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Read Ebook: Passeggiate per l'Italia vol. 1 by Gregorovius Ferdinand Corsi Mario Translator

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Ebook has 164 lines and 23870 words, and 4 pages

Non tardai ad arrivare alla dogana romana, solitario casolare lungo la strada, dove le guardie di finanza ammazzavano il tempo fumando il loro sigaro. Di l?, dopo aver percorso una strada attraverso ad un terreno coltivato a vigneti, giungemmo al vero confine, segnato da una semplice pietra. Il dio Termine congiunge qui pacificamente il territorio di Roma e quello di Napoli, non divisi neppure da un fosso.

A breve distanza dal confine sorge il primo villaggio del napoletano, Castelluccio e poco al disotto di questo, quello amenissimo d'Isola, che giace in una vaga isola del Liri. Folti gruppi di alberi in una valle ombrosa annunciano la vicinanza del fiume; graziose ville, opifici industriali, sorgono in mezzo al verde e la campagna, mirabilmente coltivata, mostra la fertilit? e la ricchezza che hanno sede generalmente dove sono grandi corsi d'acqua. E sopra questi ricchi campi, in una regione ondulata, s'elevano belli e maestosi, a poca distanza, i monti di Sora. Questo tratto di paese, illuminato dal sole cadente, mi ricord? la Conca d'oro di Palermo; ha comune con essa la seria maestosit? delle montagne e la fertilit? delle pianure; se non che, invece del mare, si vede in questi campi il Liri o Garigliano che scende rumoroso dall'Abruzzo, come il giovane Apollo e disseta romani e napoletani, per aprirsi poi il cammino tra i monti Volsci e scender placidamente alla riva del mare.

Avendo cos? perduto un tempo prezioso, non potei quasi vedere Isola al tramonto del sole, perch? gi? la notte scendeva. Questo paesetto giace in una bella isola del Liri, ombreggiata da molte piante. All'estremit? dell'isola le acque del fiume, dal colore dello smeraldo, si precipitano impetuose come da una cascata. Sopra all'isola sorge una rupe, alta circa 80 piedi, sulla cui cima torreggiano le rovine di un antico castello. Si ode da lungi il rumore delle acque e avvicinandosi, la vista ? rallegrata e dal fiume stesso e dai molteplici canali che vi si versano, dopo aver irrigato giardini, popolati da stupendi platani e pini e ricchi della meravigliosa vegetazione dei paesi meridionali quando sono bagnati dalle acque.

Qui il fiume ? gi? ingrossato, perch? poco sopra riceve il tributo del Fibreno; n? serve solo a rendere fertili i campi, poich? d? moto anche a parecchie fabbriche di panni e di carta che danno lavoro a varie migliaia di operai e diffondono cos? il benessere e l'agiatezza nella regione.

Cos? Isola come Sora sono paesi industriali e la buona strada che li congiunge ? fiancheggiata da opific?, da villini e da giardini. E' un'oasi di meravigliosa coltivazione sorta dal principio di questo secolo; e rallegra il trovare finalmente in queste regioni, tanto belle e tanto trascurate, lo spettacolo dell'attivit? umana.

Le fabbriche attuali, per lo pi? di carta, costruite grandiosamente e secondo i migliori sistemi moderni, debbono la loro origine ai francesi del tempo di Murat e principalmente a un certo Le Febvre che, venuto qui povero, trov? sulle sponde del Liri un vero Eldorado, riuscendo a trarre l'oro puro dalla forza delle sue acque. Lasci? a suo figlio queste fabbriche ed alcuni milioni. Il re di Napoli, credo Ferdinando II, accord? a questa famiglia il titolo di conti, titolo che essa invero aveva ben meritato; poich? una contrada poco coltivata deve al talento inventivo di quello straniero la sua ricca vita che non scomparir? pi?, anzi probabilmente aumenter?.

La vista di quanto possa l'umana attivit? riesce sempre di grande soddisfazione, anche dove frequenti ne sono gli esempi, come in Inghilterra, in Germania, in Francia; ognuno immaginer? quindi l'impressione che suscita in chi visita il regno di Napoli, dove, purtroppo, una tale attivit? ? rara.

