, l'amministrazione, la giustizia, la polizia, le opere pubbliche, ogni cosa. Il potere, in sostanza, si concentr? allora tutto nel tiranno, e l'unit? del nuovo Stato nacque come una creazione personale di lui. E con lui nascevano la scienza e l'arte di governo; ma si cominciava ancora a diffondere quella opinione, che divenne poi un errore assai generale e funesto, che cio? le leggi e le istituzioni siano un trovato dell'uomo politico, non gi? un resultato naturale della storia, dello svolgimento sociale e civile dei popoli. Pel Medio Evo lo Stato e la storia erano un'opera della Provvidenza, in cui nulla potevano la ragione e la volont? dell'uomo; pel Rinascimento, invece, tutto era opera dell'uomo, che se non riusciva, doveva dolersi prima di se stesso, e poi della fortuna, a cui si dava allora grandissima parte nel destino delle cose umane.

In un paese diviso e suddiviso come l'Italia, queste vicende si moltiplicavano e ripetevano per tutto; ed ? facile immaginarsi quanto dovessero contribuire alla corruzione del paese, e in quanti modi diversi. Sorgevano i tiranni in mezzo alle repubbliche, ai papi, ai re di Napoli; e gelosi tutti gli uni degli altri, ricorrevano all'amicizia dei vicini o degli stranieri, cercando indebolire o dividere i nemici. Cos? le trame e gl'intrighi crescevano all'infinito; e nello stesso tempo si formava un intreccio singolare d'interessi politici, che moltiplicava le relazioni fra i diversi Stati; faceva sorgere in Italia la prima idea d'un equilibrio politico; dava alla nostra diplomazia un'attivit?, una intelligenza, un'accortezza meravigliose. Fu allora un tempo in cui ogni Italiano sembrava un diplomatico nato: il mercante, il letterato, il capitano di ventura sapevano presentarsi e discorrere ai re ed agl'imperatori con tutta la conoscenza delle forme convenzionali, con un acume ed una penetrazione che facevano restare ammirati. I dispacci dei nostri ambasciatori furono uno dei pi? grandi monumenti della storia e letteratura di quel tempo. Primeggiavano i Veneziani pel senno pratico e l'osservazione dei fatti, i Fiorentini per la eleganza del dire e l'acume con cui esaminavano, intendevano i caratteri; ma tutti gli altri erano emuli non indegni di quelli. L'arte del dire e dello scrivere divenne cos? una potenza formidabile, acquist? una importanza nuova fra gl'italiani.

Si videro allora dei soldati di ventura, che non si movevano per minacce, per preghiere o piet?, cedere ai versi di un erudito. Lorenzo dei Medici, andando a Napoli, persuadeva coi suoi ragionamenti Ferrante d'Aragona a smettere la guerra e fare alleanza con lui. Alfonso il Magnanimo, prigioniero di Filippo Maria Visconti, quando tutti lo credevano morto, fu invece liberato con onore, perch?, secondo il Machiavelli, aveva saputo persuadere a quel tiranno cupo e crudele, che gli tornava pi? conto avere gli Aragonesi che gli Angioini a Napoli, concludendo: Vuoi tu piuttosto soddisfare ad un tuo appetito che assicurarti lo Stato? Nella rivoluzione promossa a Prato da Bernardo Nardi, questi aveva, secondo lo stesso Machiavelli, gi? messo il capestro al Podest? fiorentino per impiccarlo, quando si lasci? dagli accorti ragionamenti di lui persuadere a desistere, e cos? nulla pi? gli pot? riuscire. Simili fatti possono essere qualche volta esagerati o anche inventati; ma il vederli tante volte ripetuti e creduti, prova quali erano le idee e l'indole di quegli uomini.

Non ? perci? da meravigliarsi, se anche i tiranni studiavano e proteggevano con s? grande ardore le arti, le lettere, la cultura sotto ogni sua forma. Non era solo un sottile accorgimento di governo, un mezzo per deviare dalla politica l'attenzione del popolo; era una necessit? della loro condizione, un bisogno vero e reale del loro spirito. Una nota diplomatica abilmente scritta, un discorso accorto solevano risolvere le pi? gravi questioni politiche. A chi il tiranno italiano doveva il proprio Stato, se non al suo ingegno? E come poteva essere indifferente alle arti che lo educano e lo accrescono? Le pi? felici ore di riposo dagli affari di Stato, le passava tra i libri, i letterati e gli artisti. Il museo e la biblioteca tenevano per lui il posto che presso molti signori feudali del settentrione, tenevano la scuderia e la cantina; tutto ci? che poteva coltivare o ingentilire lo spirito era un elemento necessario alla sua esistenza; nel suo palazzo si formavano il perfetto cortigiano, la raffinatezza dei modi del gentiluomo moderno.

