Read Ebook: Niccolò Machiavelli e i suoi tempi vol. I by Villari Pasquale
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Pi? tardi Filippo Maria, figlio di Giovan Galeazzo, ripigli? in mano le redini del governo, per camminare sulle orme del padre. Egli aveva dovuto dividere il Ducato col fratello Giovanni Maria, uomo feroce, che faceva sbranare le sue vittime dai cani, di cui teneva perci? gran moltitudine; ma il pugnale dei congiurati venne a far vendetta, ed il 12 maggio 1412 Giovanni fu pugnalato in chiesa. Filippo era una copia peggiorata del padre, di cui non aveva l'ingegno politico; astuto, falso, traditore e crudele univa ad una grande conoscenza degli uomini un perfetto dominio delle sue passioni. Timido fino alla vilt?, aveva la strana passione di gettarsi in guerre continue e pericolose, le quali conduceva scegliendo, con mirabile accortezza, i primi capitani d'Italia, che poneva gli uni in sospetto degli altri, per essere sicuro dalle loro ambizioni. Circondato di spie, chiuso nel suo castello di Milano, da cui non usciva mai, ingann? sempre e trov? sempre da ingannare; visse in continua guerra con tutti, e si salv? sempre dalle disfatte con l'astuzia. I Fiorentini furono da lui rotti a Zagonara nel 1424; dai Veneziani, che sempre combatt?, fu pi? e pi? volte vinto; ma dopo paci non sempre accorte ed onorevoli, raccoglieva danari e ripigliava la guerra. Si gett? perfino nella contesa napoletana fra gli Angioini e gli Aragonesi, e riusc? a prendere prigioniero Alfonso d'Aragona, che poi liber? per non lasciar piena vittoria agli Angioini. In mezzo a questo grande turbin?o d'eventi e di nemici da lui provocati, riconquist? e riordin? lo Stato paterno, che tenne sicuro fino alla morte , unicamente per mezzo della sua infernale astuzia.
Egli non aveva eredi legittimi, ma solo una figlia naturale, Bianca, il che aveva reso assai pi? pericolosa la sua condizione, essendo molti coloro che aspiravano a succedergli. Fra di essi v'era Francesco Sforza, tenuto in Italia il primo capitano del secolo, al cui aiuto il Visconti dovette di continuo ricorrere, trovandosi perci? inevitabilmente in bal?a di lui. Questi era un leone che sapeva far la volpe, e Filippo Maria era una volpe che amava mettersi la pelle del leone. Cos? vissero ambedue lunghi anni, tendendosi a vicenda agguati, e conoscendo ognuno assai bene le intenzioni segrete dell'altro. Lo Sforza fu pi? e pi? volte sull'orlo d'una totale rovina, circondato dalle trame del Visconti, che poi invece lo aiutava. Nel 1441 davagli in isposa la propria figlia, e ne alimentava cos? le ambiziose speranze, per meglio valersene nelle guerre, salvo poi a ordir nuove trame contro di lui, che pur sapeva scamparne senza mai lasciarsi vincere dal desiderio della vendetta. Ed in questo modo, quando, dopo quasi mezzo secolo di regno, il Visconti moriva di morte naturale, lo Sforza si trov? abbastanza potente per riuscire nel disegno lungamente meditato d'impadronirsi del Ducato.
Milano aveva proclamato la repubblica; le citt? sottoposte s'eran ribellate; Venezia minacciava; i partiti interni si scatenavano. Egli offr? la sua spada in servigio della pericolante citt?, che credette d'aver trovato un'?ncora di salvezza, ed invece fu poco di poi assediata dal suo stesso capitano, che il 25 marzo 1450 vi faceva l'ingresso trionfale, avendo gi? ordinata la propria corte. Il suo primo atto fu d'interrogare il popolo se, a difesa contro i Veneziani, volevano ricostruire la fortezza di porta Giovia, o mantenere piuttosto un esercito permanente in citt?. Votarono per la fortezza, che fu invece valido baluardo della tirannide contro il popolo. Amici e nemici, se temibili, furono subito imprigionati, spogliati di tutto, ed anche spenti senza esitare. Il territorio dello Stato fu riconquistato; i ribelli furono sottomessi; l'ordine, l'amministrazione, la giustizia dei tribunali ordinar? ristabiliti con maravigliosa rapidit?. E in tutto ci? lo Sforza procedeva con la calma dell'uomo che si sente forte, e che vuole aver nome d'imparziale e giusto. Pure quando gli pareva opportuno, nessuno pi? di lui sapeva, per disfarsi d'amici o nemici, essere perfido e crudele.
La rivolta di Piacenza fu soffocata nel sangue dal suo fido capitano Brandolini. Arrivate le stragi al colmo, e pacificata ogni cosa, si vide con generale maraviglia il Brandolini messo in carcere come sospetto; poi fu trovato con la gola tagliata, e una spada spuntata e sanguinosa accanto. Si disse dal volgo, che il Duca aveva voluto disapprovare e punire le crudelt? eccessive del suo capitano; si disse invece dai pi? accorti che, dopo essersene servito, gettava via l'inutile strumento, perch? su di esso solamente cadesse l'odio del sangue versato. Nato e vissuto nella guerra, egli voleva ora essere un uomo di pace, e mirava unicamente a consolidare il proprio Ducato ne' suoi naturali confini, abbandonando del tutto gli ambiziosi e pericolosi disegni dei Visconti. E quando, dopo una guerra quasi generale, ma di nessuna importanza, i potentati italiani vennero l'anno 1454 ad una pace comune, egli seppe fare in modo da essere implicitamente riconosciuto da tutti, restando a lui anche il Bergamasco, la Ghiara d'Adda ed il Bresciano. Noto fra i pi? audaci e tumultuosi capitani di ventura, conosceva meglio d'ogni altro di che grande calamit? essi erano agli Stati ordinati e pacifici; quindi fu tra coloro che pi? contribuirono, se non a farli scomparire del tutto, a far loro perdere assai della passata importanza, come gi? per forza naturale delle cose cominciava a seguire. Uno solo della vecchia scuola sopravviveva allora, Iacopo Piccinini, ed era veramente di quelli che, rizzando una bandiera, potevano mettere insieme un esercito pericoloso. Costui se ne viveva tranquillo a Milano, quando gli venne voglia d'andare a vedere le sue terre nel reame di Napoli, e fu dal Duca assai incoraggiato, sebbene ognuno sapesse quanto era inviso a Ferrante d'Aragona. Arrivato col?, venne accolto a braccia aperte dal Re, che lo condusse a vedere la reggia e poi lo mise in prigione, dove presto mor?. Lo Sforza protest?, strepit? contro la violata fede; ma tutti credettero che, d'accordo con Ferrante, egli si fosse voluto liberare d'un incomodo vicino.