Presso Isola fui ospitato in una villa, il cui cortese proprietario mi condusse nel parco del Conte, parco che pu? gareggiare benissimo con quelli delle ville romane. Certo, i principi Doria o Borghese potrebbero invidiare al conte Le Febvre l'abbondanza delle acque che non devono essere procurate con l'arte, poich? un braccio del Fibreno attraversa il suo bosco, precipitandosi dapprima di scoglio in scoglio con piccole cascatelle e allargandosi poi in un placido e delizioso laghetto. Le sue sponde sono ricche di splendide piante, di ameni prati; vi sono viottoli ombrosi, angoli solitari, fiori in abbondanza; questo parco ?, in una parola, un piccolo Tivoli, ? un paradiso delle Ninfe, dove sarebbe un vero incanto passeggiare, riposare, leggendo e fantasticando liberamente.

Il mattino dipoi trovai che Sora ? un paese moderno, discretamente pulito, con buone strade e tutt'altro che privo di industrie e di commercio. Sora ? posta sul Liri che svolge le sue acque verdastre fra alti pioppi, simile in ci? ai fiumi della Germania. Un ponte di legno lo attraversa; le sue rive hanno luoghi deliziosi e la sua campagna ? fertile, ben coltivata svariatamente a giardini ed a vigne, attraversata da buone strade che portano ai paesi vicini.

Sora ? situata in perfetta pianura, nella valle del Liri, circoscritta a distanza dai monti. In qualche punto il piano si restringe ed esce dalla catena un contrafforte. Immediatamente sopra la citt? si erge un monte di forma piramidale, alto, ripido, di aspetto severo, di roccia nera, selvaggio e nudo; sulla sua cima stanno le rovine pittoresche dell'antica rocca, chiamata Sorella, rovine non meno cupe del monte. Sora riposa tranquilla e idillica all'ombra di questa piramide naturale, tutta moderna di aspetto, sebbene sia un'antica citt? volsca che non ha mai mutato nome. Essa col tempo divenne sannitica, quindi latina, infine romana. Nel periodo romano vi nacquero i tre Deci e il famoso Attilio Regolo e ne sort? la gente Valeria, alla quale appartenne l'oratore Quinto Valerio; e poi Lucio Mummio: nomi sufficenti ad illustrare la citt?.

Mentre i della Rovere possedevano Sora, nacque col? un uomo illustre, Cesare Baronio, l'ultimo uomo di grandi meriti di questa contrada. Per quanto incantevoli, melodiose e pittorescamente irradiate dal sole, le sponde del Liri, ombreggiate da lunghe file di pioppi, non produssero mai un genio poetico, un Orazio, un Ovidio, un Ariosto; produssero invece famosi uomini di guerra e grandi oratori, e veramente per i retori ? questo un ambiente favorevole alla creazione delle immagini e dei tropi per l'inesauribile eloquenza di questa natura.

Voglia ora il lettore gettare ancora uno sguardo su quell'altura di dove abbiamo preso le mosse e dove si scorge sempre Veroli. Chi non conosce, o non ha mai udito parlare di un'opera italiana intitolata <> Pubblicata nel 1542 in Venezia in grande quantit? di copie, diffusa in molteplici traduzioni, dopo trent'anni era divenuta gi? irreperibile, tante erano state le mani che ne avevano fatto ricerca per consegnarla alle fiamme. Udimmo, pochi anni fa, che inaspettatamente se n'era scoperto un esemplare in una biblioteca di Cambridge e venne di poi ristampata in Inghilterra, in Germania e in Italia. Aonio Paleario di Veroli fu l'autore di quel celebre scritto ed io voglio porlo a fronte di Baronio, suo contemporaneo e quasi suo concittadino, essendo nati in localit? distanti appena due ore l'una dall'altra. Paleario non mor? cardinale; dopo di aver trascorso tre anni nelle prigioni dell'Inquisizione, fu tratto alla forca e bruciato nel 1570.

