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Read Ebook: Passeggiate per l'Italia vol. 1 by Gregorovius Ferdinand Corsi Mario Translator

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Ebook has 164 lines and 23870 words, and 4 pages

che li renda misteriosi alla nostra immaginazione e tenga lontana l'indagine critica; quanto pi? piccoli sembrerebbero essi se le loro leggende fossero d'un tratto demolite dalla vicinanza del tempo e cadesse l'illusione che li avvolge! Profondo ? il simbolo dell'Iside velata!

Come appare magico e misterioso il promontorio Circeo guardato dalla lontana Astura, dai monti Volsci o da quelli Laziali, ed anche da Terracina, quando cade la sera! Ora invece mi appariva grigio e verde, simile a molti altri monti; spariva quella forma insulare che aveva assunto nella lontananza e lo vedevo scendere verso la pianura pontina con una larga striscia di terra. Le belle forme sparivano e profonde selve coprivano i suoi fianchi fino alla sommit?, mentre questa da lontano sembrava rocciosa e nuda, scintillante di riflessi solari!

Prendemmo terra a Torre Vittoria, dove il piede del promontorio si perde sul lembo della spiaggia, senza per? avere un luogo di approdo in forma di porto. Non vi erano pescatori, n? barche. La torre ? un edificio quadrato, dicesi costruita dai Gaetani. La sua guarnigione ? stata soppressa, come quella di tutte le torri marittime, alla caduta del governo pontificio. Serve ora di caserma ai doganieri ed anzi uno di questi appena ci scorse, scese le scale e venne a salutare i pescatori che ben conosceva, ed a verificare il loro passaporto. Lasciai i marinari sulla spiaggia e con la mia guida mi avviai verso San Felice. La posizione del villaggio e la piccola via che vi conduce mi hanno ricordato Capri. Ma il capo Circeo non ha null'altro, o ben poco, che lo faccia rassomigliare a quest'isola. Dopo un quarto d'ora di non faticosa salita sul declivio coperto di siepi e cespugli di mirto, mi ? apparso il villaggio in una posizione veramente incantevole.

San Felice sta su una piattaforma naturale, abbastanza larga, al di sopra si levano pareti boscose, dinanzi si apre l'immensa distesa e sotto, nella profondit?, il mare turchino. Il paesetto ha poche strade rettilinee ma strette, sormontate dal castello baronale ed una decorosa chiesetta. Di fronte al castello si apre la piazza o strada principale. Le case sono, per solito, di un piano e prive di qualunque pretesa artistica. Fui non poco sorpreso dal fatto che un villaggio cos? antico e separato dal resto del mondo potesse avere il carattere di un borgo aperto. Che San Felice occupi il luogo dell'antica Circea, non pu? essere posto in dubbio, perch? non c'? in tutto il promontorio un'altra superficie libera e piana su cui potesse essere edificata una citt?.

Questi edific? nuovamente l'interno, stanze e saloni, e l'adorn? di pitture. L'attuale deserta abitazione dovette essere allora un luogo delizioso, tale che il nipote del re di Polonia non avrebbe potuto trovarne uno pi? bello. Egli vi si recava spesso, quando lasciava Roma, dove possedeva la villa di fronte alla porta del Popolo; ? stato davvero un benefattore di questo villaggio; lo ha migliorato, vi ha costruito una fontana ed una strada che va al mare, ed ha ricompensato sempre generosamente i servigi resigli.

Presso S. Felice il principe si fece edificare anche un casino, ora in completo sfacelo, come il giardino annesso. Questo casino sta sull'orlo estremo della piattaforma, sul mare, e costituisce il pi? seducente belvedere che abbia mai visto.

Come ho detto, Poniatowski vendette il capo Circeo nel 1822; vendette anche subito dopo la villa in Roma e la collezione di antichit?, e si ridusse a Firenze, dove nel 1831 mor?.