Il figlio Galeazzo Maria, dissoluto e crudele, era di un'indole cos? triste, che fu perfino accusato d'avere avvelenato la propria madre. Credendo che al principe tutto fosse lecito e possibile, egli, in un secolo che omai si poteva dir civile, fece seppellir vivi alcuni de' suoi sudditi; altri condann? a morir fra torture crudeli, per frivoli pretesti, perdonando solo a coloro che si riscattavano con danaro. Dissipava tesori nelle feste in Milano e nelle cavalcate che faceva per tutta Italia, portando corruzione dovunque andava. N? gli bastava corrompere le donne delle pi? nobili famiglie milanesi, che le esponeva egli stesso anche al pubblico disprezzo. Le istituzioni o la volont? popolare non potevano allora metter freno a questo cieco furore, perch? un popolo pi? non esisteva, e le istituzioni eran tutte divenute congegni atti solo a servir la tirannide. Ben vi pose fine una congiura delle pi? singolari e notevoli, in quello che pu? veramente dirsi il secolo delle congiure.
Ben s'illuderebbe, per?, chi s'aspettasse di vederli salire al potere con le arti ed i mezzi adoperati dai Visconti e dagli Sforza. Colui che avesse in Firenze cominciato a torturare arbitrariamente i cittadini, a seppellirne vivo qualcuno, a farne sbranare qualche altro dai cani, come fecero i signori di Milano, sarebbe stato subito cacciato a furore di popolo dalle Arti maggiori e dalle minori unite insieme. L'importanza e l'originalit? politica tutta propria dei Medici sta anzi in questo, che il loro trionfo ? la conseguenza d'una condotta tradizionale, seguita da quella famiglia, per pi? di un secolo, con una costanza ed un'accortezza impareggiabili, per arrivare ad impadronirsi del potere senza ricorrere alla violenza. E l'essere a ci? riusciti in una citt? cos? accorta, cos? inquieta, cos? gelosa delle sue antiche libert?, ? prova di un vero genio politico.
Sin del 1378, in mezzo all'incomposto tumulto dei Ciompi, noi troviamo la mano di Salvestro dei Medici, che, quantunque delle Arti maggiori, aiuta, eccita le minori a rovesciarne il potere, e acquista cos? una grande popolarit?. Fallito quel tumulto, ricominciata la guerra, e quindi tornate le Arti maggiori e gli Albizzi al potere, noi vediamo Vieri de' Medici rimanersene tranquillo, pensando solo a far danari. Non cess? tuttavia di mostrarsi favorevole sempre al partito popolare, nel quale seppe acquistarsi tanta autorit? da far dire al Machiavelli, <
Quando nel 1429 Cosimo dei Medici, in et? di quarant'anni, succedeva al padre, egli, che era per s? stesso uomo di grande autorit? e fortuna, trovava la via gi? spianata dinanzi a s?. Aveva col commercio aumentato assai il ricco patrimonio av?to, e ne usava cos? largamente, imprestando o donando, che non v'era quasi uomo autorevole in Firenze, che, nei suoi bisogni, non ricorresse a lui e non lo trovasse pronto. Onde ? che, senza mai uscire, in apparenza almeno, dalla modestia di privato cittadino, vedeva ogni giorno aumentare la sua potenza, e se ne valeva a demolire gli ultimi avanzi del potere degli Albizzi e de' loro amici. Il che li fece montare in tanto furore, che, levatisi a tumulto, lo cacciarono in esilio, non osando fare di peggio . Ma Cosimo neppure allora perdette la sua calma prudente. Se ne and? a Venezia come un benefattore ripagato d'ingratitudine, e fu da per tutto accolto come un principe. L'anno seguente un tumulto popolare, favorito dal numero infinito di coloro che aveva beneficati o che speravano benefizi, cacciati gli Albizzi, lo richiam? a Firenze, dove essendo partito potente, torn? potentissimo, coll'animo irritato dal desiderio della vendetta. Abbandon? allora l'antica riserva, per mettere a profitto il momento opportuno. Senza spargere molto sangue, colle persecuzioni e gli esil? disfece addirittura il partito avverso, abbassando i potenti, tirando su uomini <
Gli ultimi anni della vita di Cosimo furono assai tristi per Firenze, perch? i partigiani dei Medici, non moderati pi? dalla prudenza del loro capo, divenuto per l'et? impotente, si diedero a parteggiare, e cos? crebbero a dismisura le persecuzioni e gli esil?. N? mutarono le cose quando, per breve tempo, gli successe il figlio Piero. Alla costui morte per? compaiono sulla scena Lorenzo e Giuliano, il primo dei quali, sebbene avesse solo ventun anno, era gi? assai autorevole. Educato dai principali letterati del secolo, s'era dimostrato uguale a molti di essi per ingegno e dottrina; viaggiando l'Italia, per conoscere le Corti ed acquistare esperienza degli uomini, aveva dovunque lasciato grande opinione di s?. Egli afferr? subito con animo deliberato le redini del governo, ed avvistosi che la elezione della nuova Bal?a non era d'esito sicuro nel Consiglio dei Cento, fece, con l'aiuto dei pi? fidi, e come per sorpresa, votare che i Signori in ufficio, insieme con la vecchia Bal?a, eleggessero la nuova. Assicuratosi cos? il potere per cinque anni, si mise all'opera assai pi? tranquillo.