Non si riesce oggi a comprendere come un uomo abbia potuto essere giustiziato per aver intrapresa, con la coscienza di un santo, la giustificazione della dottrina di Cristo. Leggendo oggi, dopo alcuni secoli quello scritto soave e pio, fondato unicamente sui precetti dell'Evangelo, vien quasi fatto di dubitare se sia proprio vero che per esso l'autore abbia potuto essere condannato al rogo da cristiani.

La citt? di Sora e tutti i paesi del confine napoletano rigurgitavano di soldati, perch? all'intorno si stava stendendo un cordone militare. Sulla piazza erano disposte artiglierie da montagna; lancieri correvano al galoppo per ogni dove e poco dopo il mio arrivo giunse da Capua il settimo reggimento di linea che riemp? tutte le strade di baionette. Trovai che la fanteria aveva molto migliore aspetto della cavalleria ed osservai, particolarmente tra gli ufficiali, dei bellissimi tipi di uomini. Tanto la cavalleria per?, quanto la fanteria erano vestite di una tela di un colore tra il bigio e il turchino che faceva assai brutta figura. Il luccicare di tutte quelle baionette, quelle fisonomie abbronzate, gli abiti coperti di polvere, la ressa alla porta delle caserme, le grida di comando, davano l'idea di una piccola guerra. Cos? io qui m'imbattevo nella questione romana. Quelle truppe erano avviate verso gli Abruzzi. Nel pensare a un nemico, esse non potevano concepirlo che nelle persone di Vittorio Emanuele o Garibaldi. Correvano le notizie pi? strane, pi? contraddittorie, gli uni assicuravano che Garibaldi si trovasse di gi? negli Abruzzi, gli altri che i francesi fossero in marcia verso Ceprano. La completa segregazione di Napoli, la mancanza di giornali, di ogni mezzo di pubblicit?, favorivano la diffusione di tutte queste voci, tanto pi? che tutti quegli apparecchi accennavano positivamente a probabilit? di guerra.

Proseguendo il mio viaggio, incontrai truppe in ogni luogo e durai fatica a prestar fede a miei occhi, quando, nel tornare da Arce, presso il ponte di Ceprano, trovai gli avamposti stabiliti sulla strada come se il nemico fosse gi? alla frontiera. I romani ridevano di cuore di tutto quell'apparato guerresco.

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Quest'ultima frase, prettamente italiana, ci d? una giusta idea della natura delle persone.

Le truppe intanto avevano occupato i loro quartieri ed io mi misi in cammino per recarmi alla patria di Mario. Il carretto che mi portava correva a precipizio ed anzi, presso il ponte, gitt? a terra una donna. Gridai, ma fortunatamente la poveretta si rialz? subito e il mio vetturino continu? a sferzare, bestemmiando, il suo ronzino. Per andare da Sora ad Arpino, conviene ripassare per Isola; prendemmo col? due signori di Arpino che lungo la strada furono molto loquaci, forse perch? evitai di parlare di politica; ma appena giunti in citt?, fecero, prudentemente, le viste di non aver veduto mai il forestiero.

In vicinanza di Sora passammo presso il convento, gi? famoso e ora rovinato, di S. Domenico. Sorge in un'isola del Fibreno o Carnello, nome questo, che assume poco prima di sboccare nel Liri, in una localit? bellissima, ricca di piante dove sorgeva la villa che vide nascere Cicerone e suo fratello Quinto.

Quante volte non avr? quell'uomo grande e singolare passeggiato fantasticando sotto i pioppi dell'isola di Cicerone; certo per? non si sar? mai immaginato di dover vedere un giorno un imperatore ai suoi piedi in atto di penitente e di dover sostenere in Roma ed anzi nella storia del mondo, una parte ben pi? importante di Mario o del debole Cicerone.

Cicerone nacque fra questi pioppi del Fibreno, di cui sentiamo sempre con piacere il mormorio delle foglie agitate dal vento. Ma a che parlare della sua stupenda culla a coloro che non potranno forse mai gettare uno sguardo su questa campagna smaltata di fiori, rallegrata da una continua primavera? Quale stupendo panorama di monti tutto all'intorno, quali tinte calde non si perdono nei vapori dell'orizzonte!