San Felice conta 1200 anime. L'agricoltura ? la sua ricchezza, soprattutto le viti che coprono gli ultimi declivi del capo.

Furono sue industrie un tempo i vasi d'argilla e d'alabastro. Queste fonti di guadagno sono scomparse, pure la popolazione non mi ? sembrato soffra grande miseria. Si trova nel paese un albergo, molto primitivo ed anche un caff?; avrei dovuto pernottarvi, se avessi voluto poi salire sulla vetta del promontorio, ci? che era mio desiderio, non tanto per visitare le antiche mura che si additano come resti del tempio di Circe, quanto per godere l'incantevole panorama. Dicono che di lass?, a 1900 piedi, quando l'aria ? limpida e chiara, si vede il convento di Camaldoli che domina Napoli, e la cupola di S. Pietro di Roma.

Da San Felice si pu? comodamente salire sulla vetta del monte per sentieri rocciosi, fra folti cespugli: ci vogliono per? alcune ore. Mi ero proposto di fare il giro intorno a tutto il capo, ma dovetti abbandonarne l'idea, perch? dalla parte del mare le rocce cadono a picco, non lasciando sentiero possibile sulla spiaggia. La distanza da San Felice fino al punto in cui la parte interna del capo trova di nuovo il mare, presso il canale di Paola, ? di tre miglia ed eguale lunghezza ha il capo: la sua larghezza non ? certo invece pi? di un miglio.

Lasciando San Felice presi dapprima un breve sentiero, assai comodo e agevole, poi scesi per il declivio della roccia gi? al piano boscoso e giunto ai piedi del capo, potei ammirarlo in tutta la sua forma. E' una grandiosa piramide, la cui vetta, nella sua estremit?, si ripiega in alto, dal lato occidentale. Fin verso la cima ? coperto di quercie e di cespugli, fra i quali qua e l? spiccano masse rossastre di acute roccie. Le pareti s'innalzano spesso perpendicolari e sembrano sorreggere un tetto. Tutto il capo sembra un tetto spiovente; ma vi si distinguono dieci monti che portano nomi speciali. Nelle spaccature delle rocce crescono i palmizi nani. Molte palme che adornano il Pincio sono appunto cresciute sul capo Circeo.

Nella mia passeggiata ho attraversato un boschetto di mirti, lentischi ed eriche, che crescono qui arborescenti, ed ho visto alte quercie da sughero, sempre verdi e quercie tedesche. La quercia nordica, che da noi comincia assai tardi a inverdire, in questo clima ? uno degli alberi pi? precoci. Le trovai, gi? perfettamente coperte di fronde, lungo il canale della Linea Pia, mentre l'olmo ne era quasi spoglio. Il bel bosco sul capo porta il nome di Selva Piana: numerosi greggi di pecore e armenti di giovenchi vi pascolano e danno al placido paesaggio un carattere solennemente idilliaco.

Per voler trovare ora su questo capo un luogo dove immaginare la valle e il palazzo della melodiosa dea Circe, ? necessario pensare alla piattaforma stessa di San Felice o a questo gradevole e ameno declivio.

Qui troviamo, se non vere e proprie valli, almeno dei larghi fianchi montuosi dove ? possibile collocare idealmente il castello incantato di Omero, colla sua ombrosa solitudine e insieme il suo aperto orizzonte. Qui cresce un'inesauribile flora. Vi crescer? forse anche la salutare erba Moly che Mercurio somministr? al paziente Ulisse:

bruna N'? la radice: il fior bianco di latte.

Ma siccome anche l'eroe dice essere difficile che creature mortali possano coglierla, cos? i botanici dovranno rinunziare a scoprirla senza l'aiuto di un Dio.