Invece della solita Bal?a quinquennale, istitu? nel 1480 il Consiglio dei Settanta, che si rinnovava da s?, e fu come una Bal?a permanente con poteri ancora pi? larghi. Composto d'uomini tutti a lui devoti, gli assicur? per sempre il governo. Con esso, dicono i cronisti del tempo, la libert? fu in tutto sotterrata e perduta; ma con esso ancora gli affari pi? importanti dello Stato furono condotti da uomini intelligenti e colti, che ne promossero grandemente la prosperit? materiale. Firenze si chiamava ancora una repubblica, i nomi delle antiche istituzioni duravano ancora; ma tutto ci? sembrava ed era solo un'ironia. Lorenzo, padrone assoluto di tutto, si poteva veramente dire un tiranno: circondato da staffieri e da cortigiani, che spesso ricompensava coll'affidar loro l'amministrazione delle opere pie; scandaloso pe' suoi amori, teneva uno spionaggio generale e continuo, ingerendosi anche negli affari privati; non permetteva i matrimon? di qualche importanza, se non gli piacevano; e gli uomini pi? vili, saliti ai maggiori uffici, erano, come dice il Guicciardini, divenuti i <
Ma neppure questa politica poteva riuscire a fondar nulla di stabile. Modello impareggiabile d'accortezza e prudenza, essa promosse e svolse in Firenze tutti quanti i nuovi elementi, di cui la societ? moderna doveva comporsi, senza riuscir mai a costituirla definitivamente, perch? era una politica di equivoco e d'inganno, diretta da un uomo di molto ingegno, che in sostanza aveva di mira il suo interesse personale e quello della propria famiglia, ai quali era sempre disposto a sacrificare i veri interessi del popolo e dello Stato.
La storia di Venezia sembra essere in diretta contradizione con quella di Firenze. Questa, infatti, ci presenta una serie di rivoluzioni che, partendo da un governo aristocratico, arrivano alla pi? grande uguaglianza democratica, per cadere poi nel dispotismo d'un solo; Venezia, invece, procede con ordine e fermezza alla costituzione di un'aristocrazia sempre pi? forte. Firenze cerca invano salvare la libert?, mutando sempre pi? spesso i suoi magistrati; Venezia crea il Doge a vita, rende ereditario il Maggior Consiglio, consolida la repubblica, diviene potentissima e riman libera per molti secoli. Una cos? grande divergenza per?, non solamente si spiega, ma apparisce ai nostri occhi assai minore, se esaminiamo le speciali condizioni, tra cui s'and? formando la repubblica veneta.
Fondata dai rifugiati italiani che popolarono la laguna, sulla quale non arrivarono le invasioni barbariche, non ebbe, o assai poco, il feudalismo n? le altre istituzioni e leggi germaniche, che penetrarono largamente nel resto d'Italia. Cos? a Venezia, fin dal principio si trovarono di fronte il popolo dato all'industria ed al commercio, e le antiche famiglie italiane, che, non avendo l'aiuto dell'Impero, n? la forza dell'ordinamento feudale, vennero facilmente domate e vinte. E si form? subito l'aristocrazia del danaro o del popolo grasso, cui fu molto facile impadronirsi del governo e tenerlo per secoli. Questo trionfo, che a Firenze fu lento, che segu? dopo molte lotte, dopo lunghe interruzioni, e condusse poi alla signoria de' Medici, fu invece a Venezia rapidissimo e permanente. Sin dal principio la prosperit? della laguna venne dalle lontane imprese, dai lontani commerci, che, pi? o meno dappertutto in Italia, costituirono la forza del popolo grasso. A ci? si aggiungeva da un lato, che il popolo minuto era occupato molti mesi dell'anno in lunghe navigazioni, e dall'altro, che il governo delle colonie dava modo ai pi? ambiziosi cittadini di comandare senza mettere a repentaglio la Repubblica.
Ma il pericolo maggiore alla Repubblica venne dai nuovi germi di corruzione interna, che cominciarono a minacciare di dividerla. I nemici del Foscari, dopo avere invano cospirato contro la sua vita ed il suo governo, si volsero ora a tormentarlo col perseguitare il figlio Iacopo, unico superstite dei maschi, di carattere leggerissimo, ma pur ciecamente amato dal padre. Esiliato nel 1445, per avere accettato donativi, il che le leggi vietavano severamente al figlio del Doge, fu, dopo ottenuta la grazia, esiliato di nuovo nel 1451 alla Canea, perch? accusato di connivenza nell'uccisione d'uno di coloro che erano stati suoi giudici. Richiamato di l? nel 1456, venne sottoposto a nuovo processo, per aver tenuto segreta corrispondenza col duca di Milano, e fu condannato a pi? lungo esilio. Entrato nella prigione, il vecchio Doge disse, impassibile, al figlio che cercava grazia ai suoi piedi: <
Abbandonata da tutti gl'Italiani, si trov? sola di fronte al Turco, che s'avanzava con forze formidabili. Il sopracomito Girolamo Longo scriveva nel 1468, che la flotta turca con cui doveva affrontarsi, era di 400 vele, le quali occupavano sei miglia di lunghezza. <
Da questo momento l'orizzonte della Repubblica si va restringendo sempre di pi?. Occupata solo de' suoi interessi materiali, avviluppata negl'intrighi della politica italiana, essa non pretese pi? d'essere la guardiana della Penisola e della Cristianit? contro gl'infedeli. Tutto allora sembrava seguire a suo danno nella storia del mondo. La scoperta d'America e quella del Capo di Buona Speranza la posero fuori delle principali vie del commercio. Ristretta da ogni lato, perdette a poco a poco con i grandi guadagni la sua storica importanza, che le veniva dall'essere stata l'anello di congiunzione fra l'Oriente e l'Occidente. Ora tutto si ridusse a strappar qualche terra ai vicini; imporre ad essi il proprio commercio, sempre grande e potente. Avanzatasi fino all'Adda da un lato, occupava dall'altro Ravenna, Cervia, Rimini, Faenza, Cesena ed Imola nelle Romagne; nel Trentino teneva Roveredo e le sue dipendenze; aveva anche portate le sue armi sulla costa adriatica del Napoletano, dove si era impadronita di alcune terre. Ma l'aver tolto a tutti qualche cosa, faceva s? che tutti la temessero e l'odiassero.