V'era per? un singolare contrasto negli uomini di quel tempo, un contrasto che ci sembra spesso un enimma inesplicabile. Noi possiamo perdonare al Medio Evo, tanto diverso da noi, le sue selvagge passioni ed i suoi delitti, o almeno possiamo comprenderli; ma vedere degli uomini, che discorrono e pensano come noi; che sono rapiti con la pi? spontanea sincerit? innanzi ad una Madonna del Beato Angelico o di Luca della Robbia, innanzi alle aeree curve dell'architettura dell'Alberti e del Brunelleschi; che si mostrano disgustati da ogni atto appena grossolano, da un gesto che non sia della pi? perfetta eleganza; e vederli abbandonarsi ai pi? atroci delitti, ai pi? osceni viz?; apparecchiare il veleno per cacciar dal mondo un rivale o un parente pericoloso, questo ? quello che non comprendiamo. Era un periodo di transizione, in cui si direbbe che le passioni ed i caratteri di due et? diverse si trovavano fra loro come innestati, per formare innanzi ai nostri sguardi una sfinge misteriosa, che ci maraviglia e quasi ci spaventa. Verso di essa noi siamo troppo severi, quando dimentichiamo che un secolo non pu? essere giudicato colle norme e i criter? di un altro.

Fuori d'Italia l'aristocrazia era sempre potentissima, e per? gli uomini che vivevano nelle armi, abbondavano: erano appunto nobili segu?ti dai loro vassalli. Ogni volta che gli Angioini ritentavano la loro eterna impresa di Napoli, o gli Spagnuoli facevano qualche nuova scorrer?a, restavano, dopo la guerra, soldati e drappelli sbandati, che, vaghi d'avventure, cercavano e trovavano servizio presso i signori o le repubbliche. I primi arrivati furono subito di richiamo agli altri, perch? le paghe erano grosse, e lo straniero trovava pi? facile preda e vittoria, per la mancanza fra noi d'uomini d'arme. E cominciarono a formarsi le compagnie di ventura, che mettevano a prezzo la propria spada al maggiore offerente. Esse divennero subito minacciose, insolenti, e dettarono leggi ad amici ed a nemici. Ma gl'Italiani pi? tardi s'arrolarono alla spicciolata sotto queste bandiere, ed allettati da questo nuovo genere di vita, crebbero tanto di numero, e cos? bene riuscirono, che si provarono poi a costituire compagnie nazionali. Non mancava invero fra noi la materia per formare capitani e soldati. Che cosa dovevano fare tutti quei capi di parte, che erano stati vinti nei loro ambiziosi disegni da pi? ambiziosi o fortunati rivali? Essi correvano l? dove trovavano rizzata una bandiera di ventura, e s'educavano alle armi, per comandare poi una squadra o una compagnia. I pi? piccoli tiranni, servendo sotto un capo di reputazione, o formando una compagnia, trovavano modo di difendere il proprio Stato e d'ingrandirlo. Quando una repubblica era vinta e sottomessa da un'altra, i cittadini che l'avevano governata e poi difesa invano, emigravano qualche volta in massa, per correre il mondo come soldati di ventura, e cercavano nell'armi quella libert? che avevano perduta in casa. Cos? fecero i Pisani, quando la loro repubblica cadde sotto i Fiorentini; cos? altri moltissimi. Il contado dava buon numero di soldati; ed alcune provincie, come la Romagna, le Marche e l'Umbria, dove il disordine era tale che gli uomini sembravano vivere di rapine, di vendette e di brigantaggio, furono addirittura un vivaio e mercato di capitani e soldati di ventura.