La fantasia popolare non ha del resto stabilito alcun luogo come dimora di Circe, e la leggenda ? rimasta qui pi? per il nome della maga Circe che per la favola stessa: essa non ? che artistica ed archeologica. Qui si son fatti il concetto di una maga Circe come di una Loreley che attirasse e facesse arenare le navi. Mi hanno raccontato che essa era stata alfine sfidata da una nave straniera tutta di cristallo, sulla quale la maga non aveva potuto esercitare potere alcuno e che anzi era stata presa, rinchiusa nella nave e portata via. Da allora se ne erano perdute le tracce e credo che la potenza immaginativa di questo buon popolo lavoratore non sia andata oltre nella bella leggenda di Circe. La mia guida mi narrava con soddisfazione un fatto accaduto durante il suo soggiorno in San Felice ad una sentinella di guardia alla torre del Fico; a questa sentinella, di notte, era apparso un cane dagli occhi di fuoco ed aveva tracciato intorno a lei circoli magici.

Speravo di vedere il pi? raro acquario, ma fui deluso, n? in questi vivai, n? nell'antico bacino murato che ancora si usa, mi fu possibile vedere un sol pesce.

In mezzo alla solitudine selvaggia del capo Circeo, sul lembo estremo dell'antico dominio papale, questa iscrizione sul pallido marmo mi affascin? con tale forza storica, come se fosse di un passato molto pi? remoto e come se appartenesse alla stessa epoca della lapide che, nel palazzo municipale di Terracina, eterna la memoria del prosciugamento delle paludi pontine eseguito dal gran re dei Goti, Teodorico.

Lo spazio di dodici secoli che corre fra queste due iscrizioni, comprende quasi tutto lo sviluppo dell'Occidente dalla caduta dell'impero romano; ? per questo che sembra cos? lungo... Ma che sono dodici secoli nella vita del mondo? Il tempo che corre fra ieri ed oggi. In altri luoghi si ha profonda coscienza del lavoro incipiente dello spirito umano; qui, nelle paludi pontine, il tempo invece appare piuttosto come una superficie eguale e senza interruzione che si estenda indefinitamente monotona.

Non ho mai sentito cos? bene quanto presto le cose umane divengono leggendarie, come dinanzi a questa iscrizione. Il dominio temporale dei papi che soltanto tre anni fa cadde per sempre, mi si presentava gi? come un mito sulla cui storicit? si dovesse riflettere come su quella del dominio dei Goti. I papi hanno lasciato molte indelebili tracce nella terra che fu loro, dall'Etruria al capo Circeo. Quando la figura storica del cristianesimo sar? passata, quando i dogmi e il culto della Chiesa per le generazioni future avranno soltanto un interesse storico, come oggi per noi il culto di Ptah e di Osiride, allora si ricercheranno gli stemmi pontifici, le iscrizioni e i monumenti dei pi? potenti dei re-sacerdoti, che si chiamavano papi, e si far? ci? col maggiore interesse e col pi? vivo desiderio, molto pi? di quello che si faccia oggi per le iscrizioni dell'antichit?; le rovine di San Pietro e del Laterano saranno allora per l'osservatore e per l'archeologo oggetto di maggior considerazione che non le masse gigantesche del Colosseo e le rovine dei templi e delle terme di Roma.

Basta dare uno sguardo alla baia di Paola che, protetta dal promontorio, si offre all'ancoraggio, per comprendere quale avvenire essa potrebbe avere. E' l'unico luogo, nel promontorio, dove sia possibile l'approdo. Qui sbarc? Ulisse:

Taciti a terra ci accostammo, entrammo, Non senza un Dio che ci guidasse, il cavo Porto e sul lido uscimmo...

Qui approd? Tiberio, venendo da Astura; qui approdarono i Saraceni che molte volte saccheggiarono la localit?. Si vede ancora la torre quadrata dei Gaetani, la torre di Paola, l'eroica torre che sostenne lotte accanite coi pirati del mare.