Il destino di questo Papa, che sottomise definitivamente la Citt? Eterna, fu singolare. Quando il Vitelleschi e lo Scarampo facevano correre il sangue a fiumi, egli se ne stava a Firenze tra le feste e gli eruditi. Senza aver grande cultura, n? sentir molto amore per le lettere, trovandosi al Concilio fiorentino, ed avendo bisogno d'interpetri per discutere e trattare coi rappresentanti della Chiesa greca, si vide costretto ad ammettere gli eruditi nella Curia, la quale ben presto ne fu inondata, il che port? poi un notevole mutamento nella storia del Papato. Accanto al suo feretro venne recitato un solenne elogio funebre, in latino classico, dal celebre umanista Tommaso Parentucelli, il quale fu eletto a succedergli unicamente per la gran fama della sua erudizione. Prese il nome di Niccol? V, e si disse allora da tutti, che con lui era salita sulla cattedra di San Pietro l'erudizione stessa. Trovando lo Stato abbastanza sicuro e tranquillo, egli che non aveva un ingegno originale, n? conosceva il greco , ma che era il pi? grande raccoglitore ed ordinatore di antichi codici, port? questa passione sulla sedia apostolica, facendone quasi unico scopo del suo Papato. Il sogno principale della sua vita fu di trasformare Roma in un gran centro di letterati, in una grande citt? monumentale, con la prima biblioteca del mondo. Potendo, egli avrebbe trasportato tutta Firenze sulle rive del Tevere. Mand? suoi messi in giro per l'Europa, a raccogliere o copiare codici antichi; eccit? molti eruditi a tradurre, con lauti stipend?, classici greci, senza occuparsi delle loro opinioni religiose o politiche. Il Valla, che aveva con gran clamore scritto contro la donazione di Costantino ed il potere temporale dei Papi, fu dei primi ad essere chiamato da lui. Stefano Porcari, che con la lettura dei classici s'era, come Cola di Rienzo, infatuato della repubblica, fu pure colmato di onori. Costui per?, avendo addirittura cospirato per sovvertire il Governo e restaurare gli ordini repubblicani, fece finalmente perdere la pazienza al Papa, e venne condannato a morte. Ma nulla poteva intiepidire la passione erudita di Niccol? V: a tutto egli rimediava con qualche discorso latino, come fece per la caduta di Costantinopoli; e continuava sempre a comprare codici, a chiamare eruditi. La Curia divenne un'officina di truduttori e di copiatori; la biblioteca Vaticana s'and? accrescendo con rapidit?, e fu arricchita di molti volumi splendidamente legati. Nello stesso tempo s'aprivano strade, si costruivano fortezze, sorgevano chiese e monumenti d'ogni sorta. Era una febbrile attivit?, perch? il Papa, coll'aiuto dei primi architetti del mondo, fra cui Leon Battista Alberti, ideava un disegno, secondo cui Roma avrebbe vinto lo splendore di Firenze. La citt? leonina doveva essere trasformata in una grande fortezza papale, in cui San Pietro e il Vaticano dovevano essere ricostruiti dalle fondamenta. Sebbene Niccol? V non riuscisse a compiere questa impresa veramente grandiosa, alla quale sarebbero bastate appena molte generazioni; pure la inizi? con tanto ardore, che sotto di lui Roma mut? totalmente aspetto, ed i lavori immortali, eseguiti al tempo di Giulio II e di Leone X, continuarono l'attuazione del suo medesimo disegno.
Nel 1462 il Papa aveva raccolto buona somma di danaro, per l'improvvisa scoperta di ricche miniere d'allume a Tolfa, e torn? da capo all'idea della Crociata, invitando i principi a partire subito per l'Oriente. Vecchio e malato com'era, si fece portare in lettiga ad Ancona, dove s'aspettava di trovar navi ed eserciti, che voleva accompagnare per benedire egli stesso la battaglia, come fece Mos? quando Israele combatteva contro Amalech. Invece il porto era vuoto, e quando arrivarono finalmente poche galee veneziane, Pio II spir? guardando l'Oriente, e raccomandando la Crociata . Questa vita, che a primo aspetto pu? sembrare soggetto degno di romanzo o anche d'epico racconto, fu in sostanza priva d'ogni vera gloria o santit? religiosa. Pio II fu un erudito di molto ingegno, che voleva compiere qualche cosa d'eroico, senza avere in s? stesso nessuna eccezionale grandezza morale. Sebbene fosse, tra i Papi di quel secolo, il pi? notevole certo per ingegno, non ebbe profonde convinzioni; rifletteva le opinioni e le velleit? degli uomini fra cui viveva, mutando sempre, secondo i tempi e secondo le condizioni, in cui si trovava. Il suo regno sembr? avere un certo splendore, e dar molte speranze; ma in fatto poi non lasci? nulla di durabile dietro di s?. Dopo che v'erano stati Papi che avevano colla forza fondato il temporale dominio, e Papi che avevano fatto fiorire a Roma le lettere e le arti; dopo che egli, mantenendo l'ordine, aveva col predicare la Crociata, dato anche l'apparenza d'un risveglio religioso in Italia, poteva aspettarsi un'?ra migliore di pace sicura. Invece ora appunto si scatenano le passioni, e sono vicine le pi? grandi oscenit?, i pi? terribili delitti nella Corte di Roma.
L'anarchia s'era, fra tanta confusione, di nuovo scatenata in Roma, n? si vedeva modo di contenerla: ogni mattina si trovavano cadaveri per le vie. Chi pagava, otteneva un salvocondotto; chi non pagava, era impiccato a Tor di Nona. Ogni delitto aveva la sua tariffa, e le somme maggiori di 150 ducati andavano a Franceschetto Cibo figlio del Papa, le minori alla Camera. Il parricidio, lo stupro, tutto poteva essere assoluto per danaro. Il Vice-Camerlengo diceva ridendo: Il Signore non vuole la morte del peccatore, ma che viva e paghi. Le case dei cardinali erano piene di armi, di bravi e di malfattori, cui davano asilo. N? era molto diverso lo stato delle cose in provincia. A Forl? fu assassinato Girolamo Riario , dicevasi, perch? il Papa voleva dare quello Stato a Franceschetto Cibo; a Faenza Galeotto Manfredi fu ucciso dalla moglie. Il pugnale ed il veleno lavoravano per tutto; le pi? diaboliche passioni s'erano scatenate in Italia, e Roma era la fucina principale dei delitti.