Queste compagnie non si possono dire una istituzione del Medio Evo, e neppure una istituzione moderna. Proprie d'un periodo di transizione, si compongono dei rottami di tutte le vecchie istituzioni, ora distrutte o cadenti, e sono una grande calamit?; ma lo spirito del Rinascimento italiano si manifesta anche in esse, che ne ricevono e ne determinano sempre pi? il carattere. Le nostre, che subito cominciarono ad aver vittoria contro le straniere, specialmente quando Alberico da Barbiano cre? la nuova arte della guerra, presero una forma, ebbero un carattere proprio e diverso dalle straniere. Queste, infatti, erano comandate da un Consiglio di capi, ognuno dei quali aveva molta autorit? sopra i suoi uomini, che solevano essere, in parte almeno, suoi vassalli, i quali all'occorrenza lo seguivano, quand'egli voleva separarsi dagli altri. In Italia, invece, l'importanza e la forza della compagnia dipesero affatto dal valore e dal genio militare di chi la comandava e quasi la personificava; i soldati obbedivano alla volont? suprema del capo, senza per? essere legati a lui da alcuna fedelt? o sottomissione personale, pronti ad abbandonarlo per un capitano pi? famoso o per una paga maggiore. La guerra divenne l'opera d'una mente direttrice, l'esercito fu unito dal nome e dal valore del capitano, la battaglia fu come una sua creazione militare.

Cos? si form? la scuola d'Alberico da Barbiano, cui tennero dietro quelle di Braccio da Montone, degli Sforza, dei Piccinini e di molti altri, gli uni formandosi sotto la guida e disciplina degli altri. Il capitano italiano creava la scienza e l'arte militare, come il principe creava la scienza e l'arte di governare. Nell'uno e nell'altro l'ingegno e la personalit? si manifestavano in altissimo grado; nell'uno e nell'altro mancava quella forza morale, che sola pu? dare stabilit? vera alle opere dell'uomo. Nella compagnia, pi? che altrove, il capitano era sciolto da tutti i vincoli convenzionali del Medio Evo; la sua fama e la sua potenza dipendevano unicamente dal suo valore e dal suo ingegno. Muzio Attendolo Sforza, uno dei pi? temuti capitani del suo tempo, divenuto anche gran contestabile del regno di Napoli, aveva in origine coltivato i campi, e cominci? la sua vita militare col custodire e condurre i cavalli. Il suo bastardo Francesco fu duca di Milano. Il Carmagnola, che comand? i pi? formidabili eserciti di Venezia, e fu signore di molte terre, era stato in origine guardiano di vacche. Niccol? Piccinini, prima di diventare capitano famoso, era stato ascritto all'arte dei macellai in Perugia. N? ci? recava la pi? piccola maraviglia ad alcuno. La compagnia era il campo aperto all'attivit? individuale; in essa comandavano solo la forza, la fortuna e l'ingegno; non v'erano vincoli tradizionali n? morali di sorta. La guerra si faceva senza servire ad alcun principio, ad alcuna patria, passando, per danari o promesse, dall'amico al nemico. L'onor militare, la fede ai patti giurati, la fedelt? alla propria bandiera, tutto ci? era ignoto al capitano di ventura, che avrebbe trovato puerile e ridicolo il lasciarsi da questi ostacoli fermare nel cammino intrapreso a costituire la propria fortuna e potenza, unico scopo alla vita.

Sotto molti aspetti la sua sorte ed il suo carattere somigliavano a quelli del tiranno italiano. Alla testa di un'amministrazione complicata e difficile, doveva ogni giorno pensare a raccogliere nuovi soldati, per riempire i vuoti che facevano nelle sue file, non tanto il ferro nemico, quanto la continua diserzione, e trovare ogni giorno i danari, coi quali pagare, nella pace e nella guerra, i suoi uomini. Egli era in continua relazione cogli Stati italiani, per cercare condotte, avere danari colle minacce o colle promesse, dare ascolto a coloro che, con maggiori offerte, volevano levarlo al nemico. Pareva in sostanza quasi principe d'una citt? che si moveva di paese in paese, il che non la rendeva di certo pi? facile ad amministrare o governare; ed al pari del tiranno, viveva in continui pericoli, nella pace non meno che nella guerra. Egli era minacciato dalle gelosie degli altri capi di bande o compagnie; dalle ambizioni dei sottoposti, che spesso tramavano congiure contro di lui; dalla mancanza di condotte, che, lasciandolo senza danari, poteva sciogliere il suo esercito. La nessuna sicurezza della sua fede teneva gli Stati che serviva sempre in sospetto, e dal sospetto facilmente si passava alle vie di fatto, testimon? il Carmagnola e Paolo Vitelli, improvvisamente presi e decapitati, l'uno dai Veneziani, l'altro dai Fiorentini, alla testa dei cui eserciti combattevano. Singolare era poi vedere questi uomini, il pi? delle volte di bassa origine e senza cultura, circondati in campo da ambasciatori, e da poeti, da eruditi, che leggevano loro Livio e Cicerone, e nei propri versi li paragonavano sempre a Scipione, ad Annibale, a Cesare o Alessandro. Quando conquistavano per proprio conto una terra, o la ricevevano in cambio di servigi prestati, il che pur seguiva qualche volta, erano addirittura capitani e principi ad un tempo.