Essa si erge su una sporgenza della rupe, immediatamente sopra il capo. Il mare e il canale sono distanti solo pochi passi. Questo punto, presso la torre, era la m?ta pi? ambita delle mie peregrinazioni. E' una solitaria marina, celebrata dalla leggenda d'Omero. La saracinesca ? caduta; porte e finestre sono chiuse ed invano tentai penetrarvi. La pallida erba balsamica cresce sulle mura grigiee e gli steli del grano selvatico, inariditi dal salso vento marino, oscillano intorno, mentre le rupi luccicano, al di sopra, di muschi purpurei. Tutto ? qui come immerso nel sonno. L'onda marina si frange rumorosa sulla riva silente in ritmi uniformi che tutto il presente seppelliscono nel silenzio e risvegliano nell'anima lontane imagini e lontani ricordi. Ogni tanto un falco si leva da un cespuglio di mirti e si libra sulla costa, emettendo un acuto strido, poi allarga lentamente i suoi cerchi sulla palude e sul mare.

Le dune bianche, abbaglianti racchiudono per parecchie miglia il limpido mare in una linea dolcemente arcuata, finch? si perdono nei vapori, verso Astura. Dietro si stendono paludi e boschi nereggianti, che nascondono altri laghi: il lago di Crapolace, quello dei Monaci e l'altro di Fogliano, simili al lago di Paola, ma senza porto.

Dall'alto della torre di Paola si ammira la grande distesa del mare e le isole di Ischia e di Ponza che nettamente vi si delineano, sotto gli scoscendimenti delle rupi ed i massi grigio-rossastri che ricordano il Monte Solaro di Capri. Ridiscesi poi al lago e tornai per la medesima via a San Felice.

Dopo un digiuno di dieci ore, dopo la gita in mare e la passeggiata sotto il sole che gi? scottava, calmammo la nostra sete, la mia guida ed io, con gli squisiti aranci di questa regione.

La sala del caff? era gremita di abitanti del capo, parte dei quali alti e begli uomini, non vestiti per? con costumi speciali. Me ne furono indicati alcuni che avevano servito sotto il papa, il che sembrava in certo modo essere considerato come cosa speciale e onorevole. Mi dissero anche che, prima dell'ultimo rivolgimento, le guarnigioni di tutte le torri del litorale, da Terracina a Porto d'Anzio, erano composte di sanfelicesi.

Un pescatore era intanto venuto ad aspettare o ad affrettare il mio ritorno; perch?, come avevo osservato dalla torre di Paola, il vento si era nel frattempo fatto pi? forte e il mare si era coperto di schiuma. Una gita di parecchie ore in mare, con quel tempo, non si presentava certo come una bella prospettiva!

Scendemmo per un sentiero fino alla spiaggia, dove apparivano alcuni ruderi antichi. Sarebbe stato veramente bello aver potuto passare in quel luogo alcuni giorni, arrampicarsi sulle rocce, visitare le belle grotte, vedere le torri del Fico, Cervia e Moresca che stanno sulle sporgenze estreme del capo. Camminando lungo la spiaggia riuscimmo di nuovo presso torre Vittoria e salimmo sulla barca:

E quei si rimbarcavano; e sui banchi Sedean l'un dopo l'altro, e percotendo G?an co' remi concordi il bianco mare.

Ci arrestammo un istante ad un miglio dalla spiaggia. La barca sembrava davvero un guscio di noce sul flutto irrequieto, ora avendo come sfondo l'orizzonte da un lato ed i monti dall'altro, ora sprofondandosi nelle liquide valli. Questa gita mi fece molto piacere, perch? non temo il mare agitato e non soffro punto il mal di mare. I rematori vogavano faticosamente, ma con arte consumata sapevano ora evitare, ora utilizzare abilmente le onde pi? grosse e pi? alte. Allora capii veramente che cosa fosse una barca equilibrata e la nostra poggiava fissa e sicura sui suoi quattro remi, che insieme sembravano servirgli come braccia e come ancora. Era assai difficile avanzare e dopo pi? di due ore di lotta ci trovammo di nuovo di fronte a torre Badino.