In che misere condizioni si trovasse quello Stato, e quanto universalmente fosse allora desiderata la pace, non occorre dirlo. Il trionfo d'Alfonso fu salutato come il principio d'un'?ra novella. Egli aveva lasciato la Spagna per venire a fare tra noi una guerra avventurosa, con la quale, sostenendo fatiche e pericoli d'ogni sorta, aveva conquistato un vasto regno combattendo e vincendo i primi capitani del secolo, un numero assai grande di nemici. Straniero all'Italia, comandava ora provincie da lungo tempo lacerate e dominate da stranieri; mut? assai rapidamente il suo carattere nazionale, per divenire in tutto simile ai nostri principi, con uno spirito militare e cavalleresco, per?, che essi avevano di rado. Passeggiava disarmato e senza guardie in mezzo al suo popolo, dicendo che un padre non deve temere de' suoi figli. La sua corte era piena di eruditi, e mille aneddoti si raccontavano a provare la sua straordinaria ammirazione per gli antichi.
Erede d'un vasto regno conquistato e pacificato dal padre, poteva Ferdinando o Ferrante, come lo chiamavano, sperare di possederlo tranquillamente; ma dov? invece riconquistarlo colle armi, perch? il disordine latente port? subito i suoi frutti. La prima scintilla fu accesa da papa Calisto, il quale doveva tutto ad Alfonso, ed aveva legittimato Ferrante. Invece ora dichiarava estinta la discendenza aragonese, ed il Reame devoluto alla Chiesa come feudo. I baroni angioini furono in armi; Renato di Lorena sbarc? tra le foci del Volturno e del Garigliano; la rivoluzione scoppi? in Calabria ed altrove. Pure, combattendo continuamente, Ferrante riusc? nel 1464 a sottomettere di nuovo tutto il Regno; ed allora non pens? a riordinarlo, ma solo a fare le sue vendette. Egli preferiva spegnere i propr? nemici a tradimento. Con una crudelt? ributtante davvero li abbracciava, li carezzava e li cibava lautamente prima di mandarli a morte. Uomo di singolare ingegno, di grande penetrazione politica e di coraggio, ma pieno di viz? e di contradizioni, mantenne nel Regno un'amministrazione rovinosa, facendo anche commercio per proprio conto. Raccoglieva derrate, ed obbligava i sudditi a non vender le loro, se prima egli non aveva venduto le sue al prezzo che voleva. Tutto era fondato sopra un sistema artificioso, falso, che finiva col distruggere le forze dello Stato, sebbene il re avesse scelto a ministri uomini abilissimi. Fra questi sono noti il segretario Antonello Petrucci ed il Pontano, che era non solamente uno dei pi? grandi eruditi del secolo, ma anche un accortissimo diplomatico. Egli fu il principale ministro di Ferrante, conduceva le relazioni cogli Stati italiani, scriveva i dispacci diplomatici, concludeva i trattati. Francesco Coppola conte di Sarno, ricchissimo e potente, dirigeva l'amministrazione e le operazioni commerciali per trovare danari, senza alcun rispetto umano o divino. Ma questi abili ministri non erano che strumenti della falsa politica d'un tiranno accorto e d'ingegno, il quale trattava il popolo e lo Stato come una tenuta, da cui voleva, durante la sua vita, cavare pi? danaro che poteva, lasciando ai posteri la cura del poi. A ci? s'aggiungeva che il Duca di Calabria, Alfonso, pi? crudele, superbo e tiranno del padre, senza averne l'ingegno n? il coraggio, disgustava chiunque lo avvicinava. Quando i Turchi, che avevano occupato Otranto, si ritirarono per la morte di Maometto II, parve al volgo che fuggissero dinanzi alle armi d'Alfonso, e ci? lo rese pi? superbo ed insopportabile che mai, in modo che lo stesso Antonello Petrucci ed il conte di Sarno, disgustatissimi del presente, e temendo pi? ancora dell'avvenire, pel carattere di colui che sarebbe successo al trono, si gettarono a capo degli scontenti, decisi a tentare la rivolta. Papa Innocenzo soffi? nel fuoco, e ne venne la congiura dei baroni, la quale mise in fiamme il Reame, e minacci? di portare una guerra generale in Italia . Ma Ferrante seppe, colla sua astuzia e col suo coraggio, sedare anche questa tempesta; concluse la pace e fece poi le sue vendette.
Tutto il lungo dramma che abbiamo esaminato, ? un apparecchio alla generale catastrofe che s'avvicina. E se dai pi? grossi Stati, in cui ? divisa la Penisola, ci volgessimo ai minori, troveremmo a Ferrara, Faenza, Rimini, Urbino, dappertutto la stessa serie di delitti, la stessa corruzione. I piccoli principi, anzi, essendo pi? deboli e fra maggiori pericoli, commettevano spesso pi? numerose e crudeli violenze, per salvare il minacciato potere. Non tralasciavano per? neppur essi di promuovere la cultura delle lettere, delle arti, d'ogni pi? squisita gentilezza del vivere civile, rendendo sempre pi? evidente quel singolare contrasto, che ? uno dei caratteri propri del Rinascimento italiano, e forma per noi una delle difficolt? principali a ben comprenderlo.