Cicerone fu figlio della pianura, non dei monti; egli, spirito vasto, radun? in s? quale fiume potente tutti i ruscelli dello scibile suo contemporaneo. Mario invece fu figlio delle montagne, nato proprio in Arpino, fra le mura dei ciclopi, dove vogliamo salire.

Passammo nella pianura, dinanzi a parecchi casini e vaghi giardini; quindi, lasciata la valle del Fibreno, prendemmo a salire il monte per una bella e comoda strada, dalla quale si gode una nuova vista, affascinante per la variet?, sulla lontana campagna di Roma e la pianura di Pontecorvo. Sora dista da Arpino sette miglia, di cui quattro corrono in salita in una regione coltivata ad oliveti, lasciando sotto il Liri. Man mano che si sale, diminuiscono le case, e raramente se ne incontra una lungo la strada.

Giunsi finalmente ad Arpino verso un'ora dopo mezzod? ed entrai in citt? per l'antica porta romana.

La patria di Cicerone e di Mario conta attualmente 17,000 abitanti. Le sue vie sono strette, la piazza piccola, ma non fanno difetto case di signorile apparenza. Del resto, la citt? ? morta e non vi si scorge indizio di attivit? industriale. In quasi tutti i paesi intorno a Roma esistono chiese antiche; Arpino non ne possiede alcuna, quantunque anticamente la sua cattedrale fosse un tempio dedicato alle nove Muse; ora invece ? dedicato agli Angeli, come se vi fosse stato bisogno della musica celeste di questi per far tacere per mezzo del cristianesimo i canti pagani delle nove vergini sorelle dell'Olimpo.

Arpino ? divisa in due parti; la citt? vecchia, sul punto pi? elevato dove sorgeva l'antica rocca, e la citt? propriamente detta che si stende ai piedi del ripido pendio del monte. Questa divisione ? antichissima, ed ? una caratteristica distintiva di tutte quante le antiche citt? volsche e latine. Del resto, le mura ciclopiche, scendenti dall'altura su cui sorgeva la rocca, provano che la citt? moderna ? fabbricata sulla stessa area dell'antica, ed anche la porta della citt? ? di origine ciclopica. Le mura sono in tutto simili a quelle di Segni e delle altre antiche citt? del Lazio. In generale sono ben conservate, specialmente nella parte pi? alta, cui si accede per una ripida strada scavata nel tufo calcareo, fiancheggiata da oliveti che scendono fino alla parte bassa.

Lass? sorgeva la rocca ciclopica, e nel medio evo il castello dei conti longobardi. Esiste ancora una vecchia torre rivestita di edera; sono vicino ad essa quelle mura di giganti che non si possono guardare senza stupore. E' ancora in piedi una bella porta ciclopica e le mura formano un quadrato attorno alla rocca. Le porte per solito finiscono in un arco a sesto acuto, o tozzo, come quelle di Alatri, di Segni, di Norba; questa invece ? di stile quasi gotico, se non che esiste tuttora il macigno che serviva di chiave alla volta e non ? possibile che abbia assunto la presente forma in seguito a rovina accidentale. Le pareti sono formate di sei ordini di macigni, collocati tre per tre; la larghezza della porta ? di otto passi, la sua profondit? interna di sette e l'altezza di circa quindici piedi. I macigni, di tufo calcareo porosissimo, sono di forma quasi quadrata.

Del resto, si pu? perdonare questo sentimento di orgoglio municipale ad una vecchissima citt? che ospit? Saturno e fu patria di Mario e di Cicerone. Lo stemma attuale di Arpino consiste in due torri sormontate dall'aquila di Giove o delle legioni romane.