Questa torre ed un casino l? presso indicano il luogo dove il Portatore, un braccio del canale pontino, si versa nel mare. Vi sono stati costruiti dei moli. I pescatori risolsero di mettersi sotto vento ed invece di continuare il faticoso viaggio, arrivare cos? a Terracina per il canale.

Alla foce del Portatore l'agitazione delle onde alte e grigie era assai forte: la nostra barca ne risent? la violenza con un forte beccheggio, ma presto, oltrepassato un ponte levatoio, ci trovammo in uno specchio d'acqua pi? che tranquillo, morto, nero, stagnante. Da quello entrammo nella Linea Pia che conduce direttamente a Terracina.

La Linea Pia ? fiancheggiata da alti olmi, e sulle sue rive cresce la pi? ricca flora di gigli acquatici che abbia mai visto. In alcuni punti il canale era impaludato, o era completamente coperto di piante. A causa di questo tre marinai dovettero scendere dalla barca e tirarla dalla riva con una fune, a forza di braccia.

Per quanto ad ogni stagione la Linea Pia venga sottoposta ad un ripulimento, essa ? invasa di nuovo prestissimo dalla flora palustre. Il metodo per pulirla ? semplicissimo: si caccia qua e l? per il canale una frotta di bufali e si fa loro calpestare l'erba. Queste bestie si sforzano naturalmente di liberarsi e di guadagnare la terra ferma, non perch? temano l'acqua, essendo al contrario animali di palude, ma perch? la fatica necessaria per strappare e pestare le piante cos? intrecciate, stanca anche la loro possente muscolatura. Ma i butteri che li accompagnano, li respingono nel pantano colle loro lunghe lancie, ed altri tormentatori stanno dietro sui sandali e fanno lo stesso con delle aste puntute. Il giorno dipoi vidi, sulla via Appia, presso la stazione di Mesa, questa selvaggia scena palustre: ? impossibile immaginare qualcosa di pi? singolare di quei mostri neri ammassati nel canale che, simili a un branco di cavalli del Nilo, agitano le loro teste possenti con le corna piegate all'indietro, sbuffano fuor dell'acqua, mentre faticosamente avanzano nuotando e calpestando.

Quanto pi? ci avvicinavamo a Terracina, tanto pi? il canale diveniva animato. Molti sandali tornavano carichi dalla citt? e su molti di essi sedevano uomini civilmente vestiti che sembravano passeggeri ed erano forse proprietarii di terre vicine.

Scendemmo dal battello al ponte, presso il grande ospedale militare ed io mi recai subito alla riva accanto all'albergo, per sapere qual fine avesse fatta la gigantesca tartaruga. Essa stava distesa su un carro a due ruote, legata con funi e accuratamente avvolta in scorze d'albero, quasi si fosse voluto preservarla da un raffreddore. Molta gente stava ad osservarla attentamente. Il guscio robusto era di un bellissimo color bruno con macchie nere; la testa pareva quella di un'aquila e perfino la bocca aveva la forma di un becco. Viveva ancora e guardava gli astanti con occhi spalancati pieni di stoica indifferenza; sembrava quasi volesse dire: <> Nella notte la tartaruga doveva essere spedita al suo destino, cio? a Piperno, fra i monti Volsci, dove sarebbe stata poi venduta come cibo di magro.

Le sponde del Liri.

Non essendovi altra strada carrozzabile all'infuori di quella sotto Casamari, e tutta questa regione latina non avendo altro mezzo di comunicazione con i paesi finitimi se non la Via Latina che porta a Capua, dovetti scendere di cavallo per percorrere lo scosceso sentiero che va fino a Veroli.