La guerra divenne allora per gli Stati italiani una specie di operazione diplomatica e finanziaria: vinceva chi sapeva trovare pi? danari, procurarsi pi? amici, meglio lusingare e pagare i capitani pi? reputati, la cui fedelt? si alimentava solo con nuovi danari o nuove speranze. Ma il vero spirito militare and? presto decadendo in questi soldati, che avevano oggi di fronte i compagni di ieri, coi quali potevano essere domani nuovamente uniti. Il loro scopo non era pi? la vittoria, ma la preda. Pi? tardi le compagnie di ventura scomparvero affatto cedendo il luogo agli eserciti stanziali, cui avevano apparecchiato la via; ma esse lasciarono dietro di loro la memoria di grandi calamit?, durante le quali gl'Italiani dettero prova di molto ingegno e molto coraggio; fondarono la nuova arte della guerra; manifestarono una variet? infinita di attitudini e di qualit? militari; produssero una gran moltitudine di capitani, e pure sbandarono indebolendo e corrompendo sempre di pi?.

Il Medio Evo, per ridestare nell'uomo una nuova vita dello spirito, aveva disprezzato la vita terrena e la societ? civile; sottomesso la filosofia alla teologia, lo Stato alla Chiesa. Il reale gli sembrava utile solo come simbolo o allegor?a per esprimere l'ideale, la Citt? terrena solo come un apparecchio alla Citt? di Dio: si reagiva contro tutto ci? che era stata l'essenza del Paganesimo, l'ispirazione dell'arte antica. E cos? lo spirito umano rest? chiuso nei sillogismi della scolastica, nelle nebbie del misticismo, nelle fantastiche e intricate creazioni della poesia cavalleresca e delle canzoni provenzali. Ma quando, come per uno slancio improvviso di nuova ispirazione, in mezzo alle libert? comunali, sorsero la poesia e la prosa italiana a descrivere gli affetti, le passioni reali e vere dell'uomo, il mondo del Medio Evo fu condannato a perire. Le vecchie forme, incerte e fantastiche, non resistettero pi? di fronte a quelle nuove analisi cos? precise, a quelle immagini cos? splendide e chiare, a quello stile, a quel linguaggio, in cui il pensiero trasparisce come attraverso purissimo cristallo. Ma questa letteratura, dando un nuovo indirizzo allo spirito umano, fece ben presto nascere anche bisogni nuovi, che essa non poteva tutti soddisfare. Il linguaggio poetico s'era gi? trovato, e s'erano avuti, in una forma ammirabile, la novella, il sonetto, la canzone ed il poema; ma il nuovo stile filosofico, epistolare, oratorio, storico mancavano affatto: il bisogno di trovarli diveniva irresistibile.