Si pu? concedere al canuto Saturno di riposare in quella tomba colossale, ma la ingenuit? degli arpinati passa ogni limite quando mostrano al forestiero la casa di Cicerone. Mi condussero, infatti, in un angolo della citt? antica, dove erano una cappella ed alcune casipole ed indicandomi una specie di stalla tutta nera, addossata ad una di quelle, mi dissero:--Ecco la casa del famoso Cicerone!--

Sostai per riposarmi sulle mura ciclopiche, godendo la vista splendida della campagna latina che da quell'altura tutta scoprivo. Il monte di Sora mi apparve di l? quasi una piramide d'Egitto accanto al Nilo; la citt? era immersa nell'ombra proiettata dal monte e si poteva seguire il corso del Liri, fra i monti maestosi che lo fiancheggiano. Si scorgevano pure la Posta, dove nasce il Fibreno, i Sette Fratelli dedicati ai figli della Felicit?, dove il monaco Alberico ebbe la famosa visione che precedette quella di Dante, dando probabilmente origine al poema di questi. Parecchie citt? e castella si staccavano biancheggianti sull'azzurro dei monti; si scorgevano Veroli, Monte S. Giovanni, Frosinone, Ferentino ed a fianco un monte piramidale, di forma strana, su cui sorge Rocca d'Arce; ed un altro su cui campeggia nel cielo la torre solitaria e scura di Monte Negro. Tutti questi paesi rimontano ai tempi di Saturno e stando su queste mura ciclopiche ricoperte di edera su cui sono passate migliaia di anni, si gode un maraviglioso spettacolo.

Su queste mura stesse si arrampicava un giorno il giovane plebeo Caio Mario, all'epoca in cui tutti i popoli, dalle Calabrie al Liri ed al mare Adriatico, erano insorti per la conquista dei propri diritti civili, e di l? il giovanetto tendeva lo sguardo verso il Lazio, verso quella gran Roma, cui erano rivolti nelle provincie i pensieri di tutti quelli che anelavano all'operosit?, alla fortuna. E questo ciclopico Arpino deve considerarsi quale culla adatta al sanguinario Mario, vera culla di gigante, la cui terribile e rozza natura porge un non so che di titanico, posta a contatto a quella aristocratica di Silla che con arti volpine gli attraversa continuamente la strada ed arresta costantemente il corso della sua fortuna.

L'atmosfera di Arpino ? impregnata di memorie di Mario e di Cicerone. Qui ci si trova in una delle sorgenti della storia; qui si visitano, con la stessa soddisfazione che reca nell'ordine fisico la loro ricerca, le fonti modeste, da cui ebbero origine i grandi fiumi che diffondono nel loro corso la fertilit? e la vita. La scienza di Cicerone si pu? veramente paragonare al fiume pi? maestoso della letteratura antica, accresciuto durante i secoli del medio evo ed a cui ancora oggi si ricorre con frutto; merito questo per? che non diminuisce affatto la sua vanit?, n? la sua debolezza di carattere. Mario, invece, fu uomo di grande energia ed il suo nome segna un'epoca nella storia di Roma e dell'impero, quando si pensi alla grande spinta da lui data a Roma ed al mondo. Senza di lui non sarebbe sorto l'impero; ed Augusto, Tiberio, Caligola, tutta quella serie di despoti, possono dirsi aver avuto origine da Mario ed essere stata Arpino la caverna del drago, da cui usc? l'impero romano.

La figura africana di Giugurta, la sua fine terribile nelle prigioni del Campidoglio, i Cimbri ed i Teutoni, che profetizzarono in certo modo la caduta di Roma per opera delle razze germaniche, la terribile guerra civile, la figura asiatica di Mitridate, Mario nascosto nelle paludi di Minturno, Mario profugo, seduto sulle rovine di Cartagine, Mario vecchio di settantadue anni che entra trionfante a Roma, l'uccisione dei fautori della proscrizione e, cosa strana, la morte tranquilla di un tal uomo; tutto ci? mi passava dinanzi come una lanterna magica e si accordava meravigliosamente col paesaggio. Poi ripensavo a Cicerone giovanetto, quando l'altro era canuto; alla caduta della repubblica preparata dalla guerra civile tra Mario e Silla, alla quale aveva assistito e attorno a Cicerone sorgevano le immagini degli oratori, degli uomini di stato pi? distinti della morente repubblica; le figure di Pompeo, di Cesare, di Antonio, di Ottaviano, di Bruto, di Cassio, di Catone, di Attico, di Agrippa e, finalmente, il ricordo della testa sanguinolenta di Cicerone stesso, esposta su quella tribuna, teatro un d? della sua splendida eloquenza.