Il sole del pomeriggio splendeva ancora ardente su quegli aridi campi, quando entrai in un'orribile strada, in un sentiero, a malapena praticabile per i muli che conduceva al monastero di Casamari. Passai dinanzi ad un casolare solitario dove si era fermata una comitiva di gente venuta da Veroli, fra cui alcune ragazze, vestite per bene che stavano danzando e scherzando: tutto ci? produceva in quella solitudine una gradevole sensazione; si sarebbero potute paragonare ad uno stormo di garruli uccelletti in una cupa foresta. Proseguii quindi per una buona strada fiancheggiata da olivi e da vigneti ben coltivati, il che rivelava un possesso tenuto con un sistema di coltura molto diverso da quello dei dintorni. Presto ne scoprii la ragione; incontrai una compagnia di pellegrini che tornavano dal celebre convento di Casamari, gli uomini col bordone in mano, le donne portando sulla testa panieri di provvigioni, vestiti tutti nella pittoresca foggia dei monti latini.

In genere i monasteri al d? d'oggi hanno un non so che di desolato, di morto, come di cosa che non risponde pi? all'indole dei tempi. Qui invece nulla ? mutato; l'atmosfera morale di vari secoli addietro, sopravvive; i monaci continuano a salmodiare, a pregare, a tacere, a lavorare come in passato, rivestiti degli stessi abiti, negli stessi locali, con la stessa monotona uniformit?. Tutto ? andato mutando nella storia del mondo, ma fra i monaci di Casamari nulla ? cambiato; ad essi basta che durino la chiesa, i vescovi e il papa in Roma. Nulla nei dintorni ha un aspetto diverso dall'ieri: Veroli, Pofi e San Giovanni sussistono tuttora come una volta, con le loro chiese e i loro santi e i pellegrini continuano come prima a battere alla porta del monastero. Essi non hanno pi? da temere i Saraceni, n? i baroni rapaci, n? i condottieri; vivono per? in continua angustia per la rivoluzione, che finir? col tornar loro pi? fatale dei Saraceni e dei masnadieri medioevali, poich? da quelli non avevano da temere che l'incendio o il saccheggio, mentre da questa dipender? la loro esistenza. Inoltre i beni dei monasteri sono diminuiti e con ci? resta inceppata l'azione esteriore alla Chiesa. In realt? un tal convento ? come una cronaca in pergamena dove le vecchie miniature rivivono come fantasmagorie.

La storia di Casamari non offre nessuna particolarit?: non fu che il solito continuo succedersi di guerre, di distruzioni, di ricostruzioni, alle quali andarono pi? o meno soggetti del pari tutti i monasteri. Nessun personaggio illustre usc? dalle sue mura. Casamari non ha avuto una storia propria come la vicina Fossanova, di cui il Muratori pubblic? una cronaca. Non ha avuto neppure le ricchezze di Trisulti, sebbene possegga ancora vari beni nella Campagna romana. Il suo maggior vanto consiste nella sua meravigliosa chiesa, di cui fu iniziata la costruzione nel 1203, proprio quando l'architettura gotica cominciava a venire introdotta in Italia.

L'armonia dell'architettura, la semplicit? dell'edificio, la tinta tranquilla del travertino, lo stile gotico del mio paese, non potevano produrre in me impressione migliore; il mio occhio, abituato da vari anni alle basiliche di Roma col loro soffitto piatto ed alle chiese a cupola sovraccariche di ornamenti di tempi posteriori, non poteva a meno di trovare nel gotico uno stile architettonico nuovo, svelto, imponente per la fusione della ricchezza con la semplicit?, dell'arditezza con la grazia, della forza con la sveltezza, per l'armonia di tutte quelle parti che concorrono a costituire un complesso bello, raro e sorprendente. Abituato a vedere chiese piene di sculture, di ornati barocchi e pesanti, di pitture, d'iscrizioni, di tombe, di altari, questo tempio, dove nulla era di tutto ci?, mi parve bello, semplice, veramente fatto per l'esercizio del culto di una religione pura ed immateriale.