Bisognava dunque allargare lo stile; diffondere la lingua; renderla pi? universale, pi? duttile; trovare le nuove forme letterarie, che ancora mancavano ed erano divenute necessarie. Ma questo bisogno cominciava a sentirsi nel momento stesso in cui ogni giovanile e vigoroso incremento delle forze nazionali veniva contrastato dalle complicazioni politiche e sociali, che abbiamo pi? sopra accennate. Cominciava perci? a mancare quella forza creatrice che gi? aveva dato origine alla nostra letteratura, e sola poteva portarla al suo naturale compimento, facendole trovare le altre forme che essa cercava. Se non che, queste forme non sono mutabili a capriccio, sono determinate dalle leggi stesse del pensiero e della natura, ed erano state trovate la prima volta dai Greci e dai Romani, negli scritti dei quali serbano in eterno tutto il vigore, lo splendore e la originalit?, che le opere dell'arte raggiungono solo nel momento della prima creazione. Il ritorno al passato si presentava quindi come un progresso naturale, necessario, e la grande relazione della cultura latina con la italiana lo faceva sembrare come un ritemprarsi alle prime sorgenti, un ritorno all'antica grandezza nazionale. I Greci ed i Latini presentavano inoltre agl'Italiani una letteratura ispirata alla natura ed alla realt?, guidata dalla ragione, non sottoposta ad alcuna autorit?, non circondata da nessun velo allegorico, da nessun misticismo: imitarla era quindi un liberarsi affatto dal Medio Evo. E cos? tutto spingeva ora verso il mondo antico. La pittura e la scultura vi trovavano lo studio perfezionato delle forme umane, un disegno insuperabile; l'architettura vi trovava una costruzione pi? solida e meglio pieghevole ai var? bisogni della vita sociale; l'uomo di lettere, quel magistero di stile, di cui andava in cerca; il filosofo, l'indipendenza della ragione e l'osservazione della natura; il politico trovava nel concetto di Roma antica quella unit? dello Stato, che non solo la scienza, ma la societ? stessa cercavano allora come un loro fine necessario. La imitazione dei Greci e dei Romani divenne perci? come una man?a, che s'impadron? rapidamente di tutti gli animi: i tiranni vollero imitare Cesare ed Augusto; i repubblicani, Bruto; i capitani di ventura, Scipione ed Annibale; i filosofi, Aristotele e Platone; i letterati, Virgilio e Cicerone; perfino i nomi stessi delle persone e dei paesi si mutarono in greci e romani.

Si lavor? con energia irrefrenabile; si cercarono e si trovarono tutte le forme letterarie; si ottenne una grande verit? e facilit? nella prosa e nella poesia; si crearono il linguaggio e lo stile oratorio, diplomatico, storico, filosofico; ma svaniva il sentimento religioso; s'infiacchiva il senso morale, ed il culto della forma cresceva spesso a scapito della sostanza, difetto che rimase per molti secoli nella letteratura italiana. Nel vedere questa prodigiosa attivit? intellettuale, che sotto mille forme diverse si riproduce sempre pi? ricca e pi? splendida, eppur sempre accompagnata da una sociale e morale decadenza, lo storico che studia quei tempi, resta sgomento, sentendosi come in presenza di una misteriosa contradizione, che fa presagire futuri guai. Quando il male che travaglia internamente questo popolo, verr? alla superficie, una catastrofe sar? inevitabile. Il lento e continuo avanzarsi di essa, in mezzo a tanto progresso intellettuale, ? appunto la storia del Rinascimento. Per meglio comprenderla bisogna esaminare le cose anche pi? da vicino.

I PRINCIPALI STATI ITALIANI

La prima trasformazione del Comune italiano che, per mezzo della tirannide, apr? la via alla costituzione dello Stato moderno, noi la troviamo a Milano. Divenuta centro d'una vasta agglomerazione di repubbliche e signorie, che interessi e gelosie diverse ora riunivano ed ora separavano, vide sorgere nel suo seno il dominio della famiglia Visconti, lacerata anch'essa da interni e sanguinosi dissid?. Nel 1378 si trovano di fronte Bernab? ed il nipote Giovan Galeazzo, pi? noto col nome di conte di Virt?. Ambedue ambiziosi e malvagi del pari, il primo era ciecamente dominato dalle sue passioni, e fu quindi preda del nipote, che sapeva dirigerle ad un fine premeditato. Questi riusc? nel 1385 a farlo con i figli mettere in prigione, donde non uscirono pi? vivi; e restato cos? solo, si pose con ardore all'opera di riordinare lo Stato, per liberarlo dall'anarchia.