La fantasia del mio lettore potr? completare questi ricordi storici, conseguenza naturale del luogo dove io mi trovavo; chiunque avrebbe pensato le stesse cose, trovandosi solo, dove sorgeva la rocca di Arpino.

Nello stesso modo che esistono punti elevati dai quali si scopre tutta la vista di una campagna, vi sono punti dai quali appare tutto il panorama della storia.

Arpino ? uno di questi punti e nel discendere da quell'altura mi tornava in mente il passo di Valerio Massimo, in cui ? riassunta concisamente, ma esattamente, la natura e la vita di Mario.

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Il rozzo Mario e l'astuto Silla con la sua fisonomia pallida, col suo aspetto effemminato, svogliato, sprezzatore di tutto, e dominatore nel tempo stesso di ognuno e di tutto, accompagnati dalla fortuna, sono due delle figure storiche pi? caratteristiche dell'antica Roma.

La regione, montuosa a sinistra, ? quasi deserta; di quando in quando appare un'antica torre medioevale, come quella di Monte Negro, od un dirupato castello come quello di Santo Padre. Si arriva sopra un'altura che divide le acque del Liri da quelle del Melfa e si passa in vicinanza di Fontana e di Arce, senza per? toccarle. Quest'ultimo borgo ha veramente l'aspetto di una fortezza inespugnabile e tale infatti fu ritenuta durante il medio evo; per? fin lass? riuscirono ad arrampicarsi e ad impadronirsene i Provenzali di Carlo d'Angi? cos? agilmente come gli zuavi dei nostri tempi. La caduta di Arce sgoment? tutte le citt? ghibelline del regno e fu preludio alla sconfitta di Manfredi.

L'antica rocca dei Volsci sorge su una rupe alta, scoscesa, dove ancora ne rimangono le vestigia, attorniate da mura ciclopiche, mentre la citt? moderna si stende sul pend?o del monte. La disposizione di tutti questi paesi ? identica; in alto la rocca, al disotto la citt?. Nella rocca si rifugiavano nel medio evo gli abitanti della citt? e delle campagne, quando erano minacciati dalle scorrerie degli Ungheri e dei Saraceni dell'Africa. Non ? possibile percorrere le sponde del Liri, soprattutto la ridente pianura di Aquino, senza ricordare il terrore che vi portarono una volta i Saraceni. Per ben trent'anni essi funestarono le contrade fra il Garigliano o Liri e Minturno, facendo scorrere per la Campania, la Tuscia e la Sabina, saccheggiando e distruggendo i monasteri di Montecassino, di S. Vincenzo al Volturno, di Subiaco e di Farfa, riducendo in cenere gli archivi e le biblioteche, perdita questa irreparabile. Solo nell'agosto del 910 poterono esser cacciati, da una lega italo-bizantina, per opera dell'energico papa Giovanni X, e un papa si orn? della gloria di essere stato il salvatore d'Italia.