LETTERATURA
Fra Dante Alighieri e Francesco Petrarca non passa una gran distanza di tempo; ma chi studia la vita e gli scritti loro crederebbe quasi che essi appartengano a due secoli diversi. Dante apre colle sue opere immortali un'?ra novella; resta per? sempre con un piede nel Medio Evo. Egli si ? fatta <
Fin dai primi anni il Petrarca abbandon? la legge e la scolastica per Cicerone e Virgilio; percorse il mondo; scrisse agli amici per avere antichi codici, di cui form? una preziosa raccolta. Ne copi? di sua mano; cerc? autori sconosciuti o dimenticati, sopra tutto opere di Cicerone, che era il suo idolo, e di lui scopr? due orazioni a Liegi, le lettere familiari a Verona. Questo fu un vero avvenimento letterario, perch? la facile ed alquanto pomposa eloquenza di Cicerone divenne il modello costante del Petrarca e degli eruditi, come le sue epistole furono il componimento letterario pi? diffuso, pi? ammirato, imitato tra loro, che ne scrissero un gran numero. Quelle del Petrarca incominciano la lunga serie, formano la sua migliore biografia, sono un monumento di grandissima importanza storica e letteraria. Ne scrisse agli amici, ai principi, ai posteri, ai grandi scrittori dell'antichit?. In esse v'? luogo per ogni affetto, per ogni pensiero, e l'autore si esercita, sotto la fida scorta di Cicerone, in ogni stile letterario. Da un lato v'entrano la storia, l'archeologia, la filosofia, e formano cos? come un manuale enciclopedico, adattatissimo a raccogliere e diffondere una cultura nuova, che, incominciata appena, non ? capace ancora d'una pi? scientifica trattazione. Da un altro lato l'autore pu? manifestare in esse tutto il proprio spirito, dare libero corso ai suoi affetti, descrivere popoli e principi, caratteri e paesi diversi. L'erudito e l'osservatore del mondo reale si trovano in esse uniti; anzi noi vediamo come il secondo nasca del primo, e come l'antichit?, conducendo per mano l'uomo del Medio Evo, lo guidi dal misticismo alla realt?, dalla Citt? di Dio a quella degli uomini, e gli faccia acquistare la indipendenza del proprio spirito.
Se guardiamo alla forma di queste epistole del Petrarca, troviamo che il suo latino non manca d'ineleganze, n? di errori; nessuno oserebbe metterlo accanto a quello dei classici; ? inferiore anche a quello che usarono pi? tardi il Poliziano, il Fracastoro, il Sannazzaro. Bisogna paragonarlo con quello del Medio Evo, per vedere l'immenso cammino che ha fatto, e come esso superi di gran lunga anche il latino di Dante. Ma il merito principale del Petrarca non sta tanto in questa nuova eleganza classica, quanto nell'essere egli il primo che scriva di tutto liberamente, come un uomo che parli una lingua vivente. Egli ha gettato dietro di s? le grucce della scolastica, e dimostra come si possa camminare speditamente, senza appoggiarsi. Inorgoglito di ci?, fa qualche volta abuso della sua facilit?, e cade in artifiz? nei quali sembra voler dar prova di agilit? e di forza, o s'abbandona, osserva giustamente il Voigt, al bisogno di chiacchierare, come un fanciullo, il quale, avendo scoperto che pu? colla voce esprimere i suoi pensieri, parla anche quando non ha nulla da dire. Qualche volta si vede in lui apparire anche un primo germe di ci? che fu chiamato il Secentismo del Quattrocento. Il Petrarca, in sostanza, ha spezzato la rete medievale, in cui trovavasi allora incatenata l'intelligenza, ed ha col suo nuovo stile trovato il modo di parlar d'ogni cosa, manifestando chiaramente, spontaneamente tutto s? stesso.
Il Petrarca assale fieramente la giurisprudenza, la medicina, la filosofia, tutte le scienze del suo tempo, perch? non d?nno mai quel che promettono, e tengono invece la mente inceppata tra mille sofismi. I suoi scritti sono spesso rivolti contro la scolastica, l'alchimia, l'astrologia, ed egli ? ancora il primo che osi apertamente rivolgersi contro l'illimitata autorit? di Aristotele, l'idolo del Medio Evo. Tutto ci? fa un grandissimo onore al buon senso, che lo sollev? al disopra dei pregiudiz? del suo secolo. Ma s'ingannerebbe a partito chi volesse per ci? trovare in lui un ardito novatore scientifico. Il Petrarca non combatte in nome d'un principio o d'un metodo nuovo, ma in nome della bella forma e della vera eloquenza, che non ritrova nei cultori di quelle discipline, come non la ritrova nell'Aristotele mal tradotto e raffazzonato del suo tempo. La scolastica ed il suo barbaro linguaggio s'erano immedesimati con tutto lo scibile del Medio Evo, ed era questo barbaro linguaggio che il Petrarca combatteva in tutto lo scibile. Il Rinascimento italiano ? una rivoluzione prodotta nello spirito umano e nella cultura dallo studio della bella forma, ispirata dai classici antichi. Questa rivoluzione, con tutti quanti i pericoli che doveva recare il cominciar dalla forma per arrivar poi alla sostanza, si manifesta la prima volta chiara e ben definita nel Petrarca erudito, che perci? fu a ragione chiamato da alcuni, non solo il precursore, ma il profeta del secolo seguente.
L'opera iniziata dal Petrarca trov? subito in Firenze un grandissimo numero di seguaci, e di qui si diffuse rapidamente in tutta Italia. A Firenze, per?, essa era il portato naturale delle condizioni politiche e sociali di quel popolo, in mezzo a cui anche i dotti d'altre provincie venivano ad istruirsi, a perfezionarsi, e v'acquistavano come una seconda cittadinanza. Nelle nostre antiche storie letterarie, che spesso si occupano troppo di aneddoti biografici e di fatti esteriori, si presentano alla rinfusa i nomi di questi eruditi, che sembrano essere tutti uomini sommi, avere la stessa fisonomia ed il medesimo merito, mirare a un identico scopo. Ma a noi importa conoscere solo quelli, cui si pu? attribuire una vera originalit? in mezzo al lavoro febbrile che migliaia di altri, i quali gi? sono caduti o meritano di cadere in oblio, ripetevano meccanicamente. Il nostro scopo non ? di dare un catalogo esatto dei dotti e dei loro scritti, ma di studiare la trasformazione letteraria ed intellettuale, che per opera loro si compi? in Italia.
I primi eruditi che si presentano sono amici, discepoli o copisti del Petrarca. Il Boccaccio fu dei pi? operosi nel secondarlo, raccolse molti codici, ammir? i classici latini e li imit?, promosse lo studio del greco, che fu dei primi a conoscere. Con tutto ci? l'opera sua, come erudito, manca di una vera originalit?. I suoi scritti latini sulla Genealogia degli Dei; sulle Donne illustri; sui Nomi dei Monti, delle Selve, dei Laghi, ecc., sono pi? che altro, una vasta raccolta di antichi frammenti, senza grande valore filologico o filosofico. Ma lo spirito dell'antichit? ? penetrato in lui per modo, che si manifesta in tutte le sue opere, anche nelle italiane. La sua prosa volgare, infatti, se ne risente per la soverchia imitazione del periodo ciceroniano, e sembra annunziare anch'essa che il trionfo del latino sar? fra poco universale.