In mezzo a mille nemici, egli non aveva un esercito, ed era anche privo di valor militare; ma accoppiava ad una grandissima astuzia una profonda conoscenza degli uomini ed un vero ingegno politico. Chiuso nel suo castello di Pavia, prese a stipendio i primi capitani d'Italia, ed i pi? accorti diplomatici, distendendo con questi le fila della sua tenebrosa politica in tutta la Penisola, che subito riemp? d'intrighi e di guerre, dirigendo le operazioni militari dal suo gabinetto. Con un occhio sicuro ed una volont? pronta, egli riusc? a fare una vera ecatombe di piccoli tiranni nella Lombardia, unendosi con gli uni ad abbattere gli altri, per poi rivolgersi contro quelli che lo avevano aiutato, e impadronirsi dei loro Stati. Cos? form? il Ducato di Milano, di cui ebbe l'investitura dall'Imperatore. Estese poi il suo dominio sino a Genova, a Bologna, alla Toscana, e vagheggiava mettersi sul capo la corona d'Italia, dopo aver vinto Firenze, che gi? aveva esaurita con le continue guerre. Ma il 3 dicembre 1402 la morte venne a troncare tutti gli ambiziosi disegni.

Mirabile fu vederlo chiuso nelle mura del suo castello, gettarsi in tante guerre, che di l? seppe dirigere e vincere fortunatamente. Nello stesso tempo egli cre? ed ordin? un nuovo Stato. Occupazione principale del suo governo fu veramente imporre tasse, per alimentare le guerre incessanti; ma la giustizia veniva nei casi ordinar? bene amministrata, le finanze procedevano con ordine, e la prosperit? cresceva. Le libere assemblee furono mutate in Consigli amministrativi e di polizia; ogni citt? ebbe un Podest?, eletto dal Duca, non pi? dal popolo; il Comune non fu pi? uno Stato, ma un organo amministrativo, come nelle societ? moderne; ed un collegio d'uomini autorevoli nella capitale rendeva gi? immagine dei nostri ministeri. Circondato da letterati ed artisti, iniziatore di molte opere pubbliche, fra cui i due pi? grandi monumenti della Lombardia, il duomo di Milano e la certosa di Pavia, ove d?tte anche nuova vita e splendore alla universit?, egli fu uno dei primi principi moderni. Con lui le istituzioni del Medio Evo scompariscono affatto, e sorge l'unit? del nuovo Stato. Questo fu per? una creazione tutta personale del principe, che ebbe di mira solamente il suo interesse personale; e quindi con la sua morte la societ? ricadde ben presto nell'anarchia, lacerata dalle ambizioni dei capitani di ventura.

Pi? tardi Filippo Maria, figlio di Giovan Galeazzo, ripigli? in mano le redini del governo, per camminare sulle orme del padre. Egli aveva dovuto dividere il Ducato col fratello Giovanni Maria, uomo feroce, che faceva sbranare le sue vittime dai cani, di cui teneva perci? gran moltitudine; ma il pugnale dei congiurati venne a far vendetta, ed il 12 maggio 1412 Giovanni fu pugnalato in chiesa. Filippo era una copia peggiorata del padre, di cui non aveva l'ingegno politico; astuto, falso, traditore e crudele univa ad una grande conoscenza degli uomini un perfetto dominio delle sue passioni. Timido fino alla vilt?, aveva la strana passione di gettarsi in guerre continue e pericolose, le quali conduceva scegliendo, con mirabile accortezza, i primi capitani d'Italia, che poneva gli uni in sospetto degli altri, per essere sicuro dalle loro ambizioni. Circondato di spie, chiuso nel suo castello di Milano, da cui non usciva mai, ingann? sempre e trov? sempre da ingannare; visse in continua guerra con tutti, e si salv? sempre dalle disfatte con l'astuzia. I Fiorentini furono da lui rotti a Zagonara nel 1424; dai Veneziani, che sempre combatt?, fu pi? e pi? volte vinto; ma dopo paci non sempre accorte ed onorevoli, raccoglieva danari e ripigliava la guerra. Si gett? perfino nella contesa napoletana fra gli Angioini e gli Aragonesi, e riusc? a prendere prigioniero Alfonso d'Aragona, che poi liber? per non lasciar piena vittoria agli Angioini. In mezzo a questo grande turbin?o d'eventi e di nemici da lui provocati, riconquist? e riordin? lo Stato paterno, che tenne sicuro fino alla morte , unicamente per mezzo della sua infernale astuzia.

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