Al disotto di Arce vi ? una dogana, denominata le Muratte; ivi mi fu chiesto il passaporto, ma fortunatamente non mi fu visitato il bagaglio. Avevo per? preso la precauzione, con l'aiuto del mio auriga, un giovane arpinate molto svelto, di nascondere accuratamente nella carrozza un libro, ed il manoscritto del mio giornale di viaggio che cavammo in trionfo fuori dal loro ripostiglio non appena la dogana fu oltrepassata. Da ogni parte si vedevano truppe che non disdicevano su questo antico teatro di guerra; nel vederle il mio pensiero correva sempre pi? a ricordare gli eventi storici di queste stupende contrade, poich? qui appunto ha principio il territorio storico dell'Italia meridionale. All'inizio del medio evo era ripartito in tre gruppi, gli stati longobardi di Benevento, Salerno e Capua; il dominio bizantino delle Calabrie e le repubbliche marittime, di Napoli, Amalfi, Gaeta e Sorrento. Tutte queste regioni passarono in seguito in possesso dei Normanni. Mentre tutti questi diversi elementi, longobardi, greci, imperatori germanici, papi, repubbliche, saraceni, erano fra di loro in continua lotta, la storia dell'Italia meridionale diventa veramente un caos. L'inferno di Dante non pu? dare che una debole idea di tutti gl'intrighi, le passioni, i delitti che si muovevano in questi stati, in queste corti. Purtroppo la storia di quei tempi manca ancora, essa ? un labirinto. Montecassino ne possiede sempre molti elementi nelle sue collezioni di diplomi, particolarmente riguardanti Gaeta. La rinomata opera di Giannone, pregevolissima per ci? che riguarda l'ordinamento civile, e quello della giustizia, non sempre ? esatta nel rimanente e non corrisponde pi? all'attuale progresso della scienza.

Arrivammo al ponte sul Melfa che ha conservato l'antico suo nome e che ? ancora, in ottobre, quasi asciutto nel suo ampio letto bianco e sassoso. Si pretende che esso abbia segnato una volta la linea di confine fra gli stati della Chiesa o ducato di Roma e il ducato longobardo di Benevento; ma la cosa ? tutt'altro che certa; sembra anzi assai pi? probabile che allora, come oggi, il Liri dividesse i due stati. Stavano accampati vicino al fiume, attorno ad un mucchio di fieno, dei soldati di cavalleria.

Poco dopo passato il ponte, comincia l'estremo Lazio, la bella campagna di Aquino e di Pontecorvo, irradiata dal sole, ed attraversata dalla magnifica strada che porta a Capua. Alla sua sinistra si leva la catena degli Appennini, di cui si scorgono la vetta del Cimarone ed i borghi di Castello, di Rocca Secca, di Palazzuola, di Piedimonte; pi? in l? sorge il monte Cairo, m?ta della nostra gita. Gi? si scorgevano gli edifici grandiosi e le cupole di Montecassino, l'Atene del medio evo, faro della scienza nella cupa notte di quei tempi. Col? Paolo diacono scrisse la sua storia dei longobardi.

A destra della pianura apparivano le cime azzurre dei monti Volsci, di natura identica a quelli di Segni e di Gavignano, e poi S. Giovanni Incarico, Pontecorvo, il piccolo territorio pontificio gi? possesso di Bernadotte e pi? lontano Oliva, Rocca Guglielma ed altri villaggi. Il Liri qui corre ai piedi dei monti, attraversa campi deliziosi che sembra non voler lasciare mai, perch? allunga la sua strada con mille sinuosit?; ad ogni passo accoglie il tributo di un ruscello o di un torrente e le sue acque risplendenti ai raggi del sole, sono veramente meravigliose. Con qual diletto non dovettero soggiornarvi i Saraceni! Certo essi non trovarono mai sponde pi? amene n? sul Guadalquivir, n? sul Sebeto, n? sul fiume Ciane. Molti popoli dopo l'epoca romana funestarono questo paradiso: i Visigoti con Alarico ed Atalulfo, i Goti valorosi di Totila e di Teia, gli Isauri, gli Unni, i Sarmati, i Greci; le orde terribili di Leutari e di Bucellino, i docili Longobardi che finirono coll'occupare tutte queste terre, col coltivarle e farle rifiorire, gli Arabi, gli Ungari, i Normanni, i Francesi, gli Spagnoli, i Tedeschi; tutti si accamparono qui e vi combatterono; tutti apparvero in questa Campania felice, chiave del regno di Napoli.

Pi? lontano noi scorgiamo anche i monti di fronte a S. Germano, su cui sorgono Rocca d'Evandro , S. Elia, S. Pietro in Fine, sui quali emerge l'alto Aquilone. La maggior parte di questa bella pianura apparteneva alla diocesi di Montecassino e parecchi di questi paesi, di queste citt?, debbono al monastero la loro esistenza.