Dopo che due uomini come il Petrarca ed il Boccaccio s'erano messi per questa via, Firenze sembr? subito divenire come una grande officina d'eruditi. Discussioni e riunioni di dotti si facevano dappertutto, nei palazzi, nei conventi, nelle ville, fra i ricchi, fra i mercanti, fra gli uomini di Stato: si scriveva; si viaggiava; si mandavano messi per cercare, comprare o copiare codici antichi. Tutto ci? non costituiva ancora un lavoro originale; ma pure si raccoglievano grandi materiali, e s'apparecchiavano i mezzi necessar? ad una vera rivoluzione nel campo delle lettere. L'importanza di questa attivit? non stava finora nei risultati immediati che si ottenevano; ma nell'energia e nelle forze che s'adoperavano e svolgevano per ottenerli. La citt? delle associazioni d'arti e mestieri era divenuta la citt? delle associazioni di letterati.
Il Salutati, nato in Val di Nievole l'anno 1331, fu anch'egli amico ed ammiratore del Petrarca; grande promotore dell'erudizione e grande raccoglitore di codici; autore di orazioni, dissertazioni, trattati latini in gran numero, pei quali venne a titolo d'onore, chiamato da Filippo Villani vera <
Ma l'opera del Salutati ebbe anche per l'avvenire conseguenze notevoli. L'aver messo la letteratura a servigio della politica contribu? molto a dare alla prima una importanza sempre maggiore, e ad affrettare quella radicale trasformazione della seconda, che ben presto doveva manifestarsi in Firenze. Alle convenzioni e formole antiche s'and? sostituendo una forma sempre pi? vera e precisa, la quale, come aveva forzato i letterati a passare dal misticismo alla realt?, cos? esercit? la sua azione anche sulla condotta degli uomini di Stato, e li indusse a trattar gli affari pigliando norma dalla natura delle cose, a dominare principi e popoli studiandone le passioni, senza lasciarsi vincolare da pregiudizi o tradizioni. In questo modo s'arriv? finalmente alla scienza politica del Machiavelli e del Guicciardini, che dovette alla erudizione pi? d'uno de' suoi maggiori pregi e difetti. L'uso ed abuso della eloquenza, della logica e della sottigliezza, per ottenere i propr? fini politici, condotto sino alla furber?a ed all'inganno, incominci? ben presto a divenire generale. Il Salutati rest? per? sempre d'animo sincero ed aperto.
Sino all'ultimo giorno della sua vita egli continu? a studiare, ed a promuovere nella giovent? l'amore dei classici. Aveva 65 anni, quando la voce corsa che Emanuele Crisolora di Costantinopoli sarebbe venuto in Firenze ad insegnare il greco, lo mise fuori di s? per la gioia, e parve ringiovanirlo. Nel 1406 mor? in et? di 76 anni, e fu sepolto in Duomo con solenni esequie, dopo che la sua vita venne celebrata in un discorso latino, alla fine del quale sul suo cadavere fu messa la corona poetica. D'allora in poi la Repubblica elesse a suoi segretar? quasi sempre uomini celebrati nelle lettere. La lunga serie, incominciata col Salutati, continu? fino a Marcello Virgilio, al Machiavelli, al Giannotti, e l'esempio venne imitato anche nelle altre citt? italiane.
La casa del Niccoli era un museo ed una biblioteca classica; egli stesso pareva una enciclopedia bibliografica vivente. Aveva raccolto 800 codici, valutati 6000 fiorini. N? deve oggi esser molto difficile immaginarsi la straordinaria importanza che aveva per gli stud? una buona biblioteca, in un tempo nel quale la stampa non era trovata, ed il prezzo d'un codice superava assai spesso le forze degli studiosi, oltre di che non sempre si sapeva dove cercarlo. In tali condizioni, essendo la biblioteca del Niccoli liberamente aperta ad ognuno, tutti accorrevano da lui a studiare, a riscontrare, a copiare, a chiedere aiuti e consigli non mai negati. Circondato d'oggetti greci o romani anche nella sua parca mensa, <> dice Vespasiano, <
Infinito sarebbe il numero delle riunioni di dotti, se volessimo ricordarle tutte; in ogni modo per? non ? possibile dimenticare la casa dei Medici, ove ognuno di essi trovava accoglienza, protezione, uffic?. Col? si riunivano anche gli artisti e gli stranieri di qualche fama. Quasi tutti i pi? ricchi Fiorentini erano allora cultori o protettori delle lettere. Roberto dei Rossi, conoscitore del greco, pass? la vita celibe nel suo studio, ed insegn? a Cosimo de' Medici, Luca degli Albizzi, Alessandro degli Alessandri, Domenico Buoninsegni. Il Nestore poi di questi aristocratici eruditi era Palla Strozzi, colui che col Niccoli riform? lo Studio fiorentino; che pag? di suo buona parte della somma necessaria per farvi venire ad insegnar greco il Crisolora, e spese moltissimo per avere codici antichi da Costantinopoli. Esiliato, senza giuste ragioni, si pu? dire anche iniquamente, da Cosimo dei Medici, all'et? di 62 anni, si fece animo a sopportare questa sventura, e la perdita che ebbe poi della moglie e di tutti i figli, studiando a Padova sugli antichi autori fino all'et? di 92 anni, quando scese nella tomba.