Nessun'imagine, nessuna nicchia, nessuna cappella, un unico altare sotto un tabernacolo a cupola, il tutto come nelle antiche chiese cattoliche tedesche trasformate in templi protestanti. Casamari pareva appunto una di quelle. Non ricordo di aver visto mai in Italia altro edificio di stile gotico di cos? bella semplicit?. La navata centrale ha sette archi a sesto acuto, sostenuti da fasci di colonne; al quinto arco trovasi la cancellata che separa il grazioso coro; al di l? non v'? nessun ornamento bizzarro, nessuna statua; soltanto dietro il cancello, a fianco dell'altare, due grandi vasi, con piante di amaranto in piena fioritura che fanno un bell'effetto in quel luogo semplice e imponente.

Solo la chiesa ? di stile gotico; le altre parti del monastero sono invece di vero stile romano. Il cortile ? un ampio quadrato, con archi semigotici, interrotti a met? da due colonne: in complesso ? tutt'altro che bello. La sala del capitolo ? abbastanza strana: il suo gotico pare volgere allo stile moresco, la volta ? sostenuta da quattro fasci di otto colonne sulla cui estremit? ottangolare poggiano gli archi a sesto acuto, partendo dal mezzo della parete ove terminano con un fantastico capitello. L'alternarsi poi di pietre bianche e nere accresce l'originalit? del colpo d'occhio.

Vidi solo pochi monaci che passeggiavano silenziosi su e gi? e non mi volsero mai la parola. Un frate laico mi rec? una brocca d'acqua e sentendo che venivo da Roma mi chiese che cosa vi fosse col? di nuovo e dove si trovasse in quel momento Garibaldi. Il nome longobardo di questo prode capitano del popolo risuonava sopra ogni bocca al confine del regno di Napoli, come tanti secoli prima vi risuonarono quelli, parimenti longobardi, dei duchi Garibaldo, Grimoaldo, Romualdo e Gisulfo di Benevento. La figura di lui, popolare anche col? dove provocava timori anzich? speranze, pareva avere un'influenza veramente magica e non dovevo tardare ad averne la conferma nel napoletano.

Nel medio evo correvano per la Campagna i nomi di Nicol? Piccinino, di Fortebraccio da Montone, di Sforza d'Attendolo e di altri capitani di ventura, divenuti famosi per cento scorrerie, battaglie e conquiste di citt?. In realt? per? non erano che audaci briganti e le loro gesta guerresche furono per l'Italia peste obbrobriosa: l'eroe popolare di oggi, Garibaldi, ha invece consacrato la spada e la vita al riscatto della patria sua.

Montai nuovamente a cavallo, per continuare il mio cammino, quando il sole al tramonto tingeva con le sue pi? belle tinte i monti di Arpino. Dal monastero al confine napoletano non v'? pi? di un'ora di strada. Fa sempre un particolare piacere trovarsi in un paese di confine. L? dove i popoli, gli stati confinano, si trova un carattere intermedio, una certa vivacit? di spiriti: gli abitanti dei confini generalmente stanno in guardia, gli uni contro gli altri, mentre gli uomini che vivono nel centro degli stati diventano facilmente indolenti, ai confini sono sempre irrequieti, mobili, avidi di novit?, furbi e infidi, perch? sempre in contatto coi forestieri. Un nuovo orizzonte si apre davanti ai loro occhi, li spinge ad investigare, a paragonare, li rende proclivi al biasimo, alla critica. Il passaggio da uno stato ad un altro produce sempre una singolare incertezza; per questo la dea Fama abita pi? volentieri al confine, come nella vita sospetto e invidia sono per lo pi? demoni bastardi di un confine morale.

Non tardai ad arrivare alla dogana romana, solitario casolare lungo la strada, dove le guardie di finanza ammazzavano il tempo fumando il loro sigaro. Di l?, dopo aver percorso una strada attraverso ad un terreno coltivato a vigneti, giungemmo al vero confine, segnato da una semplice pietra. Il dio Termine congiunge qui pacificamente il territorio di Roma e quello di Napoli, non divisi neppure da un fosso.

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