Questa parte estrema del Lazio non ha la severa grandiosit? della campagna romana; le sue tinte sono pi? calde, pi? dolci, pi? meridionali, infine, la sua coltivazione ? assai pi? rigogliosa, n? vi sono tante colline.

Essendo giorno di fiera a S. Germano, incontrammo per strada molti contadini, vestiti come nella valle del Sacco e ciociari coi sandali. Le donne per?, anzich? il busto portavano un morbido panno con nastri sulle spalle e due vesti di cui quella superiore fatta a grembiale: questo modo di vestire fa una graziosa figura.

Qui, invito il lettore ad abbandonare la strada di Capua ed a piegare a destra, verso Aquino che giace in mezzo alla pianura. E' piacevole attraversare la linea recentemente ultimata fino a questo punto della strada ferrata di Capua che non pu? venire ancora esercitata poich?, se il governo napoletano si affrett? a compierla sul suo territorio, quello pontificio ? ancora arretrato sul suo, avendo appena oltrepassato Albano.

Aquino si pu? vantare di aver dato i natali a uno dei meno famosi imperatori romani, a Pescennio Nigro che vi nacque in umile condizione come Mario. Prode soldato, si distinse quale generale in Siria; dopo l'uccisione di Pertinace vest? la porpora, ma la dovette cedere presto all'africano Settimio Severo che lo sbalz? dal trono e lo fece prima imprigionare, poi decapitare. Maggior gloria procurarono ad Aquino due altri suoi figli. Sono due tipi che rappresentano due epoche e che si possono l'uno all'altro contrapporre, come le rovine di un tempio romano a quelle della basilica di S. Maria Libera. Quale maggior contrasto, infatti, di quello che passa tra Giovenale e S. Tommaso d'Aquino, fra il grande poeta satirico della corruzione pagana di Roma ed il pi? grande filosofo della sacra teologia scolastica, che ebbe il nome di Dottore Angelico? Si direbbe che questi due personaggi tanto diversi abbiano voluto sorgere entrambi in Aquino, nel modo stesso che la corruzione pagana di Roma richiedeva la rigenerazione cristiana.

Giovenale ci trasporta con le sue satire in quelle condizioni di Roma, preparate da Mario e consolidate dalla stirpe Giulia dopo la caduta della repubblica, in quella Roma, pantano sanguinoso, putrida palude morale, menzogna in tutto, dove ogni cosa era appestata, in quella Roma fisicamente e moralmente ammalata, tutta da comprare; dove patrizi e cittadini si affollavano famelici attorno ad un despota onnipotente, terribile come il fato; dove pensiero, parola, penna, erano avvinti in ceppi; dove unica libera era l'adulazione; dove non vi erano che idee servili, libidine di piacere ed una mostruosa prostituzione della natura; dove in quella folla lasciva e tormentata dalla volutt? e dalla paura, alcuni spiriti stoici, concentrati in s? stessi, davano sfogo alla loro nausea morale con la satira e con la storia, non appena lo consentiva un despota pi? temperato degli altri.

Giovenale nacque in Aquino; poco per? si sa della sua vita, come di quella della maggior parte dei poeti dell'antichit?, il che, del resto, non torna davvero a loro danno. Le loro persone assumono cos? quasi l'aspetto di un mito. Nessun erede, parente o amico indiscreto, pubblic? la loro corrispondenza; nessun giornalista descrisse con scrupolosa esattezza il loro aspetto esteriore nei pi? minuti particolari, non li accompagn? passo passo nella loro vita, partendo dalla culla; non tenne conto delle loro virt?, dei loro vizi, dei loro errori, dei loro debiti presso ebrei e cristiani e d'ogni altro loro imbarazzo. Due pagine bastano, alla vita oscura di Orazio, di Virgilio, di Ovidio; della morte di Eschilo e di Euripide, non rimane che una tradizione favolosa; l'arguto Terenzio scomparve tranquillo in qualche angolo dell'Ellade, presso la palude Stimfalica.

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