E finalmente bisogna ricordar lo Studio fiorentino. In generale le Universit? italiane erano state sedi della cultura medievale e scolastica; l'erudizione era cominciata fuori di esse, spesso anche contro di esse. Ma a Firenze pu? dirsi invece che lo Studio fior? e decadde con la erudizione. Fondato nel dicembre del 1321, langu?, ora chiuso ed ora riaperto, fino al 1397, quando il Crisolora, coll'insegnamento del greco, inizi? da Firenze l'ellenismo in Italia. Pi? tardi decadde di nuovo, ma fu poi nel 1414 riformato per opera del Niccoli e dello Strozzi, i quali, valendosi d'un'antica legge, secondo cui gl'insegnanti non dovevano essere Fiorentini, vi chiamarono i pi? celebri uomini d'Italia e di Grecia, il che valse sempre pi? ad unire la cultura latina con la greca, e l'erudizione fiorentina con l'italiana. Nel 1473 lo Studio venne da Lorenzo de' Medici trasferito a Pisa, dove fu riaperta la celebre Universit?; ma a Firenze restarono alcune cattedre di lettere e di filosofia, occupate sempre da uomini celebri.
Questo gran moto di stud?, che abbiamo finora esaminato, non aveva prodotto, dopo del Petrarca e del Boccaccio, nessun uomo di grande ingegno. Tutto era stato un raccogliere, copiare, correggere codici; si erano apparecchiati i materiali per un nuovo progresso letterario, che per? non era cominciato. Lo scrivere italiano era decaduto, ed il latino non aveva acquistato ancora qualit? originali: abbiamo visto grammatici, bibliofili e bibliografi, non veri scrittori. Ma a poco a poco cominci? una nuova generazione d'eruditi, che manifestavano un vero e fino allora insolito valore. Questo era il resultato d'un processo naturale. Gli scrittori, sentendosi finalmente padroni della lingua latina, si cominciavano ad esprimere con una libert? e spontaneit?, che d?tte origine a nuove qualit? letterarie ed anche filosofiche, ad una nuova letteratura. Le questioni grammaticali, esaminate e discusse da uomini di cos? acuto ingegno e di gusto cos? fine, com'erano allora gl'italiani, si trasformavano inevitabilmente in questioni filosofiche, il che fu principio di un nuovo progresso scientifico.
Ma vi furono ancora cause estrinseche, le quali affrettarono e provocarono una cos? notevole trasformazione, e prima fra queste fu lo studio del greco. Con esso vennero a contatto non solo due lingue, ma due letterature, due filosofie, due civilt? diverse. S'allarg? ad un tratto l'orizzonte intellettuale, giovando a ci? non solo la maggiore originalit? del pensiero e della lingua greca, ma ancora l'essere l'uno e l'altra molto diversi dalla lingua e dal pensiero latino. La mente italiana era cos? costretta ad uno sforzo maggiore, quasi ad un pi? lungo e difficile viaggio ideale, che richiedeva e svolgeva una maggiore energia intellettuale. Nel Medio Evo la lingua greca era stata assai poco nota in Italia; e molto fu esagerata la cognizione che n'ebbero in Calabria i monaci di San Basilio. I due Calabresi, Barlaam e Leonzio Pilato, l'avevano empiricamente appresa a Costantinopoli, ed il primo di essi ne insegn? i rudimenti al Petrarca, che, nonostante il grande ardore d'apprenderla, rest? sempre col suo Omero dinanzi, senza capirlo. Il secondo fu tre anni professore a Firenze, per opera del Boccaccio, che fece cos? istituire la prima cattedra di greco in Italia. Ma dal 1363 al 1396 questo insegnamento, che era stato abbastanza povero, tacque di nuovo. Gl'Italiani che volevano averlo, si trovarono, come il Guarino ed il Filelfo, costretti ad andare fino a Costantinopoli. E i primi profughi greci venuti fra noi giovarono meno assai che non si crede, perch? essi, ignorando l'italiano, conoscendo poco il latino, e molto spesso non essendo neppure uomini di lettere, non erano punto in istato di soddisfare una passione che pure stimolavano vivamente colla loro presenza. L'elezione di Emanuele Crisolora a professore dello Studio nel 1396 incominci? veramente un'?ra nuova per l'ellenismo in Italia. Gi? professore a Costantinopoli, e vero uomo di lettere, egli pot? dare un efficace insegnamento, ed ebbe per alunni i primi letterati di Firenze. Roberto de' Rossi, Palla Strozzi, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Carlo Marsuppini andarono subito a seguire le sue lezioni. Leonardo Bruni, che allora studiava legge, nel sentire che si poteva finalmente apprendere la lingua d'Omero, e bere alla prima sorgente del sapere, lasci? tutto per poter divenire, come divenne, uno dei pi? celebri ellenisti del suo tempo. Da quel momento chi non sapeva il greco, fu in Firenze un dotto a met?. E lo studio di questa lingua fece subito rapidi progressi, per l'arrivo di nuovi profughi, i quali erano in generale pi? colti dei primi, e trovavano il terreno meglio apparecchiato. A tutto ci? s'aggiunse nel 1439 il Concilio fiorentino, che doveva riunire la Chiesa greca e la latina, ma valse invece ad unire lo spirito letterario di Roma e di Grecia. Il Papa ebbe bisogno d'interpetri italiani per capire i rappresentanti della Grecia, e cos? gli uni come gli altri, indifferenti del pari alle questioni religiose, quando s'avvicinarono, passarono subito dalla teologia alla filosofia, che in generale soleva essere anche pi? delle lettere coltivata dai Greci. Giorgio Gemisto Pletone il pi? dotto fra quelli che allora vennero in Italia, ammiratore entusiasta di Platone, seppe infondere la sua ammirazione in Cosimo de' Medici, e cos? ebbe origine l'istituzione dell'Accademia Platonica. Un grande ardore, una singolare operosit? intellettuale cominciarono allora in Firenze, e noi vediamo finalmente da un lato apparire la nuova originalit? letteraria, da un altro il principio d'un risorgimento filosofico.
Ben presto noi lo vediamo allontanarsi da Costanza per fare lunghi viaggi. Percorse la Svizzera e la Germania, cercando nei conventi antichi manoscritti, dei quali fu il pi? fortunato scopritore in quel secolo. A lui si debbono opere di Quintiliano, Valerio Flacco, Cicerone, Silio Italico, Ammiano Marcellino, Lucrezio, Tertulliano, Plauto, Petronio, ecc. Quando la notizia di queste scoperte arrivava a Firenze, la Citt? tutta era in gioia. Il Bruni gli scriveva, a proposito specialmente della scoperta di Quintiliano: <
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